Dott. Carlo D'Angelo

Dott. Carlo D'Angelo “L’importante è che tu sia in armonia con ciò che senti e pensi.E che io sia in armonia con tutto ciò che ho scritto, sento, vivo e penso.
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Non serve altro.” Carlo D’Angelo

Gli altri mi devono: l’illusione del credito affettivo✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle SoglieCi sono persone che vivono...
25/09/2025

Gli altri mi devono: l’illusione del credito affettivo

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Ci sono persone che vivono come se tenessero sempre un registro contabile in mano. Ogni gesto fatto, ogni parola spesa, ogni attenzione data all’altro viene appuntata come un credito. E dentro di sé maturano l’attesa: prima o poi l’altro mi deve restituire, mi deve riconoscere, mi deve amare come io l’ho amato.

Questa è l’illusione più pericolosa delle relazioni: pensare che l’amore funzioni come una banca. Che ci siano interessi, scadenze, risarcimenti. Che l’altro viva per ripagare il nostro dare. Ma l’amore non è un contratto, e se lo diventa muore.

Il credito affettivo è un veleno sottile: trasforma la libertà in obbligo, la spontaneità in dovere, il dono in debito. Così, invece di guardare il volto dell’altro, guardiamo solo il conto aperto. Invece di dialogare, invochiamo restituzione. Invece di vivere il legame, lo trasformiamo in tribunale.

E questo accade non solo nelle coppie. Lo vediamo nelle amicizie che si spezzano, perché si pretende adesione cieca alle proprie idee. Lo vediamo nelle famiglie, dove figli e genitori si rincorrono per debiti mai saldati di cura, di ascolto, di presenza. Lo vediamo persino nella spiritualità, quando Dio diventa il grande debitore a cui chiedere di colmare ogni mancanza.

La radice è antica: è il bambino interiore che ancora reclama. Quel bambino che dice: mi devi amore, mi devi riconoscimento, mi devi carezza. È un grido legittimo, ma se resta congelato diventa catena. Da adulti rischiamo di vivere ancora prigionieri di quel credito inesigibile, aspettando da altri ciò che non potranno mai darci.

E allora la vita diventa un’attesa eterna. Ci si sente sempre in credito, ma senza mai incassare. È come bussare a una banca vuota, come presentare un contratto strappato. L’altro non potrà mai ripagare quel debito, perché quel debito non è suo: appartiene alla nostra mancanza originaria.

La sfida vera è un’altra: smettere di vivere a credito. Passare dall’attesa sterile al dono generativo. Non chiedere adesione cieca, ma incontro vivo. Non domandare risarcimento, ma scegliere di costruire insieme. Non ridurre l’amore a saldo, ma lasciarlo rinascere come gratuità.

Nessuno ci deve nulla. Ed è proprio quando lo comprendiamo che tutto diventa possibile. Perché senza catene di pretesa, l’amore può tornare ad essere scelta. La fedeltà può tornare ad avere il volto della libertà. La tenerezza può tornare a scorrere senza paura di non essere ricambiata.

La verità è che non si ama per recuperare, ma per generare. Non si sta insieme per risarcire, ma per vivere. Non c’è più un conto da chiudere, ma un cammino da aprire.
E forse la vera maturità affettiva comincia proprio qui: nel giorno in cui smettiamo di aspettare un risarcimento e iniziamo a costruire una vita libera, in cui il dono non è più debito, ma possibilità.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

LE LACERAZIONI CHE MACINANO NEL SILENZIO ✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle SoglieCi sono ferite che non gridano. Non han...
25/09/2025

LE LACERAZIONI CHE MACINANO NEL SILENZIO
✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Ci sono ferite che non gridano. Non hanno voce, non hanno rumore. Non lasciano sangue visibile, eppure scavano nel profondo come lame silenziose.
Sono le lacerazioni dell’infanzia, quelle esperienze di dolore, di mancanza, di umiliazione, che non hanno trovato parola, né riconoscimento, né consolazione.
Restano dentro come schegge sottili, diventano mulini che macinano senza sosta, producendo polvere di dolore in ogni gesto della vita.

