Amore e riverenza
Vi siete mai chiesti come mai nella relazione affettiva ci si innervosisca così tanto e facilmente? Può capitare, anzi, di pensare che più si sia legati con qualcuno e più si sia facile lamentarsi di qualcosa. Naturalmente, non è esattamente così: è difficile dare prove sperimentali di questo concetto per via della grande volubilità delle dinamiche umane in ambito di relazioni e della complessità dell'individuo; eppure, possiamo pensare a una sorta di sistema per questo. Criticare il partner implica infatti un certo investimento emotivo sulla cosa per cui ci si è stizziti e, come prodotto, una certa quantità di motivazione nel criticare. Queste quantità possono cambiare di giorno in giorno se non di ora in ora, ma ci sono delle situazioni per cui con x persona ci arrabbiamo mentre con y persona no.
Delle persone con cui ci relazioniamo abbiamo delle immagini in mente e automaticamente e inevitabilmente le categorizziamo secondo certe caratteristiche. Se nella nostra testa il nostro datore di lavoro ha tra le mani il potere di decidere se questo mese porteremo il pane sulla tavola o meno, tenderemo a fare molta attenzione a ciò che facciamo, alle nostre mansioni, alla supervisione cui siamo sottoposti. Anche se si tratta di un leader accomodante, malleabile, poco assertivo, sappiamo comunque di avere dei limiti di azione possibile. Un limite, in generale, è certamente la legalità: integriamo la norma nel nostro senso morale e la rispettiamo, ma ancora di più integriamo un certo tipo di rispetto verso il nostro capo nella misura in cui diamo valore al nostro stipendio. In un certo senso, potremmo dire che più diamo valore al nostro obiettivo, più saremo motivati a preservarlo; e più saremo motivati a preservare l'obiettivo, più attribuiremo importanza alla risorsa che ci concede il presentarsi dell'obiettivo. Questa è la regola generale, la quale, tradotta, significa che quanto più il nostro stipendio è importante nella nostra vita, tanto più
Fenomenologia del ghosting
Il fenomeno del ghosting ha ottenuto attenzione grazie alla stampa popolare; le indagini cliniche scarseggiano rispetto all'attuale significato etimologico di dissoluzione relazionale. Originalmente postato nel 2006 su Urban Dictionary, il termine "ghosting" ha continuato ad avere diffusione nel linguaggio popolare, e viene descritto come "l'atto di sparire dalla vita dei propri amici senza lasciare traccia o cancellando i piani senza altre possibilità o con poche possibilità". Sappiamo, però, che nell'attualità l termine viene utilizzato perlopiù per indicare un allontanamento fisico ed emotivo dalla persona con la quale si sta intrattenendo una relazione o una frequentazione in senso romantico; senza contare i casi in cui il ghosting avviene negli incontri one night stand, dove dopo essere andati a letto insieme, semplicemente si sparisce.
In un'indagine del 2014, gli americani hanno ammesso di aver avuto esperienze col ghosting sia come perpetratori (o ghoster) che come non perpetratori (o ghostee). La dissoluzione della relazione può avvere bilateralmente o unilateralmente: per esempio, per mutua scelta, oppure, nel secondo caso, nella decisione individuale. Il ghosting, in effetti, è distinto da altre forme di dissoluzione della relazione, poiché avviene in assenza del partner ghostato. In altre parole, quando un partner della relazione ne ghosta un altro, l'impatto immediato è semplicemente un'ambigua mancanza di comunicazione. Benché l'idea di finire una relazione tagliando i contatti sembri difficile, le attuali forme di tecnologie stanno facendo sì che il ghosting sia una strategia di dissoluzione relazionale sempre più prominente.
Ma la domanda è: perché si ghosta? Innanzitutto, bisogna specificare che potenzialmente ogni persona può farlo, a dispetto della situazione, del rapporto con la persona, del momento di vita di cui si sta facendo esperienza. Il distinvestimento emotivo, per come si presenta oggigiorno, ha delle determinazioni e
Lo psicologo sui social: sì o no?
