11/10/2016
Il cerchio perfetto
Renata Puleo
GUARDARE
“The Perfect Circle”, film-documento di Claudia Tosi , è la storia degli ultimi giorni di vita di due malati terminali, una donna e un uomo, all’interno dell’Hospice Casa Madonna dell’Uliveto a Montericco Albinea, in provincia di Reggio Emilia . Il cerchio è quello del ciclo dell’acqua, di quella che ci è data biologicamente e di quella che andiamo perdendo. La polvere, a cui torniamo come recitano i testi religiosi, forse è solo ciò ce rimane dopo l’acque ceduta. Allora, suggerisce il titolo, è nella pioggia, nel fiume, nel mare che dobbiamo cercare chi abbiamo perduto.
E’ una storia vera, si suole dire delle trame che riproducono episodi reali, ma è una distinzione di comodo, ogni storia è la nostra in qualche modo, dunque vera. Quella di Meris e Ivano è la vita al tramonto, quella che hanno vissuto, ma lo sguardo discreto e intenso della macchina da presa di Claudia Tosi restituisce l’intensità e la robustezza di un racconto biografico, la lieve icasticità della poesia. Poche parole, quelle giuste, perché “ Do not go gentle into that good night”, come recita il sottotitolo, andarsene nell’ultima notte non sarà facile. Non è docile Ivano nell’accettazione della fine, non vuole lasciare andare Meris, il marito che l’assiste. Claudia Tosi sa di che si tratta, lo sa nella sua carne perché ha accompagnato la madre verso l’ultima notte. Racconta di questa esperienza come di un periodo doloroso e felice, di ritrovata intimità, fitto di ricordi e di progetti, i progetti del quotidiano, le piccole cose da fare ogni giorno, perché ogni momento ha il suo prezzo di sofferenza e la sua preziosità di regalo.
Nelle parole dei parlamentari si avverte il rispetto per la materia che affrontano. Si dicono consapevoli della necessità di mantenere il rigore freddo, lucido della Legge nella responsabilità verso l’oggetto fragile e terribile che maneggiano per scriverla.
La materia legislativa bio-politica chiama ad una lettura del particolare periodo storico-sociale in cui viviamo, in cui il corpo ch noi siamo rischia l’esposizione oscena alle regole del mercato, la regolamentazione occhiuta e governamentale delle sue funzioni. Nascita, salute, malattia, morte, tutto il cerchio perfetto delle nostre vite è spesso ostaggio della valorizzazione economica. Il corpo e la mente entrano nel computo del profitto, dei profitti realizzabili perché funzionino, e quando smettono di funzionare. Mantenimento, presa in carico, smaltimento. Così, quando da qualche parte possiamo incrociare percorsi diversi dove, pur nella rigorosa professionalità dell’approccio, uomini e donne accettano il confronto con la sacralità, nel senso laico della assoluta separatezza della vita dal commercio della vite, non possiamo che riacquistare fiducia e un senso profondo di gratitudine.
RESTARE
Ragionare sul tempo è riflettere sul suo esaurirsi, sulla sua quotidiana sottrazione, come nell’ etimologia del verbo spagnolo “restar”, sottrarre. Perché mentre il tempo delle ere, degli evi, delle galassie sembra andare eterno lungo la freccia tracciata da un qualche dio o da qualche grande bang, noi stazioniamo nell’infra di due eventi, un inizio databile, una fine che non potremmo esperire, che potrà essere esperienza di altri, di chi ci accompagna e può segnare quest’altra data, la cui notorietà è a noi preclusa. Ma questo tempo di mezzo non è solo un residuo. Il tempo che resta, che rimane da vivere ogni mattina al risveglio, per tutti noi a termine, è tutto quello cha davvero possediamo, al di là di ogni proprietà oggettiva e fittizia. Ce ne rendiamo conto quando comincia a scadere, per noi, per le persone che amiamo. Ci rendiamo conto che il malato, l’anziano che definiamo terminali, alla fine, ci somigliano molto, stanno solo vivendo una sorta di accelerazione, non così diversa dal nostro, temporaneamente sano, vivere il tempo.
