22/10/2025
Il filtro della felicità
Da qualche giorno seguo con curiosità una pagina Facebook dove la gente chiede piccoli miracoli digitali.
Non proprio Lourdes, ma quasi: “Ecco una mia foto, mi fareste con gli addominali a tartaruga?”, “Potreste mettermi alla guida di una Ferrari?”, “Raccolgo funghi, mi riempireste il cestino di porcini?”.
È una specie di confessionale laico, dove invece dell’assoluzione ricevi un filtro, un ritocco e - forse - qualche like.
All’inizio sembra tutto innocuo, una giostra di ironia e leggerezza. Ma a guardare bene questa fiera dell’immagine, si capisce che dietro c’è una piccola grande fame. E non di funghi, ma di sguardi.
C’è chi vuole sembrare un riccone in barca, chi una star da copertina, chi al tavolo di un ristorante stellato. Qualcuno che insomma - quantomeno secondo gli standard di chi esprime il desiderio - valga la pena guardare due secondi in più.
Poi ci sono i desideri più oscuri o preoccupanti.
“Mio fratello ha una macchina nuova, per favore fatemela vedere distrutta. È solo per uno scherzo”.
“La mia amica ha un nuovo ragazzo, createmi una foto realistica in cui lui tiene un’altra per mano. È per ridere, tranquilli”.
O peggio: “Il mio ex mi stalkera da settimane, mi fate una foto con un uomo che mi tiene la mano sulla gamba? Così la vede e mi lascia stare”. Come se non bastasse dire: non ti voglio più. Bisogna far credere che un altro mi possieda, per essere libera.
O magari: “Non ho amici ed ho passato il compleanno da solo. Se vi mando una foto, mi mettete davanti una bella torta ed intorno tanta gente che mi festeggia?”.
A questo punto il terapeuta che è in me si aggiusta gli occhiali e sospira. Perché dietro ogni immagine che chiediamo di costruire, c’è un’immagine interiore che non vogliamo - o riusciamo - più a guardare e sostenere.
E quanto è difficile lottare per guardarsi dentro, quanto è difficile iniziare una psicoterapia, quanto è difficile combattere per raggiungere un obiettivo. E poi lo voglio ottenere davvero, o in fondo mi basta che gli altri pensino che l’ho ottenuto?
È come se il vero non servisse più, basta avere in tasca che un verosimile gli somigli.
E così, a forza di costruire mondi verosimili, diventiamo registi di noi stessi, spettatori stanchi del nostro film.
Cerchiamo conferme come caramelle, e più ne riceviamo, più abbiamo fame.
Perché ogni “mi piace” dura meno di un respiro, e nessuno ci insegna più ad ascoltare il nostro.
E allora succede che anche il dolore, quello vero, venga ritoccato attraverso il filtro di un meccanismo di difesa.
Si mette un filtro pure sulla solitudine, si alleggerisce l’ombra sotto gli occhi e si finge che tutto vada bene.
Ma dentro, il cuore resta da scaricare: non compresso, non salvato, ancora in attesa di uno sguardo che non giudichi la forma ma riconosca la sostanza.
Forse la vera modifica che ci servirebbe non è quella della foto, ma dello sguardo.
Quello con cui ci guardiamo quando non ci guarda nessuno. Quello che non ha bisogno di like per il verosimile, perché si mette in discussione per quel potrebbe essere. Nonostante tutte le apparenti imperfezioni.