In passato abbiamo già parlato di marketing di se stessi, della relazione suggestiva col terapeuta e dei doveri dello psicologo. Ma, tutti uniti insieme, questi argomenti ci portano a considerare il ruolo dello psicoterapeuta in vista dell’era digitale e della sua presenza sui social. Il codice deontologico degli psicologi, di fatto, mostra quello che potremmo impropriamente definire “un vuoto normativo” in materia di piattaforme digitali. L’articolo 40, per esempio, recita: <<[…] lo psicologo non assume pubblicamente comportamenti scorretti finalizzati al procacciamento della clientela>> e afferma che <<[…] il messaggio deve essere formulato nel rispetto del decoro professionale conformemente ai criteri di serietà scientifica ed alla tutela dell’immagine della professione>>.
Queste due frasi sono sicuramente solenni nella loro enunciazione, eppure non mi dicono chiaramente se posso fare un TikTok in una certa maniera oppure no. Qual è allora la discriminante? Cos’è che è decoroso per la professione e perché? Una certa fetta di persone ritiene che, per uno psicologo, fare balletti o indicare scritte in un video di 15 secondi non sia professionale; ma la realtà è sempre più complessa di certi giudizi affrettati e generalizzanti: TikTok, InstagramTV, Youtube… sono soltanto dei media, e ciò che viene veicolato attraverso queste piattaforme ha solo delle espressioni diverse nella forma, ma entro certi limiti, è il professionista ad avere la capacità di manipolare il contenuto e di diffondere certe informazioni. Le nozioni più fatalistiche, ad esempio, sono sempre quelle più accattivanti, più clickbait: <<10 modi in cui affrontare il litigio col tuo partner>>, oppure <>, o ancora <>. Funziona un po’ come per l’oroscopo, o i test di personalità su internet: l’effetto Forer ti fa identificare in una descrizion
La depressione come stato infiammatorio
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Dati sempre più in aumento suggeriscono che le risposte infiammatorie hanno un importante ruolo nella patofisiologia della depressione. Nei pazienti depressi sono stati trovati livelli molto alti di citochine infiammatorie, proteine da fase acuta, chemochine e molecole da adesione cellulare. Inoltre, la somministrazione terapeutica della citochina interferone-alfa porta alla depressione fino al 50% dei pazienti. Le citochine proinfiammatorie, si è scoperto, interagiscono con molti domini patofisiologici che caratterizzano la depressione, incluso il metabolismo dei neurotrasmettitori, la funzione neuroendocrina, la plasticità sinaptica e il comportamento. Lo stress, che può eventualmente collassare nella depressione, può promuovere le risposte infiammatorie attraverso effetti sui percorsi nervosi dei sistemi simpatici e parasimpatici. Infine, la depressione potrebbe essere un comportamento da effetto secondario dei vantaggi adattivi conferiti dai geni che promuovono l'infiammazione. Queste evidenze suggeriscono che colpire le citochine proinfiammatorie e i loro percorsi, per così dire, segnaletici, potrebbe rappresentare una nuova strategia per il trattamento della depressione. Sebbene parlare di depressione in termini patofisiologici suoni forse un po' strano per un disturbo mentale, non è sicuramente una novità l'approccio integrato; su una rassegna completa, per quanto non aggiornata, è storico l'articolo di Raison, Capuron e Miller. Mentre e corpo non sono entità separate, e credere che il sintomo sia solo psicologico, dovuto ad esperienze e contingenze, o solo somatico, dovuto ad uno squilibrio chimico cerebrale, equivale a fare del banale riduzionismo. Anche per questo spesso mi arrabbio verso chi accusa la ser
I farmaci antidepressivi funzionano? L'effetto placebo
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🌍 Nel 2002, Irving Kirsch, un professore dell’Università del Connetticut, pubblicò uno storico articolo dal titolo “The Emperor’s New Drugs”, ossia “Le nuove droghe dell’imperatore”. In questo scritto si parlava dell’uso degli antidepressivi, e in particolare di una nuova generazione di farmaci che da quasi 30 anni domina il mercato: gli SSRI. Gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), come il Prozac, lo Zoloft, il Cipralex e molti altri, sono diventati la categoria maggiore di psicofarmaci utilizzati, con una preferenza di oltre il 70% rispetto ad altri antidepressivi. Tenendo conto che il 5% della popolazione soffre di disturbi depressivi, si può ben immaginare l’introito delle case farmaceutiche e la spesa per le istituzioni, anche grazie allo stesso monopolio. Kirsch, dicevamo, stilò un paper, riportando i dati che aveva approfondito nei suoi studi. Si rivolse alla Food and Drug Administration, l’ente che si occupa di controllare l’approvazione dei farmaci, e prelevò la documentazione completa relativa agli antidepressivi più prescritti dagli psichiatri. Ciò che scopri è ancora oggi sconcertante. Il miglioramento dovuto al placebo aveva una dimensione pari all’82%, e quindi solo il 18% della risposta positiva era dovuta all’antidepressivo. Inoltre, anche quel 18% di efficacia effettiva poteva essere un dato mistificato dallo scoring di un test “carta e matita”, raggiungendo così un risultato “clinicamente insignificante”.
