Beatrice Valeriani Naturopata Consulente

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Beatrice Valeriani Naturopata Consulente Si riceve su appuntamento. Il mio augurio per te è: sii libero.

I percorsi che propongo, siano essi fisici, energetici, creativi, sono volti proprio ad aiutarti in questo cambiamento, così che l’essere diventi ben-essere, che la paura diventi consapevolezza e poi coraggio, che il tuo bisogno di essere ascoltato dagli altri diventi capacità di ascoltare te stesso, che il con-tratto diventi con-tatto, sciogliendo ciò che lo stress cristallizza, liberandoti da ci

ò che la rabbia e i rancori irrisolti hanno costruito intorno a te: una gabbia di cui (sorpresa!) possiedi la chiave…lasciando andare l’attaccamento alla certezza delle sbarre per aprire la porta e vedere uscire il dolore, la tristezza, l’ansia, che fino ad ora come pietre hanno rallentato il tuo andare.

23/08/2025

L’ansia è sempre un vuoto che si genera tra il modo in cui le cose sono e il modo in cui pensiamo che dovrebbero essere; è qualcosa che si colloca tra il reale e l’irreale.
(Charlotte Joko Beck)

𝐋𝐚 𝐠𝐢𝐧𝐧𝐚𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐫𝐞𝐬𝐩𝐢𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚Perché imparare a eseguire gli esercizi di respirazione? Perché alcuni disturbi come la tensio...
18/08/2025

𝐋𝐚 𝐠𝐢𝐧𝐧𝐚𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐫𝐞𝐬𝐩𝐢𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚
Perché imparare a eseguire gli esercizi di respirazione? Perché alcuni disturbi come la tensione cervicale, il mal di schiena, il reflusso gastroesofageo – nonché l’ansia e lo stress – possono trovare sollievo proprio grazie all’allenamento del diaframma.
𝐈𝐥 𝐫𝐮𝐨𝐥𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐝𝐢𝐚𝐟𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚
Il diaframma è una lamina muscolo-tendinea a forma di cupola che separa il torace dall’addome. È attraversato dai nervi frenici che hanno origine dalle cervicali (C3-C4-C5) e avvolgono internamente la gabbia toracica; termina con i suoi pilastri sulle vertebre lombari. È il più importante muscolo respiratorio. Ma è coinvolto anche in altre importanti funzioni. La contrazione del diaframma contribuisce, infatti, a esercitare pressione durante la minzione e la defecazione; per espellere il vomito; durante il parto; sull’esofago, per prevenire il reflusso.
𝐆𝐥𝐢 𝐨𝐬𝐭𝐚𝐜𝐨𝐥𝐢 𝐚𝐥𝐥𝐞 𝐟𝐮𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐝𝐢𝐚𝐟𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚
Respirare con il diaframma costituisce la modalità fisiologica di rifornimento del corpo umano. Può accadere però che fattori fisici o psichici limitino tale funzione. Si parla comunemente di dolore diaframmatico o diaframma bloccato per cause emotive, ovvero ansia e stress; cause posturali, (l’essere sempre seduti con la schiena curva riduce l’escursione del diaframma e ne provoca la contrazione); cause traumatologiche, tra cui fratture, colpi diretti alla gabbia toracica; cause patologiche, come asma, bronchiti croniche, polmoniti, disturbi gastrici, disfunzioni dell’apparato stomatognatico.
Pertanto, in ragione della sua posizione anatomica, un diaframma bloccato può provocare cervicalgia e cefalea; lombalgia; disturbi digestivi e intestinali, per l’effetto di compressione sui visceri sottostanti.
𝐈 𝐬𝐢𝐧𝐭𝐨𝐦𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐝𝐢𝐚𝐟𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚 𝐛𝐥𝐨𝐜𝐜𝐚𝐭𝐨
Una respirazione diaframmatica osteggiata si manifesta attraverso difficoltà a gonfiare la pancia durante l’inspirazione; difficoltà a fare respiri profondi; dolore dorso-lombare (nella parte centrale e bassa della schiena); dolori intercostali e interscapolari; cervicalgia; tensione e rigidità dei muscoli del collo; gambe pesanti e/o gonfie; parestesie degli arti; stasi a livello dell’addome e piccolo bacino; gonfiore gastrico; senso di ansietà; cefalea congestizia per deficit di drenaggio venoso o di apporto arterioso; cefalea da tensione meccanica; tosse e bradicardia; tachicardia.
𝐆𝐥𝐢 𝐨𝐛𝐢𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐠𝐢𝐧𝐧𝐚𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐫𝐞𝐬𝐩𝐢𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚
La ginnastica respiratoria rieduca alla respirazione diaframmatica, funzionalità già insita, per natura, nell’organismo umano. Motivo per cui gli esercizi respiratori mirano a rinforzare il muscolo diaframmatico; ridurre le tensioni nervose e muscolari; migliorare la mobilità articolare del torace; migliorare la flessibilità dei muscoli intercostali; regolare la velocità di inspirazione ed espirazione per un equilibrato dispendio energetico; ripristinare l’assetto posturale; allentare la tensione psichica.

