
12/09/2025
Nel corso della mia esperienza professionale ho avuto l’opportunità di lavorare sia nei sistemi di prima che di seconda accoglienza, fino ad approdare oggi alla supervisione. In questo cammino ho incontrato numerose storie di vita che mi hanno insegnato come i processi migratori non possano essere letti unicamente nella loro dimensione individuale, ma vadano compresi come fenomeni che coinvolgono intere reti familiari, comunitarie e sociali.
Il mio percorso in psicoterapia sistemico-relazionale, unito a un profondo interesse per la sociologia delle migrazioni, mi ha aiutato a sviluppare uno sguardo capace di accogliere la complessità: integrare le differenze culturali con le dinamiche affettive, tenere insieme i vissuti personali con i contesti di appartenenza, cogliere le interdipendenze più che le singole traiettorie. Come ricordava Gregory Bateson, non è possibile comprendere la vita psichica senza considerare il contesto relazionale e ambientale in cui essa prende forma. Allo stesso modo, l’etnopsicologia ci invita a non separare mai la dimensione culturale da quella emotiva, evitando semplificazioni riduttive.
Le riflessioni di Georges Devereux sul bisogno di un approccio transculturale e l’esperienza di Tobie Nathan nell’etnopsichiatria rappresentano, in questo senso, riferimenti fondamentali: entrambi offrono strumenti preziosi per leggere la migrazione come un evento trasformativo che ridefinisce legami, appartenenze e possibilità di futuro, più che come un semplice spostamento individuale.
Ogni incontro in questi contesti diventa per me una lezione di resilienza e di umanità. Porto con me sguardi, gesti e narrazioni come parte viva del mio modo di fare psicoterapia, nella consapevolezza che ogni storia custodisce una ricchezza di significati che merita di essere riconosciuta e rispettata.