Come se queste evidenze non bastassero, Kirsch scoprì che il 57% degli studi finanziati dalle case farmaceutiche avevano di fatto dimostrato esplicitamente che gli SSRI erano uguali o inferiori al placebo, ma questi dati non furono mai pubblicati sulle riviste scientifiche. In studi successivi di altri ricercatori, poi, si sarebbe confermato che grazie agli effetti collate
La musica nel cervello - linguaggio e semiologia
La musica può funzionare come un tipo di approccio sensoriale alla persona, tanto che se ne è fatta, col tempo, una terapia, detta appunto musicoterapia. La musicoterapia ha una sua efficacia comprovata, ma il suo effetto non è solo dovuto ad un'elaborazione emotiva dei suoni: non vi troviamo semplicemente il legame ad un ricordo particolare di un evento di vita, né un'analisi semantica del testo di una canzone, né tantomeno un'associazione a note, timbri e tonalità a cui associamo una certa emozione. La musica, infatti, è linguaggio. Le parole stesse hanno una vocalità, una frequenza, un'ampiezza, un'intensità, e, in ultima analisi, hanno una musica che noi traduciamo come cadenza. Cadenza che ha una connotazione paraverbale nell'interpretazione cognitiva che vi diamo; ad esempio, riusciamo a dire se una persona è arrabbiata dal tono della sua voce, oppure riusciamo a capire se una frase è o meno una domanda dall'inflessione che il suono della voce dà. Se nel cervello avevamo già individuato una sorta di localizzazione della sintassi nelle parole, con le categorizzazioni di regole grammaticali ad esempio, più di recente si è individuata la sintassi musicale. La musica, infatti, ha una propria sintassi. Regole apprese, vincoli che sono stati racchiusi in schemi ricorrenti, come una grammatica della musica. Da tempo, infatti, è stato messo in luce il contributo della Mismatch Negativity nella musica. La Mismatch Negativity è una componente dell'onda elicitata da un potenziale evento correlato (ERP) in risposta ad uno stimolo discordante in una sequenza di stimoli. In altre parole, quando ci si rende conto che c'è un suono che diverge molto dall'armonia precedente, il cervello se ne rende conto ci fa dire che quel suono è "stonato". Con gli anni, questo concetto è stato raffinato sempre di più, fino ad arrivare alla nozione di onda ERAN: Early Right Anterior Negativity, che è una componente specifica per la sintassi musicale (e non generica per i
È più facile lamentarsi di una persona buona incoerente che di una persona cattiva coerente
Quanto peso diamo al giudizio degli altri su terzi? Il più delle volte, quando conosciamo una persona, la nostra impressione converge verso l'immagine che quella persona ci dà, se non siamo già colpiti preventivamente da pregiudizi. Nel momento in cui un'altra persona ci parla male della prima, quel che ci rimane del racconto è un'impersonalità, la quale ci aliena dal dato pratico del racconto. Facciamo un esempio: conosciamo Marco in un contesto comune, il lavoro, e ci sembra molto simpatico. Ci usciamo, ci divertiamo, parliamo molto, ci troviamo bene. Poi però Paolo mi parla male di Marco, mi dice che è una cattiva persona, che ha fatto questo, quello e quell'altro. Il racconto si circoscrive a contesti che non mi appartengono: Marco ha tradito la sua ragazza, ha truffato dei suoi amici a poker e non si presenta mai ad appuntamenti importanti. D'altronde, però, io non ho un partner che potrebbe tradirmi, non gioco a poker e non ho coinvolto Marco in eventi in cui si debba necessariamente presentare. Marco a me non ha fatto niente e, in base