27/07/2025
Benvenuti a un nuovo episodio di “Commenta che ti passa: dove i tuoi commenti trasformano i nostri post!” 🤭
Ogni volta partiamo da un contenuto condiviso, ma è il confronto tra colleghi, pazienti, esperti e curiosi a renderlo più ricco, completo e utile.
Buona lettura!
Tacchi e carico sull’avampiede: cosa succede davvero quando cambiamo altezza?
Quando si parla di calzature, spesso il discorso si limita a estetica e moda. Ma in fisioterapia, e nella biomeccanica clinica in generale, ogni centimetro di tacco racconta una storia ben più complessa: quella della distribuzione del carico sul piede e delle ripercussioni che può avere su tutto il corpo.
La biomeccanica del tacco: più sali, più spingi avanti, semplice no?
Quando il piede è piatto sul terreno (cioè senza tacco), la distribuzione del peso corporeo è relativamente bilanciata: circa il 43% del carico grava sull’avampiede, mentre il 57% resta sul tallone. Questa proporzione rappresenta una condizione fisiologica, che il corpo ha imparato ad assorbire e gestire nel tempo.
Ma basta salire anche solo di qualche centimetro per cambiare il gioco.
Con un tacco di 4 cm, la situazione si ribalta: il 57% del carico passa sull’avampiede e il 43% sul tallone.
A 6 cm, la spinta anteriore aumenta, con un 75% del carico sull’avampiede e solo un 25% sul tallone.
Sopra i 10 cm, si può arrivare a scaricare fino al 90-100% del peso sull’avampiede, con una quasi totale esclusione del tallone dal gioco di carico.
Questo significa un enorme aumento dello stress sulle articolazioni metatarsali, sui muscoli flessori plantari e su tutte le strutture connettivali coinvolte nella gestione del carico.
Il rischio biomeccanico: dal piede alla colonna.
Il sovraccarico dell’avampiede può portare a condizioni dolorose e adattamenti posturali compensatori. Le metatarsalgie, ad esempio, sono tra le conseguenze più frequenti, ma non le uniche.
Una tensione continua sull’avampiede può contribuire nel tempo a sviluppare alluce valgo, deformità delle dita e ispessimenti plantari. Può creare squilibri muscolari e articolari a carico della caviglia, del ginocchio e dell’anca, alterando l’orientamento del bacino e la curvatura lombare. Tutto ciò può arrivare a modificare la postura globale.
Come osservato anche da Marco: “il punto non è tanto solo quanto carico si sposta, ma dove e come il piede dovrebbe stare quando è ben educato a farlo.”
Idealmente, un piede rieducato distribuisce il carico a terra con una ripartizione funzionale: 50% sul tallone, 40% sul primo metatarso, 10% sul quinto. Un equilibrio che favorisce stabilità, efficienza e postura corretta.
Ed è proprio da qui che nasce una delle riflessioni più importanti: sono le scarpe a doversi adattare ai nostri piedi, non il contrario.
“Barefoot o tradizionali?” Chiede Marina.
Nel dibattito che spesso anima le discussioni tra fisioterapisti, runner e pazienti, il tema delle scarpe barefoot (o minimaliste) divide. Ma è importante chiarire: non si tratta di moda, si tratta di funzione.
Come spiegato in risposta a Marina, le scarpe barefoot sono pensate per riprodurre la camminata a piedi nudi, permettendo una distribuzione più naturale del carico e stimolando i muscoli intrinseci del piede. Tuttavia, non sono adatte a tutti.
Chi non è abituato deve procedere con gradualità, proprio per evitare dolori o sovraccarichi. In questi casi, l’uso delle barefoot può e deve essere accompagnato da esercizi mirati, valutazione clinica e adattamento progressivo.
Una buona calzatura, sia essa barefoot o tradizionale, dovrebbe sempre rispettare tre criteri fondamentali.
Prima di tutto una suola flessibile, che consenta al piede di muoversi liberamente.
In secondo luogo uno spazio sufficiente per le dita, evitando compressioni e per ultimo un supporto adeguato, calibrato sul tipo di piede e sul livello di attività della persona.
Lo ha sottolineato bene anche Andrea, suggerendo (con ironia) di conservare il post come risposta pronta per chi critica le calzature barefoot: il punto non è schierarsi, ma capire quando e per chi sono adatte.
E la lunghezza del piede? Un fattore spesso dimenticato!
Una delle osservazioni più tecniche ma fondamentali è arrivata da Valeria, che ha posto un quesito tanto semplice quanto trascurato:
“Un tacco da 10 cm ha lo stesso effetto su un piede numero 36 e su un 41?”
La risposta è: assolutamente no. La lunghezza del piede cambia radicalmente l’inclinazione del piede stesso all’interno della scarpa, e di conseguenza la distribuzione del carico sull’avampiede.
Inoltre, aspetti come il cavismo, la dominanza del primo dito o la forma dell’arco plantare modificano ulteriormente l’effetto finale del tacco. Ogni piede ha la sua storia, la sua meccanica e le sue vulnerabilità. E riconoscerlo significa aprire la strada alla personalizzazione delle calzature e a una valutazione fisioterapica sempre più individualizzata.
Il consiglio pratico (con un tocco di buon senso) 😌
Se stai pensando di passare alle barefoot, inizia con cautela e criterio. Dai tempo al piede di adattarsi, lavora sull’elasticità, sulla forza dei muscoli plantari e sulla propriocezione. E se invece preferisci scarpe più strutturate, punta a comfort, flessibilità e rispetto della tua biomeccanica personale.
Come direbbe Gianni: “non è il piede che si deve adattare alla scarpa, ma il contrario.”
Avrete capito che il piede è una struttura dinamica, sensoriale, adattiva. Il tacco è solo un centimetro in più, ma può diventare un chilometro di differenza nella tua postura.
Questo contenuto è stato aggiornato e migliorato grazie ai commenti e alle osservazioni ricevute: un esempio concreto di come la conoscenza cresca nel dialogo.
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