22/12/2024
Umberto Galimberti
Da La Repubblica, 23 gennaio 2021
"Prelevare dalla fisica un termine (resilienza) per dire temperanza, fortezza e controllo di sé, significa trattare l’uomo alla stregua di un materiale fisico che resiste all’urto senza spezzarsi, e trascurare il fatto che l’uomo non è una cosa, perché in lui si agitano passioni, emozioni, sentimenti, angosce, dolori, fantasie, ideazioni, immaginazioni, sogni, sollecitazioni che provengono dal mondo che lo sollecitano e lo impegnano, lo illudono e lo deludono, lo esaltano e lo abbattono, in quel gioco vertiginoso, precario e incerto che è la vita, dove non basta resistere come vorrebbe la “resilienza”.
Quando lei non si sente “resiliente” alle prove della vita non è un motivo per abbattersi, perché vorrei sapere se i “resilienti” che sanno resistere sono ancora capaci di comprendere chi non ce la fa, e quindi di assisterli, confortarli, aiutarli. Se conoscono, oltre alla loro “resilienza”, anche la pietas, l’accudimento, il soccorso, la cura. Perché solo chi conosce la propria debolezza è in grado di comprendere la debolezza altrui e di saperla soccorrere con parole che non siano di generico incoraggiamento, ma di autentica partecipazione, che appartiene solo a chi ha vissuto quella che potremmo chiamare la “fatica di vivere” che, essendo comune a tutti gli uomini, genera quella che Schopenhauer chiamava “compassione”, nell’accezione più alta che non è quella di “compatire”, ma di “partecipare” a quel “patire comune di cui nessuno può dirsi immune.
Di partecipazione e non di resistenza alle difficoltà della vita abbiamo bisogno. Di socialità e non di orgoglio individuale ostentato da chi per una volta ce l’ha fatta, perché la precarietà dell’esistenza è sempre sulla soglia della nostra vita e può irrompere in qualsiasi momento, senza nessuna garanzia di potercela ogni volta fare senza l’aiuto dell’altro che conosce cosa stiamo vivendo per averlo a sua volta vissuto. Mettere in comune le sconfitte della vita mi pare molto più interessante che resistere, e decisamente più utile per tentare (...) di porre rimedio ai mali della società contemporanea regolata da un insopportabile ed esasperato individualismo."