a ciò che mi racconta Paolo, non avrebbe neppure la possibilità di ferirmi poiché i contesti in cui Marco si è dimostrato "cattivo" non si presentano nella mia vita. Oltretutto, il fatto di non avere una sorta di proiezione cinematografica che mi mostra Marco compiere le sue malefatte, non solo rende il tutto più impersonale, ma mi permette meno di immaginare la scena, di figurarmi integralmente Marco assumere degli atteggiamenti riprovevoli. Il solo racconto di Paolo, quindi, può non essere sufficiente a farmi ricredere su Marco, ad impedirmi di frequentarlo, a censurarlo e ad allontanarlo dai miei ambienti. Certamente il tutto dipende anche da quanto valore e aspettativa ripongo in Paolo, ma in linea di massima riesco ad accettare Marco nella mia vita nonostante il dissenso di Paolo. Tutto questo è senso comune: è un dato di fatto che gli amici di Hitler amassero Hitler e non vedessero poi così tanto male in
La profezia che si autoavvera come pensiero magico e fiducia in sé
Quando il controllo che percepiamo di noi stessi, sulla nostra vita, su quello che ci accade intorno e sugli altri diventa in qualche modo eccessivo, non solo tendiamo ad avere un ottimismo irrealistico, ad illuderci che viviamo in un mondo giusto, ma anche a fare affidamento solo delle nostre capacità e sul nostro operato. In un certo senso, questo si traduce come elevarsi a dèi. Credere di avere il potere in mano e di essere padroni completi del nostro successo o del nostro fallimento significa credere in una forza superiore che è rappresentata proprio da se stessi e che sovrasta la realtà meccanicistica stessa. Sappiamo che il locus of control è quel parametro che utilizziamo per capire se la percezione del controllo della propria vita è dentro o fuori da sé; parimenti, l'agentività è quel parametro che utilizziamo per verificare quanto la persona è "agente" di ciò che le accade intorno. Normalmente, si crede che chi abbia questi due parametri centrati su di sé sia in grado di avere una visione realistica del mondo, in modo da non soccombere ad un supposto "fato" universale, ma prendendo in mano la propria esistenza e non responsabilizzando nessun altro. In realtà, quando l'indicatore verte troppo verso di sé, è come se si tornasse comunque ad avere una visione "fatalistica" dell'universo; solo che, in questo caso, il fato lo decide la fiducia cieca che si ha in sé. Allora il limite tra un parametro troppo esterno o troppo interno è davvero sottile, quasi come se fosse lo spazio di congiunzione di un'estremità di un anello con l'altra. E' nell'equilibrio, invece, che si troverebbe la giusta misura per vivere bene con se stessi e con gli altri. Quando ci si responsabilizza per le decisioni per gli altri e per i danni che casualmente incontriamo, non solo si rischia di reprimersi e di chiudersi, ma anche di perdere la fiducia negli altri e di sentirsi in colpa per ciò che ci si è causati da soli. Le proprie capacità e le proprie azioni diventan
Gli engrammi. Impiantare un ricordo nel cervello
In neuroscienze, è molto dibattuto l’argomento degli engrammi. Secondo la teoria, un engramma sarebbe la composizione neurale che ha insite in sé le informazioni della memoria: in questo senso, ciò significherebbe che un gruppo di cellule conserverebbe in sé dei ricordi, che, trasmesso ad un altro sistema nervoso di un altro esemplare, farebbe in modo di avere quei ricordi. In altre parole, si potrebbe trasferire un ricordo a qualcuno in maniera organica, strutturale, trapiantando dei neuroni. Ovviamente, questo a livello teorico.