Sono sufficienti 3 o 4 incontri per apprendere queste tecniche che potrete liberamente praticare a casa.
Per chi invece desiderasse un percorso più complesso e completo, sapete dove trovarmi!

18/08/2025

Narcisismo. Famiglia e figli.

Una famiglia dovrebbe poter essere percepita dai figli come un nido sicuro, come un'oasi in cui rifugiarsi, in cui sentirsi protetti, accolti, curati, amati, un luogo in cui ogni membro abbia la sua importanza, la propria libertà di espressione, in cui ciascuno possa vedere ascoltate le opinioni personali ed i suoi bisogni, possa sentirsi rispettato, in cui non si venga strumentalizzati, accusati, sminuiti, derisi, giudicati, repressi, violati psicologicamente e/o fisicamente.
Purtroppo la situazione è ben diversa nelle famiglie in cui uno dei genitori è un narcisista perverso, in cui tutti sono tenuti ad agire in funzione sua, dei suoi capricci, desideri, in cui tutti i valori poc'anzi citati, vengono soppiantati da abusi psicologici, fisici, ipercontrollo, distorsione od intensa negazione della realtà, mancato riconoscimento dei meriti, apparenza piuttosto che essenza, terrore di deludere il membro narcisista, insinuazione di sensi di colpa e complessi di inferiorità, inibizione nel muovere una qualsivoglia critica nei confronti di un despota.
In un siffatto nucleo, ogni disaccordo si trasforma in intimidazione, ogni confronto diretto in liti furiose.
In queste famiglie non esistono gusti personali, né opinioni proprie. Esse si fondano su regole cui ciascuno dei membri è tenuto ad attenersi, finché uno di loro (solitamente un figlio), non si ammala gravemente, facendo emergere la disfunzionalità dei rapporti al loro interno, o prende le distanze da tali dinamiche negative, deleterie, opprimenti, sofferte e squallide.
In genere, queste regole attengono:
1- al mantenimento del silenzio riguardo quello che accade tra le quattro mura, ben celato da una impeccabile apparenza;
2- all'omertà sull'infedeltà del genitore narcisista, cosa che pone i figli in balìa di emozioni contrastanti: reticenza a parlare per il timore di perdere il rapporto con il proprio genitore e la vergogna per il comportamento da lui assunto, irrispettoso nei riguardi dell'ignara madre.
A furia di somatizzare l'angoscia della ingestibilità delle situazioni disfunzionali e complesse generate dai genitori, i figli del narcisista perverso potrebbero manifestare una serie di reazioni emotive apparentemente inspiegabili: rabbia irriconosciuta, senso di vuoto, di inadeguatezza e di imperfezione, episodi d'ansia e di depressione, difficoltà a comprendere esattamente cosa provino, confusione per i limiti imposti, oscillanti tra estrema rigidità ed inesistenza degli stessi.
La cosa più significativa è che, quando diventano adulti, senza accorgersene e senza avere adeguatamente elaborato tali vissuti, potrebbero comportarsi esattamente nel modo in cui i genitori odiati si comportavano con loro. Si tratta di dinamiche intergenerazionali, destinate a ripetersi coattivamente, finché un membro della famiglia non se ne discosti, ponendo fine al circolo vizioso.
Con un genitore narcisista, i figli non possono sviluppare un autentico "Io", perché costretti a riflettere la disfunzionalità e conflittualità della coppia genitoriale. Così, se un padre narcisista svaluta costantemente la madre dinanzi ai figli, il figlio maschio imparerà a sminuire, screditare, minimizzare i meriti della sorella e/o delle donne con cui entrerà in relazione; se un genitore narcisista erge a prediletto uno dei figli, relegherà automaticamente l'altro nel ruolo di "capro espiatorio", perché gode nel generare tensioni tra gli altri membri della famiglia e perché necessita di realizzazione attraverso il prescelto e di proiettare gli aspetti inaccettabili di sè sull'altro. L'uno verrà dunque sacrificato sull'altare della propria gratificazione, l'altro impiegato come "cestino della sua immondizia psichica".
Un genitore narcisista ha difficoltà a riconoscere il figlio come un soggetto autonomo e potrebbe arrivare ad osteggiare in età adulta ogni suo tentativo di affrancarsi dalla famiglia, di creare una vita propria, boicottando le relazioni amicali e/o i rapporti di coppia che potrebbero in qualche modo allontanarlo da sé, osteggiando ogni forma di emancipazione, trovando un intoppo per ogni opportunità lavorativa od abitativa.
Ciò accade perché il genitore narcisista tende a vedere il figlio come un'estensione della propria persona, come uno strumento per soddisfare i propri bisogni e convalidare la propria grandiosità e riuscita in qualità di figura genitoriale. Questo non è indice di amore o di interessamento, in quanto il genitore narcisista è fondamentalmente distaccato e disinteressato riguardo i bisogni ed i desideri della prole, completamente assorto dalle proprie necessità e da ciò che vuole.