Il bambino lacerato cresce. Diventa adulto, entra nelle relazioni, si misura con il lavoro, con gli affetti, con le scelte.
Ma porta con sé quel mulino interiore. Spesso senza saperlo, continua a macinarsi in un dolore muto: non urla, non chiede aiuto, ma rimane lì, come un rumore di fondo che non si spegne mai.

Molti adulti non vogliono davvero separarsi da quel dolore. Lo custodiscono, lo nutrono, lo difendono persino. Non perché sia piacevole, ma perché è familiare.
Perché la ferita è diventata identità. Perché, inconsciamente, temono che lasciarla andare significhi smarrire sé stessi.
La domanda nascosta è: “Se non sono più il mio dolore, chi sono?”.

E così il dolore diventa laccio e difesa insieme: ci tiene prigionieri, ma nello stesso tempo ci dà l’illusione di sapere chi siamo.
Vivere così significa restare in una stanza interiore che conosciamo bene, ma che non ci permette di vedere la luce del giorno.
Significa rimanere attaccati alla lacerazione come unica prova di esistenza, senza scoprire che si può vivere oltre.

Il profeta Ezechiele, davanti a una valle di ossa aride, riceve una domanda che tocca anche noi: «Potranno mai rivivere queste ossa?».
È la stessa domanda che ci portiamo dentro quando guardiamo le nostre lacerazioni fossilizzate, i dolori antichi che sembrano pietrificati, senza più speranza.
Eppure, lo Spirito le rimette in piedi. La carne ricresce, il respiro torna. L’impossibile si apre.

La soglia vera, allora, non è cancellare la ferita – questo sarebbe illusorio e persino ingiusto. La soglia è staccarsi senza tradire.
Portare memoria della lacerazione senza più identificarsi con essa. Riconoscere la propria ferita come parte della storia, ma non come definizione della propria vita.

In questo passaggio c’è la fatica più grande: dare al dolore un posto, ma non il trono. Imparare a onorare le lacrime senza che diventino pietre di sale.
Accettare che la lacerazione esista, ma che non abbia più il potere di governare ogni gesto, ogni relazione, ogni scelta.

Solo così il dolore smette di macinare. Non sparisce, ma si trasforma: da macina che consuma a sorgente che insegna.
È questo il cammino che trasforma le lacerazioni mute in luoghi di libertà, ossa aride che possono tornare a vivere.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

LA SAGGEZZA CHE NASCE DAL CUORE ✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle SoglieLa saggezza non viene dalla clinica. Non si misu...
25/09/2025

LA SAGGEZZA CHE NASCE DAL CUORE
✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

La saggezza non viene dalla clinica. Non si misura con protocolli, non si custodisce nei manuali, non si esercita nei parametri. La clinica è necessaria, ma resta una cornice. La saggezza nasce da altri luoghi: i luoghi del cuore, quelli che hanno conosciuto il silenzio e hanno attraversato il dolore.
Il dolore non si supera con la fuga, ma si attraversa come si attraversa un fiume. All’inizio l’acqua è gelida, taglia la pelle e spaventa. Vorremmo tornare indietro. Poi, passo dopo passo, ci si accorge che non ci si può fermare a metà: o si resta intrappolati nella corrente, o si avanza. È lì che la saggezza comincia a fiorire: nel momento in cui il dolore non viene più negato ma declinato.
Declinare il dolore significa imparare a piegare la voce su ciò che fa male, senza spegnerlo. È imparare i verbi dell’attesa e della resistenza, della caduta e della rinascita. È dare forma a un linguaggio che non consola in fretta, ma che custodisce. Così come il fiume non trattiene l’acqua ma la lascia scorrere, chi sa declinare il dolore non imprigiona le emozioni, ma le lascia fluire finché non trovano un’altra foce.
La clinica offre mappe, ma la saggezza è un viaggio. È come camminare lungo un fiume: a volte calmo, a volte impetuoso, mai uguale a se stesso. Non è un sapere che si possiede, ma un movimento che si lascia attraversare. È la capacità di sostare, di non avere fretta di “risolvere”, di accogliere il tempo che serve.
La saggezza non è astratta, ma concreta come il fiume che irriga i campi. È il gesto che consola, il silenzio che abbraccia, la mano che non lascia. È ciò che resta dopo che le acque della vita hanno spazzato via illusioni e false sicurezze. È imparare che non tutto si può controllare, ma molto si può abitare.
Un fiume, se provi a trattenerlo, ti travolge. Se impari a camminargli accanto, ti guida. Così è il dolore: se lo neghi ti spezza, se lo abiti ti insegna. È questo il cuore della saggezza: trasformare la ferita in soglia, non in prigione.