Le cellule dell’engramma, infatti, nell’ippocampo per esempio e in particolare nel suo giro dentato, potrebbero portare con sé informazioni legate alla memoria episodica: il problema reale è che queste informazioni, questi impulsi elettrici, queste molecole chimiche, non hanno significato attribuito. Le ultime ricerche di fisiologia parlano proprio di specificità del contesto, nel senso che se anche l’informazione episodica (quindi il ricordo di un’esperienza, un’immagine, un suono, una sensazione emotiva) dovesse avere un luogo (nella corteccia prefrontale mediale, per esempio), questa informazione risulterebbe priva di significato. La ragione è che non ci sarebbe anche una memoria semantica associata a quella episodica: non viene associato un significato a quell’episodio, per cui l’informazione è come uno stimolo che non può trovare risposta.
È come se per dare significato ad una cosa che vedo, io debba necessariamente darvi dei rimandi ad altre mille cose vissute e associate tra loro. In sostanza, è come se quando si ha un ricordo quello non è solo un ricordo: è un collegamento con qualsiasi altra parte di ricordi possibili nel cervello. Prelevare una sola porzione di un ricordo per trasferirla a qualcun altro sarebbe come proiettare una scena di un film sconosciuto in cui parlano un’altra lingua incomprensibile. Per cui, diventa inconsistente e inutile avere il ricordo di qualcun altro: perché non vi
Coscienza, libero arbitrio e intelligenza artificiale
A volte ci “accorgiamo” di essere coscienti solo quando ci guardiamo indietro e ci chiediamo “wow, perché ho preso quella decisione?”, magari dando la colpa alla stanchezza, all’uso di certi alimenti o ad uno stato d’ansia.
A quel punto, allora, c’è da chiedersi... cos’è differenzia “Io” dal mio corpo? La decisione che prendo se sono nervoso o arrabbiato è la decisione che prenderei in tutte le altre condizioni? Di più, esiste una condizione di normalità in cui prendere delle decisioni “pure”? Nel classico esperimento di Libet, il potenziale di prontezza (che è il valore dell’attivazione preparatoria per un movimento muscolare) arriva circa 550 millisecondi prima di muovere effettivamente un dito, e circa 350 millisecondi prima della consapevolezza dell’intenzione. Da questo esperimento, molto è stato messo in dubbio del libero arbitrio. Prendere una decisione è veicolato dalla carne? Atrofizzando della materia grigia, è vero che le prestazioni decisionali calano?
Potremmo far chiarezza riferendoci ad una famosa teoria, quella della mente bicamerale. In questa teoria, non prendiamo in considerazione la mente come se fosse una casa divisa in due stanze che comunicano tra loro. “Bicamerale” come se si trattasse di due fasi in continua sovrapposizione e comunicazione, in un loop dove non si riconosce chiaramente né capo né coda. Potremmo definire la coscienza come la consapevolezza riferita a sé di qualcosa: una sorta di autoreferenzialità sul mondo; diciamo un modo per far entrare il mondo in noi. Ecco, possiamo immaginare due camere: in una viene percepito il mondo: gli organi sensoriali evoluti per captare l’esterno sparano degli stimoli elettrochimici che viaggiano nel corpo. Questi impulsi hanno in sé una quantità di informazioni: l’immagine della vista, per esempio. Il mondo viene “impresso”, sulla retina, e da qui seguono due vie, una detta magnocellulare e l’altra parvocellulare, con un percorso che ar
La terapia dello shock. Un approccio evoluzionistico alla psicoterapia
