Gabriella Marano - Criminologa

Gabriella Marano - Criminologa Gabriella Marano. Criminologa. Vivo e lavoro tra Latina, Roma e Milano. Da sempre, combatto la violenza di genere. Cerco la verità, in ogni dettaglio.

Ieri, nella splendida cornice della Protomoteca del Campidoglio, si è svolto il convegno “Libere dalla violenza”: un mom...
19/11/2025

Ieri, nella splendida cornice della Protomoteca del Campidoglio, si è svolto il convegno “Libere dalla violenza”: un momento intenso, ricco di voci autorevoli che hanno portato riflessioni, dati, esperienze e soprattutto urgenze.
Il filo rosso che ha attraversato tutti gli interventi è stato chiaro e unanime: la lotta alla violenza di genere non può essere vinta senza risorse adeguate, senza investimenti concreti e continui, senza un impegno strutturale che oggi, purtroppo, ancora manca.
Nel mio intervento ho voluto sottolineare un punto che non possiamo più ignorare: esiste un’ipocrisia di Stato.
Non possiamo chiedere ai centri antiviolenza, ai professionisti seri che tutti i giorni si sporcano mani e piedi, alle forze dell’ordine, agli operatori sociali di sostenere un’emergenza quotidiana senza strumenti, senza fondi stabili, senza percorsi formativi, senza strutture capaci di accogliere e proteggere.
Non si può più aspettare.
Non possiamo continuare a riempire le sale di parole, commozione e impegni morali se poi, nei fatti, chi combatte in prima linea resta solo. Servono decisioni politiche, serve coraggio istituzionale, serve una volontà reale di cambiare il sistema e di renderlo finalmente all’altezza delle vite che dobbiamo proteggere.
Il convegno si è concluso con una consapevolezza condivisa: la violenza di genere non è una fatalità, è una responsabilità collettiva. E ogni ritardo, oggi, si paga in vite.
.ssa.oriana.psicoterapeuta

Avere una sorella significa conoscere un tipo di amore che non si sceglie, ma si costruisce. Il nostro è un legame nato ...
18/11/2025

Avere una sorella significa conoscere un tipo di amore che non si sceglie, ma si costruisce. Il nostro è un legame nato per caso e cresciuto per volontà: attraverso cadute condivise, risate che solo noi capiamo, amori finiti che ci hanno rese più forti e quei momenti duri in cui non servivano parole, bastava esserci.
Le relazioni tra sorelle sono tra le più complesse e affascinanti dei legami familiari: un misto di identificazione e differenziazione, di complicità e distanza, di conflitti che non rompono ma modellano. La psicologia relazionale lo definisce un legame diadico evolutivo: significa che cresce con noi, cambia forma, si riconfigura, ma rimane una costante emotiva.
Nel rapporto tra sorelle esiste una memoria affettiva che non si può cancellare: conosciamo l’una le versioni dell’altra che nessun altro ha mai visto, e forse nessuno vedrà più. Per questo l’amore tra sorelle non è solo affetto: è testimonianza reciproca. È sapere da dove veniamo, ricordarci chi siamo state e, a volte, ricordarci chi possiamo ancora diventare.
Con mia sorella ho imparato che si può litigare senza rompersi, allontanarsi senza perdersi, cambiare senza smettere di riconoscersi.
E che, nonostante tutto, la sua presenza è un po’ come un punto di gravità costante: non importa quante volte la vita ci scuota, so che se mi volto lei è lì e io sono lì per lei.
Le sorelle condividono un tipo di amore che non ha bisogno di essere perfetto: ha solo bisogno di essere vero.

Domani vi aspetto al Campidoglio, presso la Sala della Protomoteca, per un incontro importante dedicato al tema della vi...
17/11/2025

Domani vi aspetto al Campidoglio, presso la Sala della Protomoteca, per un incontro importante dedicato al tema della violenza sulle donne.