Alla fine, la saggezza non si proclama. È come il fiume: scorre silenziosa, ma feconda. E chi la incontra può dire a chi soffre: “Non sei solo. Non serve avere risposte immediate. Basta avere il coraggio di restare. Perché la vita, anche nel dolore, continua a scorrere”.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Psicopatologia del potere✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle SoglieIl potere non è un concetto astratto confinato ai palaz...
25/09/2025

Psicopatologia del potere

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Il potere non è un concetto astratto confinato ai palazzi del governo o alle istituzioni. È una dinamica profondamente umana che attraversa le nostre relazioni, le famiglie, i luoghi di lavoro, le comunità educative e spirituali. Ogni volta che il desiderio di guidare o custodire si trasforma in bisogno di possedere, ogni volta che la responsabilità cede il passo al dominio, lì nasce la sua patologia.

Viviamo in un tempo che ci illude con differenze apparenti. Veniamo bombardati da etichette, schieramenti, appartenenze che sembrano alternative, ma spesso sono soltanto maschere diverse per lo stesso copione. Cambia il colore, resta identica la trama. Il potere malato funziona così: divide per controllare, inventa contrasti fittizi per impedire che emerga la sostanza, non chiede di pensare, ma di schierarsi. E così la domanda autentica – a cosa appartengo? – viene soffocata da una sceneggiata ideologica.

Questa malattia del potere non si manifesta solo nei sistemi politici. La riconosciamo in ogni spazio di vita. Nelle coppie, quando l’amore diventa possesso e il bisogno di conferme soffoca la libertà dell’altro.
Nelle famiglie, quando i genitori usano i figli per confermare la propria immagine invece di accompagnarli a diventare se stessi.
Nel lavoro, quando chi guida non sa orientare ma solo controllare, percependo ogni competenza altrui come minaccia. Perfino nelle comunità spirituali o educative, quando chi insegna o accompagna cerca adepti e non persone libere.

Il potere che si ammala non è più servizio ma specchio. Non custodisce, ma possiede. Non genera, ma dipende. E come ogni patologia, ha i suoi tratti psichici: la paranoia che vede nemici ovunque, il narcisismo che trasforma la guida in palcoscenico, il sadismo che trae piacere dall’umiliazione, la dipendenza che fa sentire vuoti e insignificanti senza dominio.

La stessa logica si riflette nel rapporto con il dissenso. Un potere maturo sa ascoltarlo, un potere malato lo addomestica. Non lo reprime, lo sfrutta. Lo lascia esplodere nei social, dove il grido diventa rumore e la protesta spettacolo. È la strategia più sottile e più devastante: neutralizzare senza colpire, lasciare sfogare purché resti senza conseguenze. Così il dissenso implode, anziché trasformarsi in responsabilità.

Questa psicopatologia ci interroga tutti, perché non appartiene solo ai grandi della storia. Ogni volta che preferiamo apparire invece che ascoltare, ogni volta che usiamo l’altro per affermarci, ogni volta che pretendiamo fedeltà cieca invece di libertà pensante, quel seme di malattia germoglia anche in noi. Per questo non basta cambiare maschere: serve cambiare sguardo. Riconoscere la differenza tra volto e copione, tra presenza e ideologia, tra parola autentica e sceneggiata sterile.

Il potere, in sé, non è negativo. È necessario come responsabilità e come guida. Ma la sua salute dipende dalla direzione che prende: se diventa custodia o possesso, se libera o trattiene. Il mondo non ha bisogno di nuovi padroni, ma di presenze vere. Non servono mille voci gridate, ma poche parole autentiche, capaci di non usare l’altro come strumento, ma di riconoscerlo come volto.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

25/09/2025

“La saggezza non è la forza che copre le crepe, ma la delicatezza che impara a respirare nel vento.”