Nel 1974 Frank Farrelly pubblica “La terapia provocativa”. Il testo è ricco di esempi, di conversazioni riportate testualmente, quasi a fare da tutor al lettore che si deve formare e professionalizzare per esercitare proprio quella terapia. Per farla breve, si tratta di una psicoterapia imperniata sull’ironia e sulla provocazione diretta. Si offende il paziente, lo si denigra, lo si integra nei gruppi di pari in modo che venga insultato anche da loro. Le offese, ovviamente, non sono gratuite e decontestualizzate, ma mirate a minacciare il paziente sotto un aspetto presso cui si sente effettivamente debole. Colpire proprio il punto debole sembra sicuramente qualcosa di subdolo e di distruttivo, e l’attacco si basa proprio sulla naturale resilienza dell’essere umano, il quale per autoconservarsi reagisce alla provocazione. Nel sistema del “combattere o fuggire”, il paziente non è possibilitato a fuggire, perché è come se il terapeuta lo inseguisse costantemente per schernirlo. In un certo senso, ciò che viene fatto è esasperare una situazione problematica e far prefigurare al paziente che forma potrebbe avere quel problema se esagerato. Far prefigurare l’esito peggiore di una situazione servirebbe a proiettare il paziente in una prospettiva del mondo in cui quell’eventualità preoccupante ha una vera forma. Dare una forma ben definita ad una conseguenza permette di controllarla di più, perché ci si immedesima in modo molto più realistico e tangibile. È un po’ come sognare: ci si identifica molto nel proprio personaggio onirico e ne si rispettano i canoni, le intenzioni e i contesti come se fosse tutto reale. Poi ci si sveglia e si viene catapultati in un mondo completamente diverso al quale bisogna riadattarsi. L’ironia e la presa in giro servirebbero proprio a questo: a far prefigurare al soggetto una minaccia alla quale deve rispondere in maniera adattiva. Per esempio, Frank Farrelly prende in giro una donna per i suoi capelli che sem
La vita è marketing: la pubblicità è l'anima del commercio
Come lamentela, sento spesso di persone che si impegnano nello studio, sul lavoro o negli hobby, ma senza ricevere un reale successo. C’è il talento, c’è la dedizione, l’impiego di tempo, di energia e di denaro, ma poi si rimane sempre allo stesso punto.
Può capitare di sentirsi i più bravi in ufficio, di saper fare cose che gli altri non fanno, di avere idee e strategie utili o di risolvere problemi che nessun altro affronta, eppure, semplicemente, non si comunicano queste informazioni. E la comunicazione, chiaramente, è sfaccettata, e quindi non conta solo il comunicarle, ma come si comunica.
Avere, per esempio, una proposta che può far bene all’azienda e alla propria posizione, dipende da quanto quella proposta venga effettivamente espressa. Se durante una riunione non ci si espone, non si riuscirà mai a vendere quella proposta, perché semplicemente gli altri non sapranno che esiste. Se non si mette un prodotto eccezionale in vetrina, ma nello sgabuzzino nascosto sul retro, nessuno riuscirà a scoprire le incredibili proprietà di quel prodotto. Tutto, quindi, si riduce a una questione di marketing, ma per dirla in maniera più ottimistica, ad una “questione di confronto con l’altro”.
Intervenire in mezzo a una discussione cambiando argomento, con un pensiero interessante da esprimere, ma con la voce bassa, balbettando, voltando continuamente lo sguardo, tenendosi i gomiti con le braccia conserte, con molte pause tra una parola e l’altra, significa fare una pessima pubblicità. La forma e la sostanza non sono mai davvero separate, e non è solo la forma a decorare e impacchettare il suo interno, bensì ne è lo strato più superficiale. Questo vuol dire che noi prima dobbiamo giudicare la forma, e poi la sostanza, in qualsiasi contesto.
