01/08/2025
Vorrei parlare di una parola. Di una parola e di un uomo.
La parola è una di quelle che alcuni non hanno avuto - ed altri ancora non hanno - il coraggio di pronunciare.
Stava lì, nascosta. Come la fotografia scivolata dietro un mobile della cantina e dimenticata per anni.
Poi, oggi, è uscita dalla bocca di uno dei più grandi scrittori del nostro tempo, David Grossman.
Grossman è uno che non parla per caso e la parola che ha detto è stata genocidio.
"Per molti anni mi sono rifiutato di utilizzare questa parola” ha spiegato “Ora però, dopo le immagini che ho visto, quello che ho letto e ciò che ho ascoltato da persone che sono state lì, non posso trattenermi dall’usarla”.
E, credo, quando una parola del genere viene scoccata in questo modo, è difficile torni nella faretra. Perché non è solo un insieme di lettere connotate di senso. È un colpo, con una traiettoria ed un bersaglio. È una frattura con il rassicurante attimo precedente.
A Gaza, le case si accartocciano come scatole vuote. Le voci e le grida spariscono sotto il rumore delle bombe. E forse, chissà, con esse anche le preghiere di chi sopravvive. Sopravvive oggi, domani chissà.
Mentre, intanto, in un altro pezzo di mondo il cielo resta azzurro, la gente beve un buon caffè al bar, si lamenta del caldo, parla di vacanze.
Ma la parola resta.
Genocidio.
Ci sono persone, popoli interi, sensibilità religiose, che costruiscono la propria identità attorno a una ferita.
Una ferita che pulsa anche quando sembra chiusa.
Ma se quella ferita non la guardi, se non la rispecchi, se non la ascolti, non si cura certo da sola.
Casomai cresce e, ad un certo punto, inizia a parlare.
E non parla con le parole, ma con la paura, con la rabbia, con la violenza.
Il dolore che non trova spazio per essere rispecchiato si trasforma.
Può diventare confine, controllo, distruzione.
Ma nessun dolore, per quanto profondo, può giustificare l’uccisione perpetrata di migliaia di innocenti.
Nessuna storia può diventare la benda nera che ci impedisce di vedere le tragedie altrui.
Il trauma non è una giustificazione.
È uno strappo che chiede senso.
E se non lo guardi può trasformarsi in un’eco che si perde nel rumore dell’odio.
David Grossman, scrittore, israeliano, ha avuto il coraggio di guardare e di parlare.
Ha pronunciato quella parola che tanti ancora evitano.
L’ha detta “con immenso dolore e con il cuore spezzato”.
L’ha detta da dentro, da chi conosce il dolore di un figlio ammazzato e anche per questo - forse - ha deciso di non dissociare più il dramma collettivo di decine di migliaia di esseri umani uccisi.
E ora quella parola è un po’ più forte, più concreta, più autentica. È qui, nuda. E anche noi stiamo qui, di fatto a psicologizzare un termine mentre il popolo palestinese continua ad essere sterminato.
Spero possa essere una porta che ne apra altre, che rompa il tetto di cristallo del benaltrismo, dell’ “allora sei amico di Hamas” o, peggio ancora, “sei antisemita”.
Perchè questi non sono argomenti, ma primordiali difese.
Sono il tentativo della psiche di non frantumarsi davanti a una realtà dolorosa.
E per non vedere l’ombra, la si getta addosso a chi parla, chi scrive, chi viola un tabù.
Così chi testimonia viene trasformato in minaccia. E le minacce, si sa, vanno annientate.
Ma non è con le difese che si curano le ferite.
È con il coraggio di sentirle, di guardarle, di curarle, pur nel loro orrore.