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

La solitudine contemporanea: non mancanza di persone, ma incapacità di riconoscersi nell’altro✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voc...
25/09/2025

La solitudine contemporanea: non mancanza di persone, ma incapacità di riconoscersi nell’altro

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Viviamo in un tempo in cui la parola solitudine non coincide più con il vuoto delle strade o con l’assenza di relazioni. Mai come oggi siamo circondati da presenze, messaggi, notifiche, contatti virtuali. Eppure, mai come oggi, la solitudine si fa sentire come esperienza esistenziale radicale.

La solitudine contemporanea non è più legata al numero delle relazioni, ma alla qualità dello sguardo che ci raggiunge o non ci raggiunge. Possiamo essere immersi in una folla, connessi con centinaia di persone, e sentirci comunque invisibili. Questo perché la solitudine non è assenza di persone, ma assenza di riconoscimento.

Molti pazienti, entrando in terapia, non dicono “sono solo”, ma “non mi sento visto, non mi sento capito, non mi riconoscono per quello che sono”. È questa la forma nuova della solitudine: una frattura dello sguardo, un vuoto di specchio, il bisogno di qualcuno che restituisca un’immagine abitabile di noi stessi.

La solitudine contemporanea nasce anche dalla cultura della performance. Ci viene chiesto di mostrare sempre la parte migliore, più luminosa, più curata. Ma questa esposizione obbligata rende l’incontro un gioco di maschere. Se mi incontro con te solo con il mio volto ideale, e tu fai lo stesso, nessuno dei due incontra davvero l’altro. Così, anche nelle relazioni più affollate, ci troviamo a portare in grembo una solitudine segreta, che si fa più acuta proprio nei momenti di contatto apparente.

Ma c’è un’altra radice: il timore del bisogno. Viviamo in un tempo che ha trasformato il bisogno in vergogna. Ammettere che ho bisogno di qualcuno è visto come una debolezza. Ma il bisogno è il volto più vero della nostra umanità: è ciò che ci rende capaci di relazione. Così, molte solitudini contemporanee sono generate dall’impossibilità di confessare e vivere i nostri bisogni più profondi, di dichiarare “ho bisogno di te”.

Eppure, nella terapia come nella vita, è proprio questo riconoscimento reciproco che spezza la solitudine. Quando qualcuno accoglie il mio dolore senza giudicarlo, o il mio desiderio senza ridicolizzarlo, qualcosa cambia: la solitudine si apre a una soglia di comunione.

La solitudine non si sconfigge riempiendo l’agenda, ma attraversando il deserto del bisogno fino a incontrare un volto che non ci chiede di essere diversi da ciò che siamo. Non è dunque un problema di quantità, ma di verità dello sguardo e dell’incontro.

In questo senso, la solitudine contemporanea non è solo un male da comba***re, ma anche una possibilità: ci costringe a porci la domanda più radicale, quella che spesso temiamo:
Chi mi vede per ciò che sono, e non per ciò che appaio?

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle soglie

Buon giorno e felice giorno 😊❤️😘Quando il cuore è tutto da un’altra parte✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle SoglieCi sono...
25/09/2025

Buon giorno e felice giorno 😊❤️😘

Quando il cuore è tutto da un’altra parte

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Ci sono momenti in cui il corpo è qui, seduto, presente, ma il cuore è altrove.
La mente ripete meccanicamente gesti e compiti quotidiani, ma l’anima sembra abitare un luogo lontano, inaccessibile, dove si è depositata una parte essenziale di noi stessi.

Quando il cuore è da un’altra parte, tutto ciò che viviamo sembra svuotato: il lavoro perde senso, le relazioni diventano opache, anche la gioia degli altri ci appare distante. Non perché non ci importi, ma perché siamo divisi. È la condizione del cuore spezzato, del cuore che non coincide più con il corpo che lo porta.

La frattura interiore

Clinicamente questa esperienza si avvicina a ciò che potremmo chiamare scissione affettiva: una parte di noi resta legata a un altrove – una persona, un ricordo, una possibilità mai avverata – mentre l’altra cerca di funzionare nella vita di tutti i giorni. Non è follia: è la fisiologia di un dolore che non ha ancora trovato un posto dove stare.
Il cuore lontano dice che c’è un vuoto che non sappiamo abitare, e che dentro quel vuoto una parte di noi è rimasta imprigionata.