Inoltre, i genitori narcisisti, quando si sentono criticati o messi in discussione dai propri figli, o quando questi ultimi esprimono le proprie emozioni ad esempio piangendo od arrabbiandosi, possono mostrare rabbia ed aggressività in conseguenza delle aspettative disattese di convalida, del fastidio nel ricevere un'altrui richiesta di soddisfacimento di esigenze personali.
A differenza di un genitore sano disposto a fare sacrifici per il benessere dell'intero nucleo, un genitore narcisista potrebbe aspettarsi che siano i figli a farne e, pur di ottenere ciò che vuole, sarebbe disposto addirittura a mettere in secondo piano eventi importanti che riguardino la vita di questi ultimi (come ad esempio una cerimonia di laurea, una gara di atletica, una recita scolastica), anteponendo i propri bisogni, quanto pogrammato per allietare se stesso.
Il genitore narcisista può essere invadente, in quanto non concepisce il confine tra il proprio spazio personale e quello altrui: per lui non esiste l’alterità, gli altri sono un prolungamento del proprio Sè. Anche il bambino viene visto come uno strumento per convalidare se stesso e questa concezione gli fa arrogare il diritto di interromperlo qualsiasi cosa stia facendo, di inoltrare pretese, di porre domande inquisitorie, di essere infruttuosamente critico nei confronti di quelle che sono le sue scelte, di essere invadente, di fare commenti pesanti anche sull'aspetto fisico (perché così come accade per il partner, del cui corpo il soggetto narcisista sente di poter disporre a piacimento, stabilendone peso, abbigliamento, etc, lo stesso si verifica per i figli), nonostante questo possa metterlo a disagio.
A differenza di un genitore sano, che dispensi il proprio amore in maniera equa tra i suoi figli, nel caso del genitore narcisista si assiste a evidenti favoritismi: egli non mostra remore nel palesare la propria preferenza per un figlio piuttosto che per un altro, mettendo talvolta in competizione i fratelli e traendo soddisfazione dalla situazione conflittuale generata e dalla dimostrazione della propria influenza sullo stato d'animo degli altri componenti del nucleo familiare.
Pertanto un genitore narcisista potrebbe complimentarsi eccessivamente con un figlio, cui attribuirà il ruolo di "figlio d'oro" e parlare male dell'altro, bistrattandolo, screditandolo, relegandolo nel ruolo di "capro espiatorio". Nessuna delle due posizioni risulterà essere privilegiata, perché il figlio d'oro dovrà attenersi a quelle che sono le aspettative genitoriali, onde evitare ripercussioni dolorose ed il capro espiatorio sarà quello perennemente sminuito, individuato come cestino dell'immondizia degli scarti psichici genitoriali.
Le conseguenze di questo atteggiamento, oltre a ravvisarsi nel clima di competizione all'interno dell'ambito familiare, si manifestano sotto forma di disagio, di insicurezza da parte del figlio/capro espiatorio e di convinzione di dover assecondare a tutti i costi od impressionare il genitore narcisista, onde evitare la sua ira e per mantenere una buona posizione all'interno dell'unità familiare, mettendo perennemente in secondo piano le proprie esigenze, la realizzazione della propria stessa vita, nel caso del figlio d'oro.
I genitori narcisisti, inoltre, tendono ad incolpare i figli per meglio manipolarli e nel contempo per deresponsabilizzarsi. Perseverano nel colpevolizzarli e nel suscitare in loro sensi di colpa. Possono essere crudeli specialmente quando si sentono criticati, o quando percepiscono nei commenti dei loro figli una potenziale ferita narcisistica. Al pari dei soggetti con struttura borderline di personalità, potrebbero fare sentire i figli di peso, gravandoli di responsabilità che non hanno ("mi devo alzare presto per andare a lavorare, per dare da mangiare a te"; "sono così stanco, perché devo lavorare per provvedere a voi"; "avrei potuto fare chissà quale carriera ed invece, per stare al tuo fianco e crescerti, ho dovuto rinunciarvi"). La conseguenza di questo atteggiamento è:
- un'interiorizzazione di tale rimando genitoriale, che si tradurrà nella tendenza ad auto-colpevolizzarsi, ad incolpare se stessi continuamente, ad essere eccessivamente autocritici e poco compassionevoli nei propri riguardi;
- un'adultizzazione precoce del bambino, dovuta ad una inversione dei ruoli, perché è come se il genitore narcisista si aspettasse che il figlio gli facesse da caregiver, prendendosi cura di lui. Per riuscirci, ricorrerà ad atteggiamenti manipolatori, del tipo: "io ho sacrificato la mia vita per te, ho rinunciato a tante cose per crescerti e quindi adesso tu devi sentirti in debito nei miei riguardi, devi contraccambiare".

