24/02/2025
Più che degli spiriti, la paura è quella di approfondire.
Reiki, post lungo
Ho conosciuto Reiki in un periodo particolare della mia vita. C’era la malattia, lo sgomento dell’intera famiglia per un ragazzina che non si sapeva se sarebbe rimasta o andata via ed un gruppetto di signore disse a mia madre che mi avrebbero trattato a distanza con il Reiki. Nella disperazione più totale, la risposta fu sì e loro iniziarono.
Ricordo l’immediato senso di beneficio, il mio prendere il telefonino dal cassetto del comodino accanto al letto nella mia stanza d’ospedale per mandare sms di “Per favore, potreste trattarmi ancora?” ed i commenti dei medici che, fermandosi fuori dalla porta della mia stanza dopo l’ennesima visita dicevano “Questa c’ha la pellaccia! Reagisce e non capiamo come!”.
Molto lontana da ogni conoscenza e impossibilitata a sorridere di un effetto placebo poiché veramente ridotta al lumicino, anche grazie a questo oggi son qui.
Giovane restituita alla Vita, dimentica di quelle signore che si erano prestate e volta a ricostruire una quotidianità andata perduta, ho scordato Reiki per lunghi anni, quasi dieci.
Invitata in un’associazione per tenere un mio corso di fitoterapia, la responsabile mi disse che, per presentare i vari percorsi, tenevano una serata preliminare gratuita e di ve**re a vederne una. “Questa settimana presentiamo il Reiki”, mi disse. “Vieni a vedere giusto per capire come organizziamo gli incontri introduttivi.”
Vado alla presentazione e…il sabato successivo sono già iscritta al corso di primo livello. Non ho mai tenuto il mio corso di fitoterapia in quel luogo.
Era Reiki che mi stava chiamando. Aveva atteso molto, ma, solo con un cenno, apparentemente casuale, ecco che quella fanciulletta che lo aveva conosciuto calva e costretta su una sedia a rotelle, ora tornava a casa.
Reiki è una disciplina spirituale, non è una religione e non ci distoglie da questa se ne abbracciamo una e la sua pratica è volta al riequilibrio della tripartizione dell’uomo: fisico, mentale ed emozionale.
L’operatore è solo un tramite ed il ricevente viene trattato, se lo desidera, senza alcun effetto collaterale, in una maniera che porta solo e sempre al massimo suo bene.
Che l’operatore non conosce, ma l’energia sì.
Nuocere non è in alcun modo possibile, anche se, ma davvero la vedo dura, l’operatore mettesse un intento malevolo perché quello che è il Rei agisce per donare armonia ed equilibrio secondo il principio di massima resa, minino sforzo, secondo quella semplicità che è propria del divino.
Come tutto ciò che è semplice, che non tenta di convincere di essere verità assoluta, che rende autonomi, che giova e che ci deve veder impegnati in prima persona (perché bisogna esserci per dare quanto per ricevere), si sviluppano intorno alla tecnica dicerie impastate di grande superficialità.
Spesso, sopratutto da persone molto religiose e chiuse in un dogma che impone loro di disprezzare tutto ciò che non conoscono e di convincere gli altri che stiano sbagliando, mi sono sentita apostrofare come la strega, quella non timorata di Dio, che osa allungare le mani su qualcuno per “guarirlo”.
Partendo dal fatto che proprio Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza e che “come in alto così in basso”, sono sempre stata entusiasta di potermi mettere a servizio ben conscia che non avrei ottenuto sempre un risultato in linea con il mio volere, che poco o nulla conta, ma sempre, come dicevo prima, con il massimo bene mio (perché la prima cosa che si apprende con lo Shoden, primo livello, è l’autotrattamento) e dell’altro.
Altra fantasia sul Reiki è che utilizzi l’energia dei morti.
I kanji della lingua giapponese difficilmente hanno un significato univoco. Questo capita anche con le parole in lingua italiana. Con quelle della lingua francese, poi, è all’ordine del giorno.
Troviamo il kanji Rei in molte parole giapponesi dal significato inquietante, come ad esempio Yūrei (fantasma) oppure Reikon (anima, spirito) oppure Bōrei (morto, fantasma) ma anche in termini sicuramente più rassicuranti come Reiyaku (medicina straordinariamente efficace), Reikan (ispirazione, afflato), oppure Reiki (energia straordinaria, energia spirituale).
Anche la parola Spirito, in italiano, si riferisce a qualcosa che non vediamo, ai morti, ai fantasmi, alla tenacia nell’affrontare la Vita, all’umorismo e, nondimeno, all’alcol etilico che la nonna utilizza per mettere a macerare le scorze di limone cosicché a Natale si possa avere un ottimo digestivo. Come mai, però, quando la nonna parla di cose sotto spirito, senza alcun timore, si tende il bicchierino magari anche per fare un bis?
Così, esattamente come descrive l’ideogramma, il Rei, l’Energia che sta in alto, porta verso di sé, al suo livello, il Ki, ovvero l’energia vitale del basso. Quest’ultima, attaccata ed attaccabile dagli eventi, poiché affetta dal giudizio duale, dal concetto di buono e cattivo, da quello di bene e male, tende a discostarsi dal “qui ed ora” portando grande sofferenza fisica, mentale ed emozionale.
Per questo, scopo ultimo della pratica Reiki è il raggiungimento dell’Hanshin Ritsumei, l’assoluta pace interiore. E, scopo ancora più alto, quella di portarla a coloro che gravitano attorno a noi.
La pratica di una qualunque “cosa”, posto abbia come base il non nuocere a se stessi e ad alcuno, deve non convincere l’altro, magari anche aggiungendo parole di critica sulla sua condotta, parole che turbano senza donare sostegno alcuno, che sia buona e sana di per sé, ma far sì che l’altro scorga in noi una scintilla di Luce, speranza, Amore tale per cui possa chiederci “Ma tu, cosa fai per affrontare così la Vita?”.
Colui che è saggio, illustra con molta semplicità ciò che lo aiuta a vivere e MAI convince l’altro a fare lo stesso. Ma, così come accade con i bambini, è l’esempio, il fare, l’Essere e l’esserci che contano.
E questo io faccio con Reiki, compagno di viaggio inseparabile che ho la fortuna di poter trasmettere, di “insegnare” e per il quale, studiando e dedicandomi, trovo, e, se non io, qualcuno più esperto di me, risposte quando i miei allievi pongono domande che non mi disturbano mai, ma, anzi, mi conducono ad una sempre maggiore profondità, ad interrogarmi in primis ed a far sì che non si perda un praticante. Ma non perché così “è uno di meno”, ma perché uno di meno nell’assoluta pace interiore è una grossa perdita!
Qualunque tecnica, disciplina, scoperta, conoscenza ha il dovere di scuotere, di farci muovere il primo passo da dove siamo fermi, ma, al contempo, di farci sentire sostenuti.
Chi intimorisce, facilmente ignorando, e da certe posizioni anche con dolo, chi giudica, non può donare nulla del suo sapere perché cerca di impartirlo con violenza.
Io desidero, così grata per ciò che ho, di esser capace di ricevere ma, al cospetto di un simile, sempre qualcuno che dà e mai qualcuno che prende e priva. Sempre qualcuno che sostiene e mai qualcuno che si traveste da colonna di un tempio…di carta pesta.