Anche se si dovesse trattare di un semplice dibattito, chi stereotipicamente è più adatto all’immagine sociale di leader, tenderà ad avere più ascolto da parte degli altri. Anche se dovesse dire un
Gli idoli che veneriamo e il loro simbolo
Quello che facciamo riflette quello che siamo? Spesso si fa una “reductio ad Hitlerum” mostrando i quadri dipinti da Hitler quando fu un artista. E la domanda è: bisogna considerare brutte le cose fatte da persone brutte? E, ancora più nello specifico, qual è la distanza che separa il proprio operato dalla propria identità? Come esseri umani, tendiamo ad assegnare un simbolo a tutto quello che ci circonda, per renderlo un significante nell’espressione ad un’altra persona. Nel creare un significato noi stiamo comunicando un’intenzione, e lo scopo della comunicazione è proprio riconoscere quell’intenzione. Di per sé, un quadro di Hitler è solo un oggetto privo di significato o di scopo. Quello che cerchiamo di fare, allora, è di annichilire ciò che più si avvicina alla persona annichilita. Il quadro di Hitler è prima “di Hitler” e poi un quadro, con una tela, una cornice, dei colori, dei bozzetti, un’ubicazione, un contesto di creazione, ecc. La sua caratteristica più rilevante è l’”hitlerianità”, e poco conterà quanti parametri positivi dell’arte riscontrerà. Questo accade quando una certa collettività condivide una certa immagine di una persona: tutto quello che non è conforme ad una coerenza percettiva di quella persona viene ignorato o negato. Se un medico esegue molte operazioni chirurgiche a Treviso, sarà molto conosciuto in città come un bravo medico; se nel weekend il medico va a fare tiro con l’arco a Trento, lo stesso medico sarà conosciuto nel club sportivo come “quello bravo al tiro con l’arco”. A Treviso sapranno che quel bravo medico fa anche tiro con l’arco; allo stesso modo, a Trento sapranno che quel bravo tiratore con l’arco fa anche il medico. I valori sociali, le norme morali e l’immagine condivisa che si dà predeterminano quel che le persone accetteranno di noi. Quando è morto Diego Armando Maradona, per esempio, si è cercato si applicare quello che oggi si chiama cancel culture, la c
Semiotica e LGBTQIA+
Per questo nuovo video, vorrei dividere il tutto in due blocchi. Uno improntato sul linguaggio, e poi, come se fosse una premessa, sul mondo LGBTQ+.
E' ormai risaputo, da più e più studi nel corso dei decenni, che il linguaggio influenzi la formazione il pensiero. Nella filosofia del linguaggio, nelle scienze cognitive, nella psicologia e nelle neuroscienze, il fatto di avere una lingua con determinate regole sintattiche e semantiche ci vincola ad una limitatezza determinata proprio da certe definizioni linguistiche. Classicamente, c'è un terzo regno che domina la semiotica, ossia lo studio dei segni (di cui il linguaggio, quello verbale, è un esempio): la pragmatica. La pragmatica, secondo alcune interpretazioni, ha una valenza pre-semiotica e post-semiotica: in questo senso, il segno di ciò che diventa necessità esprimere prende la sua forma in una parola, il cui significato diventa poi regola condivisa da un certo popolo. Gli eschimesi, per esempio, secondo alcune fonti avrebbero addirittura 100 parole per definire, descrivere e indicare la neve nelle sue possibili condizioni. Qualcuno, a questo punto, potrebbe dire che questi modi di dire si potrebbero tradurre comunque in italiano dando più o meno lo stesso senso. Il punto è proprio la composizione di queste parole nelle lingue dei diversi etnogruppi cosiddetti eschimesi: dire "ghiaccio rotto che si sta espandendo, pericoloso camminarci sopra" ma in 7 lettere, indica una pragmatica che fa nascere nella mente dell'eschimese (e solo dell'eschimese) esattamente l'immagine di quello che conosce. L'eschimese si prefigura quindi la forma, la consistenza, la sensazione di quel ghiaccio, come è successo, che cosa comporterà, e tanto altro che non è solo semantica, significato linguistico, ma anche convenzione sociale intorno a quella singola parola.
La pragmatica è ciò che mi fa rispondere "io sono Ciro" alla frase "ciao, io sono Paolo, e tu?". Perché al "ciao, io sono Paolo. E tu?", semanticamente, non s
Consensus gentium: conformismo e anticonformismo
Lo schadenfreude: il piacere per la sofferenza altrui
"Non parlare se non sai le cose": incertezza, pregiudizio e autocritica
Stereotipi sugli psicofarmaci e psicologia dello psicofarmaco