Dopo oltre 20 anni di ricoveri continui, interventi chirurgici e farmaci inefficaci, una donna, affetta da pancreatite c...
14/08/2025

Dopo oltre 20 anni di ricoveri continui, interventi chirurgici e farmaci inefficaci, una donna, affetta da pancreatite cronica, è finalmente tornata a vivere grazie a un trattamento a base di cannabis terapeutica. Il suo caso, risolutivo, è stato recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Cannabis Research e rappresenta il primo case report clinico italiano su questo tipo di approccio terapeutico in pazienti con pancreatite cronica e dolore cronico severo e refrattario. Lo studio è stato curato dal dottor Felice Spaccavento, Direttore UOC Cure Palliative della ASL di Bari, in collaborazione con il professor Silvio Tafuri dell' Università degli studi di Bari.

Affetta da una forma grave di pancreatite cronica recidivante, la paziente – oggi 54enne – ha vissuto per 24 anni tra forti dolori addominali, perdita del ciclo mestruale e una qualità della vita compromessa, a causa di un dimagrimento estremo, fino a 36 chili. Nessun farmaco tradizionale ha mai garantito un beneficio duraturo. E nemmeno l’impianto di una endoprotesi, eseguito in una struttura ospedaliera del nord Italia e poi rimossa perché infetta , è servito a curare la donna.

Tutto è cambiato quando la paziente si è rivolta presso uno degli ambulatori di Terapia del Dolore dell’ASL Bari, diretto dal dottor Spaccavento che le ha prescritto una terapia a base di olio di cannabis ricco in CBD (cannabidiolo).

“In pochi giorni il dolore è scomparso completamente. La valutazione di follow-up è stata effettuata per 16 mesi, da febbraio 2024 a giugno 2025, periodo nel quale non si sono più verificati episodi acuti, la paziente ha recuperato peso, appetito, sonno, e ciclo mestruale regolare e ha potuto sospendere tutti gli altri farmaci”, afferma Spaccavento, primo autore dello studio.