In questi giorni siamo stati scossi dall’ennesimo episodio tragico: a Muggia, in provincia di Trieste, una madre con gra...
15/11/2025

In questi giorni siamo stati scossi dall’ennesimo episodio tragico: a Muggia, in provincia di Trieste, una madre con gravi disturbi psichiatrici ha ucciso il figlio di nove anni. Una donna a cui era già stato tolto l’affido proprio per la sua instabilità, che aveva già manifestato condotte violente e che aveva più volte minacciato il padre del bambino. Un gesto estremo, compiuto per punire e vendicarsi: il figlio trasformato in strumento di ritorsione. Fatti come questi non sono solo tragedie isolate. Ci parlano di una piaga che chi, come me, vive quotidianamente queste storie vede con crescente preoccupazione. Ogni giorno mi trovo di fronte a vicende in cui dobbiamo stabilire collocazione, responsabilità genitoriali e misure di tutela in contesti dove i figli diventano terreno di scontro, strumenti di ricatto, mezzi attraverso cui i genitori cercano di colpire l’altro. Sto seguendo proprio ora un caso emblematico: una madre completamente fuori controllo che, per punire il padre della bambina, prima ha inventato maltrattamenti inesistenti e poi, non avendo digerito un accordo raggiunto, ha accusato la zia paterna di abusi sessuali sulla minore. Il PM ha richiesto l’archiviazione, ma la madre e il suo entourage si sono opposti, formulando ulteriori accuse altrettanto infondate.
Qui non c’è una morte fisica, ma siamo di fronte comunque a una forma di annientamento psicologico ed emotivo della minore. Una violenza subdola, profonda, invisibile. Eppure, troppo spesso, queste madri trovano consenso e sostegno proprio da chi dovrebbe proteggere i bambini: servizi sociali, tutori, curatori speciali. Figure che, pur nella loro importanza, troppo spesso constatiamo che non possiedono l’esperienza o la maturità tecnica necessaria per comprendere davvero il caso, decodificarlo, coglierne la dinamica manipolatoria. E così finiscono, inconsapevolmente, per alimentare la distorsione. Il problema, in Italia, è amplificato da uno stereotipo di genere ancora radicato: l’idea che “la madre non può fare del male”, che la madre sia per definizione la figura che ama, che si sacrifica, che è più idonea a fare il genitore rispetto al padre. Questo pregiudizio pesa, condiziona e talvolta acceca. E porta a sottovalutare comportamenti gravissimi solo perché provengono da una figura femminile. Ma la realtà, dura e dolorosa, è che anche una madre può danneggiare profondamente i propri figli e che la protezione dei minori deve basarsi sui fatti, non sugli stereotipi. È urgente che chi opera in questo settore – magistrati, servizi, professionisti – si formi adeguatamente, acquisisca strumenti, competenze e la capacità di guardare davvero dentro ai casi. Perché quando un bambino viene usato come arma, quando diventa veicolo di vendetta, quando gli si mettono in bocca parole che non gli appartengono, la sua infanzia viene distrutta. E quella ferita non guarisce più.

L’autolesionismo (o cutting) è una delle problematiche adolescenziali più diffuse a partire dai 12-13 anni di età. È som...
12/11/2025

L’autolesionismo (o cutting) è una delle problematiche adolescenziali più diffuse a partire dai 12-13 anni di età. È sommersa, lo fanno di nascosto, chiusi nel loro silenzio e nella loro vergogna, nella loro paura e nella loro colpa. Il cutting consiste nell’infliggere al proprio corpo ferite o lesioni di qualsiasi tipo: tagli, graffi, bruciature, contusioni, con rasoi, coltelli, lamette, pezzi di vetro, forbici, compasso, con le unghie. Lo fanno perché ne hanno bisogno, è come un impulso irrefrenabile che non sanno controllare, una sofferenza interna che non sanno gestire, li invade e devono scaricarla sul corpo. È molto più diffuso di quanto si pensi e avviene anche tra adolescenti che all’apparenza stanno bene, si relazionano, studiano, hanno amici. Diventa un modo per alleviare una sofferenza psichica intensa, un’angoscia insopportabile, una sensazione di vuoto che sentono, di non esistenza.
Il taglio avviene in una situazione di forte tensione emotiva, di ansia, di rabbia, dove si configura uno stato dissociativo insopportabile che la ferita serve a colmare (nel cutting infatti è presente una grave dissociazione mentale, cioè una scissione vera e propria tra mondo cosciente e mondo inconsciente).
Subito dopo l’incisione, il taglio, e la vista del sangue che sgorga, ricompare uno stato di tranquillità. Si scarica tutta la tensione e la persona si ritrova a vivere un senso di torpore e di rilassamento. Evitano, dunque, con il taglio una catastrofe interiore che sarebbe ben peggiore di un dolore fisico.
Purtroppo la relazione tra autolesionismo e bullismo è veramente alta, circa la metà degli adolescenti autolesionisti subisce prevaricazioni da parte di compagni o di coetanei. Si viene presi di mira, schiacciati, denigrati per caratteristiche fisiche o psichiche, per alcuni tratti caratteriali, per i modi di essere e pensare che non sempre corrispondono alla massa. Quando si è autolesionisti si vive in uno stato di profonda sofferenza, di conflitti interni e spesso si arriva ad odiarsi, a odiare il proprio corpo che non si accetta più. E si arriva a farsi del male anche in altri modi, perché non c’è più autostima e non c’è più amore.
Cosa ne pensate?

