05/11/2025
Oltre le statistiche: perché è necessario contare i femminicidi
In Italia non esiste un conteggio ufficiale dei femminicidi. Nel suo nuovo libro, Donata Columbro fa luce sull’assenza di dati affidabili legati alla violenza di genere, mostrando come l’informazione statistica possa diventare uno strumento di memoria e prevenzione.
di Giulia Mattioli
Nella società digitale, in cui tutto si misura, si conta, si archivia e si analizza, manca un dato clamoroso: quante donne vengono uccise ogni anno per il solo fatto di essere donne? Non lo sappiamo con precisione. Non in Italia. Non nel Regno Unito. Non in Francia, né negli Stati Uniti o in Russia. Eppure, il fenomeno del femminicidio - l’uccisione di una donna da parte di chi non accetta la sua libertà, il suo rifiuto, la sua autonomia - racconta qualcosa di profondo sulla nostra cultura. È la manifestazione estrema di una struttura patriarcale che punisce le donne quando smettono di stare ‘al loro posto’. Ma senza dati, senza analisi, questa forma di violenza dalla matrice così spiccatamente culturale rischia di perdersi tra le pieghe di una narrazione incompleta. Donata Columbro, giornalista e divulgatrice esperta di dati, affronta questo vuoto con il suo nuovo libro, Perché contare i femminicidi è un atto politico (Feltrinelli), offrendo un’analisi critica che riflette sul significato dei dati e sul modo in cui vengono raccolti, raccontati e usati nella narrazione pubblica.
Perché contare i femminicidi
“Il femminicidio non è un fatto privato, ma l’espressione di una violenza e di un abuso di potere sostenuto dalla struttura patriarcale delle istituzioni e di una cultura che vede l’egemonia maschile come normale, statisticamente e socialmente” scrive l’autrice, che nella prima parte del libro decostruisce con chiarezza una convinzione ancora molto diffusa: che i dati siano oggettivi, neutri, apolitici. Al contrario, Columbro mostra come la decisione di cosa contare, come farlo e con quali strumenti, sia essa stessa un gesto politico, che può riconoscere o insabbiare la violenza di genere, le sue cause, le sue ramificazioni.
In Italia non esiste un database pubblico, accessibile e aggiornato sui femminicidi. Non c’è un conteggio ufficiale. Il sito istituzionale preposto al monitoraggio della violenza di genere è spesso inutilizzabile o vuoto, fa notare la giornalista. I dati, quando ci sono, sono disomogenei, incompleti, aggregati in modo da rendere difficile qualunque lettura critica. E poche persone lo sanno. Anche molti giornalisti lo ignorano, afferma l’autrice del libro: “Diamo per scontato che se esiste un fenomeno sociale di particolare rilevanza qualcuno lo stia monitorando, misurando, attraverso una raccolta dati. Ma non è così. Produrre dati è una scelta politica, perché è una pratica costosa, in termini economici e di risorse umane. Per esempio, l’ultima indagine relativa alla sicurezza delle donne è del 2014, siamo indietro di undici anni, quella nuova dovrebbe uscire a novembre ma abbiamo un buco enorme di dati. L’unica analisi istituzionale delle sentenze sui femminicidi, è relativa agli anni 2017-2018, e invece dovrebbe essere fatta ogni biennio. Certo, bisogna coinvolgere tantissime professionalità e persone esperte, ma senza dati aggiornati non possiamo nemmeno sapere se le misure di prevenzione e le politiche di contrasto alla violenza stanno funzionando”. Questo è un tema cruciale: avere a disposizione queste informazioni è fondamentale per comprendere le dinamiche che portano alla violenza, individuare i fattori di rischio, migliorare le politiche di prevenzione, valutare l’efficacia delle leggi, salvare vite. Senza dati, anche la più severa delle leggi resta un guscio vuoto.
Nel suo libro, Columbro racconta con passione e rigore come contare non significhi semplicemente sommare, ma ricostruire storie, restituire visibilità a chi non ha più voce. Contare i femminicidi serve a riconoscere pattern comuni, errori sistemici, omissioni istituzionali, come quando una donna aveva già denunciato il suo aggressore, o quando l’autore del crimine era sottoposto a una misura cautelare ignorata. Non si tratta di un esercizio accademico, ma di un atto femminista e di giustizia sociale, rivendica con forza Columbro. Il suo è un lavoro di scavo, di cura, di memoria, e anche di costruzione politica: ogni donna uccisa è parte di un sistema, non di una tragedia isolata.
Ripensare al dato in chiave femminista
La prospettiva che l’autrice abbraccia è quella elaborata nel 2020 Catherine D’Ignazio e Lauren Klein nel libro Data Feminism, che propone sette principi per chi lavora con i dati, ispirati al femminismo intersezionale e attenti alle dinamiche di potere e privilegio che attraversano la società. “Il fatto che vengano raccolti dei dati su un certo argomento, o non raccolti, è una questione di potere, e il femminismo dei dati cerca di individuare chi detiene questo potere, ma anche di chi esercita un contro-potere producendo dataset e contro-archivi per colmare questi gap”, spiega Columbro.