La pancreatite acuta è un'infiammazione improvvisa del pancreas, che si manifesta come dolore addominale acuto. Oggi il trattamento con cannabis potrebbe rappresentare una valida alternativa: privo di effetti collaterali – ha permesso un recupero clinico completo e duraturo, rendendo il caso un riferimento importante per la comunità scientifica.

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Gazzetta del Mezzogiorno
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Il caso risolutivo di una paziente affetta da pancreatite cronica e seguita dall'Unità Cure Palliative dell'Asl Bari pubblicato sulla rivista Journal of Cannabis Research

ATTACCO DI PANICO . Accade tutto in un respiro.O meglio, in ciò che sembra mancare a un respiro.All’inizio è impercettib...
14/08/2025

ATTACCO DI PANICO .

Accade tutto in un respiro.
O meglio, in ciò che sembra mancare a un respiro.
All’inizio è impercettibile: un’ombra sottile che si muove tra il petto e lo stomaco,
come un presagio che non ha ancora il coraggio di dire il proprio nome.
Ma il corpo la sente prima della mente. Sempre.
Il battito accelera di un ritmo che non hai deciso tu:
toc-toc-toc-toc, come un pugno sul portone della tua carne.
Le mani diventano improvvisamente estranee,
le guardi e non sembrano tue,
come se fossero state dimenticate al freddo per ore.
Una pellicola invisibile si stende tra te e il mondo:
senti i suoni più lontani,
i colori più opachi,
la pelle più fragile.
La gola si stringe,
il diaframma si blocca come un’ancora piantata nell’addome.
Ogni respiro diventa un compromesso,
un patto precario tra la vita e quell’aria che sembra non voler entrare.
È come se il corpo fosse un campo di battaglia e il nemico fosse interno:
il sistema nervoso simpatico apre il fuoco,
l’adrenalina scatta in circolo come un esercito in allarme,
il cuore urla ordini a colpi di tachicardia,
mentre i muscoli si tendono pronti a fuggire
anche se non c’è nessun lupo a inseguirti.
Eppure lo senti, quel lupo.
È dentro.
E non è fatto di zanne e pelo,
ma di memoria, di paure antiche, di dolori mai nominati.
Le pupille si dilatano per vedere meglio il pericolo,
ma ciò che vedono è solo la distorsione del presente.
Il tempo comincia a piegarsi,
ogni secondo diventa viscoso, irreale,
e tu sei lì, sospeso tra un “prima” e un “dopo”
che ti sfuggono dalle mani.
La mente inizia a gridare sottovoce:
“E se non respiro più?
E se muoio adesso?
E se perdo il controllo davanti a tutti?”
E in quel momento il corpo non distingue più la minaccia immaginata
da quella reale:
per lui è già una questione di sopravvivenza.
È l’istante in cui il mondo esterno diventa un’eco lontana
e il mondo interno diventa un uragano.
Non stai ancora cadendo, ma la caduta è già scritta.
Non stai ancora urlando, ma la gola già brucia.
Non stai ancora piangendo, ma gli occhi hanno già iniziato a trattenere
quel mare che sta per straripare.
E allora capisci che non serve un proiettile per uccidere, basta il corpo stesso, quando si convince che il pericolo sei tu.
Ed eccolo, il momento in cui tutto si spezza. Non c’è più “forse”, non c’è più “sta arrivando”: è qui. Ti invade come un’onda improvvisa, senza avvertimento, una marea nera che ti solleva e ti sbatte a terra nello stesso istante. Il cuore non batte più: martella.
Sembra voler uscire dal petto, spaccare le costole, come se volesse correre via da un corpo che non riconosce più come casa. Il respiro si frantuma in colpi brevi, aspiri e non basta,
