
18/09/2025
LA MERAVIGLIA
La meraviglia — thaumázein — è il filo rosso che attraversa la filosofia antica, dalle prime riflessioni di Platone e Aristotele fino alle rielaborazioni degli scettici, degli stoici, degli epicurei e dei filosofi romani. In questo brevissimo viaggio esploro come i Greci e i Romani abbiano inteso la meraviglia non solo come origine del filosofare, ma anche come condizione psicologica ed etica che accompagna l’uomo nel suo rapporto con il sapere, il cosmo e se stesso.
Platone
Nel Teeteto, Platone mette in bocca a Socrate un’affermazione divenuta celebre: «Questo è proprio dell’uomo che ama la sapienza, meravigliarsi: infatti non c’è altro inizio della filosofia che questo» (Teeteto 155d). La meraviglia appare come esperienza di spaesamento e apertura: di fronte all’enigma del reale, l’anima si desta e desidera comprendere. Non si tratta di semplice stupore, ma di eros per il sapere, un desiderio ardente che spinge l’uomo a interrogare ciò che lo circonda.
Aristotele
Nella Metafisica, Aristotele riprende e approfondisce l’intuizione platonica: «È infatti per meraviglia che gli uomini, ora come al principio, cominciarono a filosofare; inizialmente meravigliandosi delle difficoltà più vicine, e poi, a poco a poco, avanzando in questo modo e sollevando problemi più grandi» (Metafisica A, 982b). La meraviglia non è quindi fine a se stessa, ma un moto naturale che avvia il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza scientifica. Per Aristotele, meravigliarsi significa percepire un limite, e trasformarlo in ricerca di cause e principi.
Scettici
Gli scettici antichi, da Pirrone a Sesto Empirico, reinterpretano la meraviglia in modo originale. Essa non è un trampolino verso la certezza, ma una condizione da coltivare. Di fronte all’inspiegabile, il saggio non cerca di superare la meraviglia, ma vi dimora, sospendendo il giudizio (epoché). In questo modo, la meraviglia diventa via alla tranquillità interiore: il non sapere non è più fonte di angoscia, ma di libertà.
Stoici ed Epicurei
Per gli Stoici, la meraviglia è sintomo di ignoranza: il saggio non si meraviglia, perché conosce l’ordine razionale del cosmo e vi aderisce. Epitteto ammonisce a non lasciarsi turbare da ciò che non dipende da noi, e in questo senso la meraviglia deve essere trascesa dalla disciplina della ragione. Gli Epicurei, al contrario, vedono nella meraviglia la radice delle paure superstiziose. Lucrezio, nel De rerum natura, descrive come gli uomini, incapaci di comprendere i fenomeni naturali, abbiano creato miti e dei. La filosofia epicurea vuole dissipare questa meraviglia ansiosa con spiegazioni atomistiche, liberando l’anima dal timore e conducendola all’atarassia.
Pensiero romano
I filosofi romani ripensano la meraviglia in chiave morale. Cicerone la considera una nobile disposizione, purché guidata dalla ragione. Seneca distingue tra uno stupore sterile, che paralizza, e una meraviglia fertile, che conduce alla contemplazione della natura e alla formazione interiore. In entrambi i casi, la meraviglia è messa al servizio dell’ethos: non semplice emozione, ma esercizio che educa l’anima.
La meraviglia non è solo un inizio del filosofare, ma anche una disposizione duratura. Platone e Aristotele l’hanno vista come apertura al sapere; gli scettici come sospensione; gli stoici come limite da superare; gli epicurei come fonte di ansia da dissipare; i romani come pratica etica. In tutti i casi, la meraviglia è forza psichica ed emotiva che plasma il rapporto dell’uomo con il mondo. Essa ci ricorda che la filosofia, ieri come oggi, nasce non dal possesso del sapere, ma dal coraggio di lasciarsi sorprendere.
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