Contare, in questo senso, è un gesto di resistenza. È guardare l’intero iceberg della violenza, non solo la sua tragica punta, ma anche la massa sommersa di disuguaglianze, di egemonia patriarcale, di maschilità tossica e silenziosa. È anche un modo per sostenere le donne vive, le sopravvissute, mostrando che non sono sole, che la loro esperienza non è un’anomalia, ma parte di un fenomeno strutturale, e quindi prevenibile. Si tratta di un approccio nato nei movimenti dal basso, spesso in risposta all’inerzia o all’inefficienza istituzionale: è il caso di María Salguero Bañuelos, che in Messico ha iniziato da sola a mappare i femminicidi nel suo Paese, diventando oggi una delle fonti più autorevoli sul tema. In Italia, realtà come Non Una di Meno e la Casa delle donne di Bologna fanno lo stesso: creano contro-archivi, raccolgono testimonianze, rendono visibile l’invisibile.
Il libro di Donata Columbro è anche un’accusa alle istituzioni che non monitorano, non misurano e quindi non agiscono. L’autrice cita, ad esempio, l’analisi di venti sentenze di femminicidio effettuata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta nel 2018 attraverso un approccio ispirato alla domestic homicide review, uno strumento già adottato nel Regno Unito e traducibile come ‘esame retrospettivo di un omicidio domestico’ (è uno dei metodi, sottolinea la giornalista, che potrebbe essere introdotto anche in Italia, investendo in risorse adeguate). In quell’occasione, la Commissione riscontrava che “Nell’ottica della valutazione dell’alto rischio, in diciannove casi il femminicidio era prevedibile. Molti di questi erano addirittura presumibilmente evitabili”. In 19 casi su 20, l’omicidio era prevedibile. Eppure, ancora oggi, ogni 25 novembre si mettono in discussione i numeri del femminicidio, si chiede alle femministe di essere ‘oggettive’, “Come se l’empatia e la rabbia con cui dopo ogni femminicidio scendono in piazza non le rendessero interlocutrici credibili”.
Il negazionismo dei femminicidi
“La spinta per scrivere questo libro credo sia arrivata dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, quando ho visto aumentare i commenti ma anche i contenuti editoriali, le dichiarazioni pubbliche di persone che in qualche modo negavano la portata dei femminicidi e della violenza di genere. Ho cominciato a osservare questo fenomeno della ‘negazione’ che è aumentato di mese in mese, finché oggi mi sembra praticamente ammesso come pensiero comune”, afferma Columbro. Ma perché si arriva a negare il concetto stesso di femminicidio? “Per rispondere occorrerebbe un altro libro intero”, scherza amareggiata. Basta dare un’occhiata ai post social in cui si promuove il libro per leggere commenti di utenti – soprattutto uomini, naturalmente – che si affannano a spiegare perché il concetto di femminicidio sia sbagliato, perché la portata del fenomeno non sia tale da preoccupare, e perché se qualche osservazione viene dalla galassia femminista non deve neanche essere presa in considerazione in quanto ‘faziosa’. “Si nega che le disuguaglianze di oggi siano il risultato di precise scelte politiche, e si preferisce considerarle come ‘naturali’. Se una donna dedica più tempo alla cura dei familiari, è perché sarebbe ‘portata’ per farlo; se non occupa posizioni di potere, è perché non è ‘adatta’. In questa visione, la violenza di genere non viene riconosciuta come una forma di oppressione strutturale: il patriarcato non esiste, la violenza è un fatto privato, e spesso la colpa viene ribaltata sulla donna stessa, per la sua libertà, per i suoi comportamenti, per non essersi ‘fatta proteggere’ da un uomo. Oppure la colpa viene attribuita a un capro espiatorio, lo straniero. Negare il carattere sistemico dei femminicidi significa, in fondo, dire che non c’è nulla di particolare: sono solo omicidi di esseri umani di sesso femminile, un fatto isolato, statisticamente irrilevante. E che le femministe ne parlano solo per ottenere visibilità o finanziamenti”.
“Non è la cifra esatta dei femminicidi a doverci interessare se vogliamo arginare il fenomeno, ma quello che può dirci ogni caso, ogni storia, quali sono gli elementi in comune di questi omicidi e quali sono gli abusi di origine patriarcale che hanno preceduto questa violenza estrema”, conclude l’autrice. “Scrivendo ho scoperto le storie di tante associazioni, attiviste, giornaliste che ‘contano’ i femminicidi e lo fanno proprio con questo obiettivo, ritrovare i segni delle oppressioni sistemiche contro le donne nella nostra società e restituire dignità alle donne uccise”.
Oltre le statistiche: perché i femminicidi vanno contati - d la Repubblica https://share.google/RjAbKYTOHOfME65hD