espiri e non serve: l’aria non ti appartiene più. Il diaframma si contrae come una morsa, la gabbia toracica diventa una prigione. Un calore feroce ti sale dal ventre alla testa,
come se il sangue stesso fosse stato incendiato. Poi, subito dopo, il gelo: mani sudate e fredde, pelle che odora di paura, un tremore sottile che non riesci a fermare. Il cervello, intossicato dall’adrenalina, comincia a produrre pensieri che non puoi governare: “Sto morendo. Sto svenendo. Sto impazzendo.”
E il corpo, fedele solo alla biologia, risponde come se fosse vero: i muscoli si irrigidiscono pronti a scattare,
la vista si annebbia, il mondo intorno si inclina, l’udito si riempie di un ronzio lontano.
Se c’è gente attorno, non li vedi più per quello che sono:
diventano comparse sfocate,
fantasmi che si muovono in una realtà che non è più la tua. Il tempo perde i contorni: può durare un minuto o un’ora, ma per te è eterno. Ed è lì, in quell’apice, che la parte più fragile e la più selvaggia di te si incontrano. Una ti sussurra di arrenderti, l’altra ti spinge a fuggire ovunque, anche se non sai dove. E allora succede: o crolli, lasciando che il corpo faccia il suo naufragio, oppure resti in piedi, tremando, aspettando che l’onda passi da sola. E quando finalmente comincia a scendere, non senti sollievo, ma una stanchezza sacra, quella di chi è sopravvissuto a una battaglia invisibile che nessuno applaudirà. Perché nessuno l’ha vista, tranne te. E poi arriva il dopo. Un “dopo” che non è pace, ma neanche più guerra. Sei lì, come il mare dopo la tempesta: la superficie sembra calma,
ma sotto ci sono correnti impazzite, relitti di ciò che è appena successo, onde piccole che non smettono di sb****re contro la riva del petto. Il cuore rallenta, ma non ti fidi di lui. Ogni battito lo ascolti come se fosse un estraneo in casa tua. Il respiro torna, ma ha perso la sua naturalezza: lo senti rigido, controllato, come se dovessi ricordarti ogni volta di inspirare e di espirare. E questo pensiero, assurdo e terribilmente concreto, ti tiene sospeso in un filo teso tra l’ansia che se ne va e la paura che torni. Le gambe sono molli,
come se avessero corso chilometri senza muoverti di un passo. Le mani ancora umide,
il sudore freddo incollato addosso. Ti senti svuotato in un modo che non è solo fisico: è come se qualcosa, dentro, fosse stato strappato via, e al suo posto ci fosse rimasto un vuoto che non sai nominare. Ti guardi intorno e tutto sembra un po’ fuori posto, leggermente inclinato, come se il mondo fosse stato rimontato in fretta e male. Le voci degli altri arrivano ovattate, le parole non ti attraversano davvero:
è come se ti muovessi dentro una stanza piena di fumo, dove riesci a vedere solo sagome. Poi, piano, inizia la fase più silenziosa e crudele: quella in cui ti chiedi se sei ancora la stessa persona di prima. Perché un attacco di panico non ti lascia uguale: ti scava, ti cambia le mappe interne, ti obbliga a sapere che, da un momento all’altro, potresti crollare di nuovo. Eppure, proprio lì, in quel vuoto che resta, c’è anche qualcosa di vivo. Un battito lento, stanco, ma ostinato. La prova che sei ancora qui. Che, anche se nessuno applaudirà, hai attraversato un inferno e sei tornato indietro. E il corpo, tremante, anche se non lo sa ancora, ha appena imparato un’altra volta a sopravvivere.