Ricordare Giulia Cecchettin oggi significa tornare all’essenza di ciò che è stato cancellato: la vita, la speranza, il s...
10/11/2025

Ricordare Giulia Cecchettin oggi significa tornare all’essenza di ciò che è stato cancellato: la vita, la speranza, il sogno. Per molto tempo ho scelto il silenzio. Non per indifferenza, ma per rispetto. Perché ciò che ho vissuto accanto alla sua famiglia mi ha colpito in modo profondo, al punto da non trovare mai le parole giuste per lei e adeguate al dolore che la sua morte aveva sparso. Ora che il processo si è chiuso definitivamente, posso e voglio ricordarla senza il peso delle sentenze, senza la cronaca, senza la giustizia che, seppur necessaria, non basta mai a colmare il vuoto. Voglio ricordarla attraverso i suoi sogni, i suoi buoni propositi che amava scrivere all'inizio di ogni anno, anche di quel maledetto 2023, e le sue "cose da fare prima di morire". Scritti che conservo fra le mie cose più care e che spesso vado a rileggere, quando il suo pensiero ritorna, come ora, come oggi. Giulia voleva "salire su un tetto e guardare le stelle, arrampicarsi in cima ad un albero, accarezzare una pecora, ti**re una torta di panna in faccia ad un amico, imparare l'arabo, vedere l'aurora boreale, comprare un vestito ottocentesco (per quando sarò ricca), fare un pic nic  (con tanto di cestino), imparare a far saltare i sassi sull'acqua, mungere una mucca, inseguire un arcobaleno, costruire una casetta sull'albero" e tanti e tanti altri sogni ancora, dello stesso tenore. Desiderava cose piccole, ma autentiche, che raccontavano la purezza del suo sguardo sul mondo. Un giorno, sua sorella Elena mi disse: "Nessuna merita di morire così, ma mia sorella lo meritava ancora meno, perché era veramente pura”. Quelle parole hanno sempre racchiuso tutto per me, raccontandomi la dissonanza tra il male subíto e il bene che lei rappresentava.
Giulia è stata vittima di femminicidio, ma ridurla a questo sarebbe ingiusto. Era una giovane donna che sognava, studiava, creava, amava, immaginava. Ricordarla oggi, pulita da tutto ciò che è “dopo”, significa restituirle la sua verità: quella di una ragazza piena di desideri, di sogni e di vita. E farlo non è solo un atto di memoria. È un atto di giustizia umana e di gratitudine eterna per l'eredità che ci ha lasciato su questa terra.

07/11/2025
Dietro le quinte, accanto alla più grande genetista forense italiana.Più di dieci anni fa è stata la mia insegnante, ogg...
31/10/2025

Dietro le quinte, accanto alla più grande genetista forense italiana.
Più di dieci anni fa è stata la mia insegnante, oggi un' amica.
Un esempio di competenza, integrità e dedizione alla scienza.

Nel caso di Jessica, l’ennesima vittima di femminicidio, non dovremmo parlare di braccialetti elettronici. Non oggi, non...
29/10/2025

Nel caso di Jessica, l’ennesima vittima di femminicidio, non dovremmo parlare di braccialetti elettronici. Non oggi, non in questo caso.
Sì, è vero, il problema dei braccialetti, del loro mancato funzionamento e della loro gestione nel nostro Paese esiste ed è serio. Va affrontato, risolto, capito.
Ma non è questo il punto.
Il punto è che chi ha ucciso Jessica doveva stare in carcere, perché questo femminicidio arriva dopo una scia di reati e di violenza inaudita: maltrattamenti, atti persecutori, lesioni, violenza sessuale, guida in stato di ebbrezza, resistenza al pubblico ufficiale, uso smodato di alcol e droghe.
Una sequenza di segnali, di allarmi ignorati.
E allora non è un braccialetto che dobbiamo discutere, ma un sistema che continua a non proteggere.
Perché quando chi uccide avrebbe dovuto essere già dietro le sbarre, ogni discussione tecnica diventa solo una distrazione dal vero fallimento: la mancata tutela delle vittime. E ancora, e ancora, e ancora!