Se non rifuggiamo da questo paragone fra le vite, quelle che si affacciano alla buona e ultima notte e quelle che ancora se ne sentono distanti, possiamo capire e apprezzare la cura del tempo che resta nella malattia e nella vecchiaia. Non si tratta di un residuo fra tempi produttivi, efficaci, come siamo soliti valutare una stasi nelle nostre vite. No, il tempo che resta a chi sta per congedarsi è uno spazio sospeso, un’attesa, come nel sabato ebraico esso prevede raccoglimento, attività dedicate all’introspezione, gesti lenti, parole accorte. Se Eros ci aiuta a fronteggiare Thanatos, se non facciamo altro che distrarci dal pensiero della nostra e altrui fine, forse potremmo adottare un atteggiamento più amichevole e più consapevole del legame fra le due divinità che governano la nostra vita, potremmo fare di ogni accompagnamento il nostro accompagnarci. Attesa, pazienza, una soluzione di continuità fra il discontinuo, verso un incontro.
Il fine-vita è un tabù prigioniero dei rituali e sequestrato dalle religioni. Spesso semplicemente, oggi, privato di ogni autentica spiritualità. Votata al consumo anche la malattia e la morte. Ogni attività di cura medicalizzata, burocratizzata nei protocolli; le cerimonie della sepoltura una compra-vendita di servizi; il lutto un trasbordo il più rapido possibile verso nuove vitali immemori occupazioni. Ma un altro approccio è non solo possibile a necessario. E’ un impegno etico, morale, politico. Interessa il comportamento di ogni giorno, è di interesse per la polis.
CADERE
Si può accettare la nostra caduta nel tempo che resta. Lo si può fare quando il suo restare prende la concretezza del tempo condiviso, amichevole. Lo è sia quello del professionista che mette mano –letteralmente – alla malattia come corpo e mente del malato, sia quello di chi volontariamente, al di là di ogni obbligo, si sottrae alla presa del quotidiano lavorio e spende un po’ del tempo c eh a lui resta per incrociarlo con quello di un uomo, una donna, caduti. Perché che si sia caduti nella vita, gettati da un altrove che non sappiamo rinvenire e spinti verso un altrove su cui nulla è dato sapere, è cosa certa. Ma se chi è credente trova un riscatto alla caduta, trova nel Libro una storia mirabile che la spiega, chi si pensa solo come una creatura fra tante può riscattarsi in un percorso di assunzione del nostro quotidiano precipitare come autonomia e come scelta. C’è qualcosa da scegliere, si può scegliere. Si sceglie la pietas, la compassione, la condivisione amorosa e amichevole. E in queste condizioni di umano accompagnarsi s può scegliere anche come morire e come lasciare andare chi sta morendo. La gravità è forza che non si contrasta, ma è possibile condurre per mano chi cade, talvolta, anche in piccoli spazi-tempo quotidiani giocare di inerzia e riempire il rallentamento di gradevolezza e di gioia.
Una nostra terapista ci racconta che l’anziano che segue, cade, cade spesso. Lei non si accanisce a cercare di fargli capire che deve essere più accorto (fermarsi? stare fermo? definitivamente?), non si spende perché smetta di cadere, gli insegna come rialzarsi. Mi è sembrata una buona metafora, un quasi apologo, del nostro impegno, dell’attività terapeutica, di quella di supporto, della presa in carico del fine-vita. Ne va della nostra, della sua qualità. Ecco perché Claudia Tosi e il marito di Meris parlano di gioia. C’è gioia nel dare la buona notte e c’è il buon auspicio perché lo sia la nostra.
RACCONTARE
Il film, l’ho detto, racconta. Racconta non solo le giornate dell’attesa, ma raccoglie anche il ricordo della vita trascorsa, lo fa con pudore, rispettando le diverse modalità di Ivan e di Maris di lavorare alla dolcezza e alla malinconia. Racconta attraverso gli sguardi, i gesti, le parole dei famigliari, la moglie di Ivan e il marito di Meris. E fanno pensare all’intimità dei corpi, quella della coppia che sono sati e ancora sono, quando l’altra, l’altro torna alle esigenze infantili, alla difficoltà ripsetto a tutto quello che si apprende per accedere all’età adulta: muoversi, assumere cibi, attendere all’igiene personale. E la passata intimità fa accedere a questa forma nuova di contatto fisico, non senza l’infinta malinconia per altre condivisioni. E’ un dolore, è una affermazione di amore, magari ritrovato.
Un giovane infermiere interviene durante il dibattito e dice qualcosa sulla sua esperienza che a noi torna come noto . L’importanza della storia di vita del malato, dei sui famigliari, del contesto che ha preceduto l’insorgere della malattia, il ricovero, l’ultima notte, il lutto successivo. Ne sottolinea la valenza di incipit alla presa in carico e di quella diaristica per farne un percorso significativo, anche di personale formazione. Nulla a che vedere con la freddezza tecnica di un’anamnesi, ma una modalità della conoscenza umana, professionale. Ci vuole attenzione e una buona dose di grazia.