Lucia ha deciso di raccontare pubblicamente qualcosa di molto personale. Durante una risonanza, scopre di avere due meni...
13/08/2025

Lucia ha deciso di raccontare pubblicamente qualcosa di molto personale. Durante una risonanza, scopre di avere due meningiomi ben annidati nel cervello. Dopo lo smarrimento iniziale, le viene consigliato un neurochirurgo di fama: guarda le immagini e sentenzia senza esitazione. Operare. Aprire, togliere, richiudere. E gli effetti collaterali? “Meglio non pensarci.”

Vedono un secondo specialista. Stessa risposta. Un terzo. Identico verdetto: bisturi, sala operatoria e rischi annessi.

Ma poi, per caso, Lucia incontra una dottoressa del San Lucia. Le racconta la sua storia e la dottoressa le consiglia di rivolgersi al San Raffaele di Milano, al reparto di neurochirurgia del Prof. Mortini, che aveva già risolto un caso analogo in famiglia.

Lucia riesce a incontrarlo pochi giorni dopo, durante una delle sue visite a Roma. Il Professore guarda la risonanza, la tranquillizza e le dice: "Niente bisturi. Noi usiamo il Gamma Knife. Niente tagli, solo raggi gamma che attraversano il cranio e distruggono la massa."

Due settimane dopo è a Milano. Alle 8 del mattino le mettono la struttura (quella che vedrete nella foto). La fanno sdraiare sul lettino di un macchinario simile a una TAC. Dopo due ore, il trattamento è concluso. Le tolgono il “casco”, la portano in reparto, e cinque ore dopo è libera di volare a Roma. Fine.
I meningiomi? Non ci sono più.

Lucia oggi si domanda: esistono due Italie? Quella informata e quella lasciata nel buio? Neanche il suo medico curante aveva mai sentito parlare del Gamma Knife. Figuriamoci alcuni neurochirurghi...

E c’è di più. La prima macchina Gamma Knife arrivò in Italia 30 anni fa, proprio a Roma, grazie a un neurochirurgo visionario che si formò in America e raccolse fondi per portarla nel Sud Italia. Fu installata al CTO. Ma dopo pochi mesi fu tolta di mezzo, chiusa in un seminterrato e... dimenticata. Dava fastidio a troppe persone.

Eppure il Gamma Knife non serve solo per i meningiomi, ma anche per molti tipi di tumori. Cercate:
“Gamma Knife – Radiochirurgia Stereotassica – Prof. Mortini”
E fate girare questa storia. Potrebbe evitare a qualcuno un intervento inutile. Potrebbe, semplicemente, salvarlo.

“Se anche solo una persona, leggendo questo, potesse avere un’altra possibilità… allora ne sarà valsa la pena.”
Lucia Bianco

E questa è una testimonianza potente che ci insegna una cosa fondamentale: bisogna sempre cercare soluzioni alternative, soprattutto quando in ballo c’è la nostra salute.

Ma ricordiamoci una verità scomoda: le malattie non si sconfiggono col bisturi, con le onde, ma si sconfiggono con la consapevolezza, la prevenzione, la natura.

Unicista Felice Motta – omeopata e naturopata straordinario – ha collaborato con la clinica svizzera che cura i tumori con approccio integrato. E affianca tutto a un lavoro potente sull’alimentazione.

Per chi vuole approfondire davvero, consiglio caldamente:
📚 i libri del dott. Arnold Ehret e del dott. Max Gerson (due cliniche all'estero).
🎥 e il canale YouTube di Alex di Gaia – una vera miniera d’oro per chi ha il coraggio di uscire dalla gabbia delle cure imposte.

Da leggere

Il trattamento Gamma Knife viene applicato in neurochirurgia per irradiare con precisione un tumore non aggredibile con altre tecniche. Il macchinario usato permette di somministrare alte dosi di radiazioni con estrema precisione sul bersaglio all’interno del cranio, in maniera non invasiva.

https://www.facebook.com/share/p/14JFtbfyjqu/
10/08/2025

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In Svezia è stato effettuato per la prima volta al mondo un trapianto di cellule pancreatiche allogeniche che producono insulina senza usare farmaci immunosoppressivi per bloccare il rigetto. Un risultato emozionante per la diabetologia che allarga il potenziale uso di questa tecnica. Le cellule, impiantate nel muscolo dell'avambraccio, hanno mostrato una limitata ma rilevabile attività funzionale, iniziando a produrre insulina. Il caso, che rappresenta una prova di principio di 'immunoescape' cellulare nell'uomo, è stato descritto in un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine da un team dell'Università di Uppsala, in Svezia.

Le cellule utilizzate nel trapianto fanno parte di una nuova terapia sperimentale chiamata UP421. Si tratta di cellule pancreatiche ottenute da un donatore, poi modificate geneticamente per sfuggire al sistema immunitario del paziente. Questo approccio - fanno sapere dalla Società italiana di diabetologia - nasce da una lunga fase di ricerca preclinica, condotta in particolare dalla professoressa Sonia Schrepfer, che in studi su modelli animali aveva già dimostrato come cellule così modificate potessero sopravvivere senza essere rigettate. Nell'uomo, è la prima volta che questa strategia viene testata.