29/10/2025

La strada giusta non esiste. Esiste la strada che scegli di rendere tua.
Tutti, prima o poi, ci chiediamo se stiamo percorrendo “la strada giusta”.
È una domanda che sembra parlare di scelte concrete — lavoro, relazioni, futuro — ma in realtà ha una radice profondamente psicologica: nasce dal bisogno di controllo, dal desiderio di sicurezza e dalla paura di sbagliare direzione. Il problema è che la mente umana tende a immaginare la vita come un sentiero lineare, dove ogni bivio nasconde un rischio di fallimento.
Ma la psicologia ci insegna che la crescita non è mai una linea retta, bensì un intreccio di deviazioni, soste e cambi di prospettiva. Non esiste una strada giusta in senso assoluto: esiste quella che, passo dopo passo, impariamo a riconoscere come coerente con noi stessi.
Ogni percorso, anche quello che sembrava un errore, contribuisce a costruire la nostra direzione interiore. Spesso non è la meta a definire il cammino, ma il modo in cui lo abitiamo: la capacità di restare fedeli ai propri valori anche quando il terreno è incerto, di trasformare la paura in curiosità e la deviazione in occasione.
Scegliere una strada non significa mai trovare la certezza.
Significa accettare il rischio, ascoltarsi lungo il cammino e riconoscere che la bussola più affidabile non è fuori, ma dentro di noi.
Buona strada a voi...

Oggi in Senato: viene riconosciuta la nostra competenza e il nostro contributo in materia di violenza di genere e femmin...
28/10/2025

Oggi in Senato: viene riconosciuta la nostra competenza e il nostro contributo in materia di violenza di genere e femminicidi.
Si apre un capitolo importante.

COME GLI OGGETTI E I RICORDI CI AIUTANO NELL'ELABORAZIONE DEL LUTTO.È rimasta lì, la sedia a dondolo. La stessa di sempr...
27/10/2025

COME GLI OGGETTI E I RICORDI CI AIUTANO NELL'ELABORAZIONE DEL LUTTO.
È rimasta lì, la sedia a dondolo. La stessa di sempre, con il legno scuro levigato dal tempo e il profumo sottile di vernice e ricordi. La seduta in paglia intrecciata conserva ancora l’impronta dei giorni passati, di chi vi si è accomodato a lungo, lasciando tracce invisibili di sé. A volte, quando la guardo, mi sembra quasi di vederlo ancora lì, mio padre, che si dondola piano davanti al camino. Il movimento lento della sedia accompagnava le sue parole, i suoi silenzi, i suoi pensieri che sembravano mescolarsi al crepitio del fuoco. Era un gesto quotidiano, semplice, eppure pieno di significato. Quel dondolio costante sembrava misurare il tempo in un modo diverso: non con i minuti che scorrono, ma con i ricordi che si sedimentano. In quella sedia c’era tutto: la quiete delle sere d’inverno, l’odore della legna bruciata, la sicurezza di una presenza che pareva eterna.
Poi, quando la vita ha cambiato ritmo e lui non c’è stato più, quella sedia è diventata silenzio. Ma non un silenzio vuoto: un silenzio abitato, denso, come se ogni fibra del legno conservasse la sua voce. A volte basta sfiorarla o sentire il leggero scricchiolio del legno che si muove, per ritrovare per un istante la sensazione di averlo ancora vicino.
Gli oggetti, quando qualcuno che amiamo se ne va, diventano testimoni di una continuità invisibile. Non sono solo cose: sono prolungamenti della memoria, contenitori di emozioni. Restano lì a ricordarci che l’amore non svanisce con l’assenza fisica, ma cambia forma, si trasforma in un legame intimo che abita gli spazi e i gesti. La sedia a dondolo è diventata per me un simbolo di tutto questo: un ponte tra il prima e l’adesso, tra ciò che è stato e ciò che resta.
Elaborare il lutto non significa dimenticare, né spezzare il filo che univa due vite. Significa, piuttosto, imparare a riconoscere quella presenza diversa che rimane dentro di noi. Gli oggetti cari ci aiutano a farlo: permettono alla memoria di respirare, di non diventare prigione ma conforto. Ci ricordano che la persona amata continua a vivere in ciò che ha toccato, in ciò che ha amato, in ciò che ha lasciato.

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Latina
04100

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