Il cuore lontano non è solo memoria: è febbre.
Si sente nel corpo come stanchezza cronica, insonnia, apatia. Non c’è desiderio che basti, non c’è piacere che tenga: l’anima febbricitante consuma energie nel rincorrere un’assenza. È come se ci fosse un fantasma accanto a noi: non lo vediamo, ma tutto in noi gli appartiene.

Il rischio è quello della nostalgia patologica: vivere sempre in un altrove che non c’è più, alimentare immagini e fantasie come fossero ossigeno, mentre la vita scorre senza di noi. È un modo di non perdere del tutto ciò che si è perduto, ma al prezzo di non abitare più il presente.

La clinica della mancanza

In terapia, incontriamo spesso questo cuore altrove: uomini e donne che vivono relazioni, lavorano, crescono figli, eppure confessano di non esserci davvero. Di aver lasciato il cuore in un legame spezzato, in un tradimento, in un amore mai vissuto, in un genitore che non ha mai guardato.
Sono vite portate avanti per inerzia, con la sensazione di non coincidere con se stessi.

Qui il lavoro clinico non è “tornare indietro” a recuperare ciò che è stato perso, perché molte assenze non si colmano. Il lavoro è riconciliare corpo e cuore: riportarli a parlarsi, a stare nello stesso luogo. Dare dignità a quel vuoto, perché smetta di essere prigione e diventi soglia.

La verità spirituale

Dal punto di vista spirituale, quando il cuore è da un’altra parte ci viene chiesto di attraversare il paradosso dell’assenza. Non si tratta di cancellare ciò che è stato, ma di imparare a respirare anche senza.
Molte volte, la nostra nostalgia è in realtà un’illusione: crediamo di inseguire qualcuno o qualcosa, ma in verità rincorriamo la parte di noi che lì si è smarrita. È un ritorno a casa: non nel passato, ma dentro se stessi.

Il cuore non può restare per sempre diviso. Prima o poi chiede verità: o si riconcilia con il presente, o si ammala nel rimpianto. E la verità non è mai consolazione rapida, ma lenta fedeltà a se stessi: accettare che una parte di noi mancherà sempre, ma che anche senza quella parte possiamo essere vivi, autentici, degni di amore.

La via è ricomporre la presenza.
Significa permettere al cuore di dire la sua nostalgia, senza negarla e senza idolatrarla. Significa abitare il dolore senza farne feticcio. Significa, soprattutto, imparare a distinguere tra il cuore che cerca salvezza in un altrove e il cuore che può ancora ba***re nel presente.

Quando il cuore torna ad abitare il corpo, la vita non è più perfetta, ma è vera.
Il lavoro, le relazioni, i gesti quotidiani tornano ad avere densità, perché non li viviamo più come maschere, ma come possibilità.

Quando il cuore è tutto da un’altra parte, la vita è un guscio vuoto.
Quando il cuore e il corpo tornano nello stesso luogo, anche il dolore diventa strada.
E lì si apre la soglia: non quella del ritorno al passato, ma quella di un presente finalmente abitato, dove il cuore non è più disperso, ma intero.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Lo sguardo che mi doni✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle soglie C’è un cielo di pioggia nei tuoi occhi.Non è pioggia gent...
24/09/2025

Lo sguardo che mi doni

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle soglie

C’è un cielo di pioggia nei tuoi occhi.
Non è pioggia gentile: annuncia tempesta.
Eppure, nello sguardo che mi doni, sento qualcosa di più vero di mille parole.

Lo sguardo è la prima lingua che impariamo, e forse l’unica che non mente mai. Possiamo trattenere le parole, possiamo travestire i gesti, possiamo fingere sorrisi. Ma lo sguardo non tradisce: lascia intravedere le crepe, le nuvole, i lampi che si addensano dentro.

Molti fuggono davanti a quegli occhi che annunciano tempesta, perché temono la verità che portano. Uno sguardo così non è comodo: non consola, non maschera, non abbellisce. Ti mette a contatto con la fragilità dell’altro e con la tua. Ti dice che qualcosa sta per rompersi o trasformarsi.

Eppure lo sguardo che mi doni è anche un dono. Perché mi consegna la tua vulnerabilità, la parte di te che non osi dire. È come se dicessi: “Guarda dentro, io non riesco a parlarti, ma i miei occhi ti affidano quello che non so dire”.