L’articolo completo su Salute

{Percorsi}
10/08/2025

{Percorsi}

Le persone si rivelano nei terremoti.Non nei brindisi.Non nelle cene eleganti.Non quando tutto fila liscio e la vita pro...
05/08/2025

Le persone si rivelano nei terremoti.
Non nei brindisi.
Non nelle cene eleganti.
Non quando tutto fila liscio e la vita profuma di vaniglia.
Le persone si rivelano quando crolla qualcosa.
Quando arriva una diagnosi.
Quando manca il lavoro.
Quando tuo padre muore.
Quando non hai più forze.
Quando sei un po’ di meno.
Un po’ più fragile.
Un po’ più vero.
È lì che scopri chi resta.
Chi ascolta senza voler aggiustare.
Chi non ha paura del tuo buio.
Chi non ti molla la mano mentre tutto intorno trema.
Chi sa esserci senza fare rumore.
Il resto è compagnia da salotto.
Presenze da tavolo da aperitivo.
Storie da “mi scrivi quando vuoi”,
che poi non scrivono mai.
Nei momenti di crisi
la vita toglie il filtro.
E finalmente vedi.
Chi c’è.
Chi c’era solo per convenienza.
E chi, invece, è casa.
Sempre.
Anche quando la casa sei tu che stai cadendo.

Oscar Travino

Pare che la bellezza di una perla sia la risposta organica a un dolore.Le perle si formano dentro alcune ostriche o moll...
05/08/2025

Pare che la bellezza di una perla sia la risposta organica a un dolore.

Le perle si formano dentro alcune ostriche o molluschi bivalvi, quando un corpo estraneo – come un granello di sabbia o un parassita – penetra nella conchiglia. Il mollusco, ferito, comincia a ricoprirlo con strati e strati di madreperla, come a dire: “non ti posso cacciare, ma posso trasformarti”.
E così, piano piano, nasce una perla: non per bellezza, ma per sopravvivenza.

Io quelle perle le ho viste.
Le ho viste a scuola, ogni volta che il dolore entrava senza bussare…
e qualcuno rispondeva con grazia.

Una volta aveva gli occhi di Romina.
L’avevamo trovata che si perdeva, come solo ci si può perdere a 16 anni,
quando porti dentro dipendenze che nessuno vuole mai vedere.
Sembrava sabbia nella carne.
Ma un giorno l’ho rivista in classe. Occhi bassi, mani che tremavano, ma lì.
A ricoprire quel granello con qualcosa di suo.
A diventare, piano, una perla.

Un’altra volta era nelle mani di Giovanni.
Aveva perso un figlio.
Eppure ogni mattina veniva a scuola.
Non perché non sentisse il dolore. Ma perché ci costruiva attorno qualcosa.
Una battuta, una mano sulla spalla, una spiegazione paziente.
I suoi alunni erano le sue perle.
E lui lo sapeva: il dolore può diventare bellezza, se lo tieni stretto senza lasciarti affondare.

Le perle non nascono dal lusso, ma da un’intrusione. Da qualcosa che ha rotto l’equilibrio, che ha fatto male, che ha scomposto il tranquillo mondo dentro una conchiglia.

E allora il mollusco non scappa. Non può.
Fa l’unica cosa che può fare: risponde.
Risponde a quel dolore ricoprendolo di bellezza. Di madreperla.
Lo trasforma in qualcosa che, se lo guardi, pensi: vale la pena.
Anche se all’inizio ha fatto un male cane.

E succede anche a noi.

Succede quando ami qualcuno, e quel qualcuno ti scavalca i muri, entra dove non doveva, e ti fa paura. E poi succede che invece di chiuderti, apri. E cominci a costruire qualcosa di bello intorno a quella ferita.

Succede quando perdi qualcuno. Quando tutto sembra spezzarsi.
E invece, piano piano, ci fai un guscio nuovo attorno. Ci metti dentro ogni ricordo, ogni parola, ogni risata. E ne nasce una perla chiamata memoria.

Succede quando sbagli. Male. Male forte.
E poi ti rialzi. E ti dici: non posso cancellare quello che è successo, ma posso dargli una forma diversa.
E allora lo trasformi. In lezione. In svolta. In forza.

Perché sì, è vero: le ferite non sempre guariscono.
Ma possono diventare bellezza stratificata.
Come le perle.
Come certi sorrisi.
Come certe anime che hanno imparato ad amare proprio da lì: da dove hanno smesso di difendersi.

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