08/10/2025
Ciccio Ingrassia.
L’attore che rideva per non piangere.
Ciccio Ingrassia nacque a Palermo, nel quartiere del Capo, in un tempo in cui i sogni costavano meno ma pesavano di più.
Era il 1922, e la Sicilia si portava addosso polverosa miseria e la voce dei mercanti che gridavano nei vicoli.
Lui, Francesco per l’anagrafe, “Ciccio” per chiunque lo avesse incontrato anche solo una volta, non nacque artista. Nacque povero, come molti, ma con quell’ironia che in certi palermitani è una forma di sopravvivenza.
Fece di tutto: il barbiere, il falegname, il garzone. Ma in ogni mestiere ci metteva una mimica, una smorfia, una battuta, come se anche la realtà fosse una scena da recitare. E forse lo era davvero.
Poi arrivò Franco Franchi, e con lui il destino.
Due siciliani diversi ma complementari: uno, fuoco e istinto; l’altro, misura e malinconia. Franco e Ciccio — due nomi come due colpi di tamburo. Si trovarono sulle tavole del varietà, fra le risate e le luci tremolanti dei teatri di provincia, e da quel momento la loro vita diventò una lunga scena in due.
Furono amati, fraintesi, snobbati e riscoperti.
Girarono più di cento film, molti dei quali i critici non vollero capire, ma che il popolo imparò a memoria. E dentro quella comicità travolgente, spesso c’era il dolore di chi, per mestiere, deve far ridere anche quando non ne avrebbe voglia.
Ciccio era diverso da Franco.
Aveva nello sguardo la malinconia di chi sa che la risata è una maschera sottile. Quando interpretava il “serio” accanto al “matto”, sembrava quasi proteggere l’amico con la compostezza di un fratello maggiore.
Eppure, quando si allontanò dal duo, mostrò la sua vera natura d’attore.
Federico Fellini lo volle in Amarcord, e Ingrassia, silenzioso e preciso, seppe dire più con uno sguardo che con mille battute.
Elio Petri lo fece Onorevole in Todo modo film tratto dal testo di Sciascia, e lì la sua ironia diventò amara, feroce, cangiante: un uomo che ride mentre intorno tutto crolla.
Vinse il Nastro d’Argento, ma non se ne vantò. Diceva solo: “Era un bel copione, e l’ho detto come lo sentivo.”
Poi arrivò Luigi Comencini e il miracolo di Pinocchio.
Franco e Ciccio, trasformati in Gatto e Volpe, furbi e umani, comici e struggenti.
Per un’intera generazione, furono i veri maestri di quel burattino che voleva diventare bambino.
Nel loro modo di mentire per vivere c’era la verità di tanti italiani dell’epoca: poveri, ingenui, furbi per necessità.
Ma il destino, si sa, è un attore capriccioso.
Quando Giuseppe Tornatore cercava un volto per il suo Nuovo Cinema Paradiso, si racconta che pensò a lui, a Ciccio, per il ruolo dell’anziano Alfredo.
E lui, che aveva dentro quella malinconia perfetta per il personaggio, attese.
Ma poi la parte andò ad altri, e il film divenne leggenda senza di lui.
Ci rimase male
Nel cuore, però, restò sempre palermitano.
Non si liberò mai della sua terra, e nemmeno volle farlo.
La Sicilia gli rimaneva attaccata alle parole, ai gesti, alle pause.
Era la sua grammatica interiore: una lingua fatta di sguardi e silenzi.
Diceva: “In Sicilia la gente ride per non morire di malinconia.”
E lui lo faceva da sempre.
Negli ultimi anni, dopo la morte di Franco, si fece più silenzioso.
Come se il teatro si fosse spento e la vita fosse rimasta a recitare da sola.
Nel 1991 vinse un David di Donatello per Condominio, e fu un riconoscimento tardivo, quasi un risarcimento del tempo.
Morì a Roma nel 2003, ma in fondo non se ne andò mai: rimase negli occhi di chi lo vide fare una smorfia, una pausa, un inchino.
Ciccio Ingrassia non fu soltanto un attore comico.
Fu un uomo che trasformò il riso in filosofia, la povertà in poesia, la Sicilia in teatro.
Recitava anche quando non c’era nessuno a guardarlo.
Perché così è, se vi pare.
L'amore che avrei voluto ©️