22/12/2025
PERCHE' SIAMO ATTRATTI DAI DELITTI?
Le storie delittuose esercitano da sempre un fascino profondo sull’essere umano. Non si tratta di una semplice curiosità morbosa, né di una deriva culturale recente legata ai media contemporanei. L’attrazione per il crimine affonda le sue radici nei meccanismi più antichi della psiche e del cervello, là dove la necessità di comprendere il pericolo, il male e la violazione dell’ordine si intreccia con il bisogno di dare senso all’esperienza.
Dal punto di vista psicologico, il delitto rappresenta una frattura improvvisa nella trama dell’ordinario. È la rottura di una regola fondamentale che garantisce la convivenza e la sicurezza. Il cervello umano è strutturalmente predisposto a intercettare ciò che devia dalla norma, perché ciò che infrange l’ordine segnala una potenziale minaccia. Di fronte a una storia criminale, l’attenzione si attiva immediatamente: l’amigdala segnala il pericolo, i sistemi di allerta entrano in funzione, la mente si orienta verso la comprensione di ciò che è accaduto. In questo senso, ascoltare o leggere storie di crimine non è soltanto un atto di intrattenimento, ma una forma di apprendimento indiretto. Comprendere il male diventa un modo per anticiparlo, riconoscerlo, evitarlo.
Le neuroscienze confermano questa dinamica mostrando come le storie delittuose attivino in modo potente i circuiti della predizione. Il cervello non è un organo passivo, ma una macchina che continuamente formula ipotesi sul mondo. Il crimine introduce un elemento di imprevedibilità radicale: qualcosa è accaduto che non avrebbe dovuto accadere. Questa violazione genera un errore di previsione che stimola il rilascio di dopamina, non tanto come piacere in senso stretto, quanto come spinta motivazionale alla ricerca di senso. Chi è stato? Perché lo ha fatto? Avrebbe potuto fermarsi? Cosa succederà ora? La narrazione criminale tiene il cervello in uno stato di attenzione sostenuta, alimentando il bisogno di chiudere il cerchio interpretativo.
A questo si aggiunge una dimensione profondamente sociale. Le storie delittuose coinvolgono intensamente i circuiti della teoria della mente, cioè quei sistemi che ci permettono di attribuire intenzioni, motivazioni e stati mentali agli altri. Il criminale diventa un enigma psicologico. Non basta sapere cosa ha fatto; occorre capire cosa pensava, cosa provava, quali ferite, quali conflitti o quali distorsioni lo hanno condotto a quel gesto. In questo senso, anche il male diventa un oggetto di empatia cognitiva. La mente umana è irresistibilmente attratta dal tentativo di comprendere ciò che sembra incomprensibile, soprattutto quando mette in crisi le nostre categorie morali e identitarie.
A un livello più profondo, simbolico e psicodinamico, le storie delittuose parlano all’Ombra. Come aveva intuito Jung, ciò che ci disturba e ci affascina non è solo ciò che è esterno a noi, ma ciò che risuona con parti rimosse o non riconosciute della nostra psiche. Il crimine mette in scena la possibilità della distruttività umana, mostrando cosa accade quando i freni simbolici e sociali saltano. Guardare queste storie permette di entrare in contatto con impulsi aggressivi, trasgressivi o distruttivi senza doverli agire. La narrazione diventa così un contenitore simbolico del male, un luogo in cui ciò che sarebbe intollerabile nella vita reale può essere osservato, pensato e trasformato in significato.
Esiste anche una funzione catartica e rassicurante. Le storie criminali, soprattutto nella loro forma narrativa classica, tendono a ricostruire un ordine: il delitto viene indagato, analizzato, spiegato e spesso punito. Questo processo offre un senso di controllo simbolico sul caos. La paura viene evocata, attraversata e infine contenuta dalla struttura del racconto. Anche quando l’esito non è consolatorio, il solo fatto che il male venga nominato e narrato restituisce una parvenza di comprensibilità a ciò che altrimenti sarebbe puro terrore.
Non è un caso che, nel mondo contemporaneo, il successo del true crime sia esploso. In una società segnata dall’incertezza, dalla frammentazione dei valori e dalla crisi delle grandi narrazioni collettive, le storie delittuose offrono trame forti, conflitti netti e domande morali radicali. Funzionano come miti negativi moderni, in cui il criminale incarna la perdita di forma dell’umano e l’investigatore assume il ruolo dell’eroe che tenta di ristabilire un senso. In queste storie non cerchiamo solo il colpevole, ma una risposta implicita alla domanda più inquietante: dove passa il confine tra normalità e abisso?
In definitiva, l’attrazione per le storie delittuose nasce dall’intreccio di meccanismi neurali, bisogni psicologici e funzioni simboliche profonde. Esse attivano l’attenzione e la curiosità, permettono un apprendimento indiretto del pericolo, sollecitano la comprensione della mente altrui, mettono in scena l’Ombra senza distruggere l’Io e offrono una forma narrativa capace di contenere la paura. Guardare il male, raccontarlo e comprenderlo diventa così un modo per restare umani senza esserne travolti. Ma siamo sicuri che sia davvero cosi' e si resti umani?
Forse la domanda più scomoda non è perché l’uomo sia attratto dai delitti, ma perché abbia così poche alternative simboliche altrettanto potenti. Il fascino del crimine non nasce dal desiderio del male in sé, bensì dal bisogno di intensità, di senso, di attraversare un confine. L’essere umano cerca esperienze che lo scuotano, che interrompano la monotonia del prevedibile e lo mettano in contatto con qualcosa di vero, di essenziale. Quando queste esperienze non trovano spazio in forme creative, rituali o relazionali, finiscono per cercare rappresentazione nel negativo.
Eppure esistono altre vie. La stessa tensione che porta a guardare il delitto può trovare espressione nella creazione artistica, nella narrazione, nel mito, nella musica, nella ricerca interiore, persino nel confronto autentico con il dolore e il limite senza trasformarlo in spettacolo. Ciò che attrae non è la distruzione, ma l’intensità emotiva e simbolica che essa sprigiona. Quando l’uomo riesce a incontrare questa intensità in forme che generano senso anziché paura, il bisogno del delitto perde centralità.
Forse il vero problema del nostro tempo non è l’eccesso di storie criminali, ma la povertà di narrazioni alternative capaci di parlare con la stessa forza dell’anima umana, senza dover passare attraverso il sangue.