C’è un rischio nello stare davanti a questo sguardo: il rischio di volerlo correggere, negare, distrarre. Invece la sfida è restare. Restare davanti alla tempesta che annuncia, senza volerla cancellare. Sapere che lo sguardo può essere burrasca, ma anche possibilità di incontro.

Il cielo di pioggia che leggo nei tuoi occhi non è solo minaccia: è promessa di verità. È il segno che, nonostante la paura, nonostante il dolore, stai ancora cercando un testimone, qualcuno che regga la tua tempesta senza annullarti.

Ed è qui che io scelgo di esserci. Non come salvatore, non come giudice, ma come presenza. Lo sguardo che mi doni diventa allora ponte: tra il tuo dolore e la mia capacità di restare umano davanti ad esso.

Perché forse amare significa proprio questo: non pretendere che negli occhi dell’altro ci sia sempre sole, ma accogliere anche la pioggia, la burrasca, la notte.

Lo sguardo che mi doni è difficile, ma è vero. E io non voglio perderlo.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle soglie

24/09/2025
Il molo: soglia del limite e della presenza✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle SoglieUn molo è un ponte che non porta da n...
24/09/2025

Il molo: soglia del limite e della presenza

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Un molo è un ponte che non porta da nessuna parte. Si ferma prima. Ti lascia lì, sospeso tra terra e acqua, tra il conosciuto che ti sostiene e l’ignoto che si apre davanti. Non offre approdi, non promette arrivi: custodisce la soglia.
Viviamo in una cultura che corre, che misura tutto in funzione di una destinazione, di un risultato, di un guadagno. Se una strada non porta “da qualche parte”, sembra inutile. Se un gesto non produce immediatamente un vantaggio, appare sprecato. Il molo smentisce questa illusione: non porta a nulla di definitivo, eppure consegna la possibilità più radicale: quella dell’incontro con l’aperto.
Sul molo si impara la grammatica del limite. Ci si accorge che non tutto può essere posseduto, conquistato, oltrepassato. C’è un punto in cui bisogna fermarsi, perché andare oltre richiede un cambio di mezzo, un affidarsi a qualcosa che non dipende più solo da noi: l’acqua, il vento, l’altro. Il molo ti obbliga a sostare. Non puoi fare finta che la terra continui: lì finisce, e da lì comincia un altro mondo.

Questo arresto può essere frustrante, ma anche liberante. È come se il molo ci dicesse:
“Non tutto si attraversa correndo. A volte occorre fermarsi, guardare, lasciarsi interrogare dall’orizzonte. Scoprire che anche il non-arrivo può essere un approdo.”

Quanti moli incontriamo nella vita?
• Relazioni che non diventano quello che speravamo, ma che ci hanno insegnato la profondità dell’attesa.
• Dolori che non si risolvono, ma che ci hanno consegnato alla verità di noi stessi.
• Sogni che si sono infranti, ma che hanno aperto spazi insperati di creatività e di libertà.

Il molo diventa allora simbolo dell’umano: non tutto può essere attraversato fino in fondo, non tutto può essere posseduto. Ma proprio lì, dove si ferma il cammino lineare, comincia la possibilità della contemplazione, della fiducia, dell’abbandono.

Il molo non è “un ponte inutile”: è un ponte interrotto che educa alla presenza.
È il luogo in cui la fretta non serve, in cui l’illusione del controllo cade, in cui la vita ti dice: “Fermati. Guarda. Respira. Vivi ora.” Non sempre la vita è una traversata.
A volte è un affacciarsi, un attendere, un lasciarsi sorprendere da ciò che non dipende da noi.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie

Dal bisogno alla verità del desiderio✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delleLa voglia è impulso, scarica, ricerca di piacere i...
24/09/2025

Dal bisogno alla verità del desiderio

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle

La voglia è impulso, scarica, ricerca di piacere immediato; il desiderio invece porta dentro verità, riconoscimento, incontro.
Non basta avere voglia per fare sesso. La voglia è un impulso, nasce e muore nell’attimo. È il corpo che cerca sfogo, è la ricerca della scarica che non sempre incontra l’altro.
Il desiderio è diverso: non si accontenta di consumare, vuole riconoscere e farsi riconoscere. È un movimento dell’anima prima che del corpo.
La verità del desiderio è che non cerca solo il piacere, ma la presenza. Non è un bisogno cieco, ma un “chiedere verità” attraverso il corpo.
Per questo, il sesso senza desiderio resta incompleto: scarica, ma non unisce.
E la vita, per crescere, ha bisogno di legami che non siano solo voglia, ma desiderio che custodisce.

Non basta la voglia per fare sesso.
La voglia consuma.
Il desiderio incontra.
Solo la verità del desiderio fa dell’unione un incontro, non una scarica.

Quando scelgo di unire il mio corpo a un altro, sto cercando scarica o desiderio?
Sto cercando di colmare un vuoto o di aprirmi a una presenza?
Viviamo in una cultura che confonde continuamente la voglia con il desiderio.
La voglia è un impulso: nasce improvvisa, cerca soddisfazione rapida, si consuma presto.
Il desiderio è un’altra cosa: non nasce solo dal corpo, ma dal cuore e dalla memoria. Non è l’urgenza di consumare, ma la sete di incontrare.
E quando si parla di sessualità, questa distinzione non è un dettaglio, ma il cuore stesso del vivere umano.
Dal punto di vista clinico, la voglia corrisponde al bisogno immediato di scaricare tensione.
• È il corpo che chiede sollievo.
• È il piacere che si consuma nel momento.
• È un movimento che può esistere anche senza l’altro, o persino contro l’altro.

Non c’è nulla di sbagliato nell’avere voglia, ma il problema nasce quando si riduce l’amore a questo. Perché la voglia, da sola, lascia il vuoto: si spegne presto, non genera legame, non custodisce memoria.
Il desiderio: verità che unisce

Il desiderio, a differenza della voglia, non è cieco. È orientato.
• Cerca non solo piacere, ma presenza.
• Non si accontenta di possedere, ma vuole riconoscere e sentirsi riconosciuto.
• Porta dentro una verità: non voglio soltanto il tuo corpo, voglio te.

Dal punto di vista psicologico, il desiderio autentico nasce quando il soggetto ha imparato a distinguere i propri bisogni infantili dalla libertà adulta. Non chiede salvezza all’altro, ma si offre come incontro.
Voglia senza desiderio: i rischi

Quando la sessualità resta chiusa nella voglia, emergono dinamiche dolorose:
• rapporti vissuti come scarico di tensione e non come incontro;
• la sensazione di essere usati o di usare;
• il vuoto e il senso di non essere stati visti davvero.

Non è raro che proprio qui nascano dipendenze affettive e sessuali: si cerca continuamente la scarica, ma non si trova mai il nutrimento.
Desiderio come cammino di verità

Il desiderio autentico è un lavoro interiore.
• Richiede di guardare in faccia le proprie mancanze senza colmarle con l’altro.
• Chiede la capacità di stare nel tempo: il desiderio non brucia tutto subito, sa attendere.
• Porta dentro un riconoscimento reciproco: io non ti riduco a funzione, ma ti incontro come persona.

Da un punto di vista spirituale, il desiderio custodisce qualcosa di più profondo: è nostalgia di infinito. Ogni incontro vero porta con sé il mistero di un “oltre” che non si consuma.
Clinica del desiderio: la trasformazione

Il passaggio dalla voglia al desiderio non è automatico, ma un percorso terapeutico e spirituale.
• Significa imparare a distinguere l’impulso dal bisogno profondo.
• Significa liberarsi dalla paura di non valere e dalla tentazione di usare l’altro per confermare se stessi.
• Significa riscoprire la sessualità come linguaggio del corpo, e non come meccanica.
Non basta avere voglia per fare sesso: ci vuole la verità del desiderio.
La voglia è necessaria, ma non sufficiente. È come il fuoco che accende, ma senza legna si spegne subito. Il desiderio è la legna che alimenta il fuoco: non brucia in un attimo, ma scalda a lungo.
La sfida per l’umano non è reprimere la voglia, ma attraversarla e integrarla, fino a lasciarla diventare desiderio vero: quello che non consuma, ma genera.
Quello che non riduce, ma riconosce.
Quello che non lascia vuoti, ma apre alla vita.

✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle soglie

Indirizzo

Giuseppe Di Vittorio 20
Acerra
80011

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