
25/09/2025
Gli altri mi devono: l’illusione del credito affettivo
✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie
Ci sono persone che vivono come se tenessero sempre un registro contabile in mano. Ogni gesto fatto, ogni parola spesa, ogni attenzione data all’altro viene appuntata come un credito. E dentro di sé maturano l’attesa: prima o poi l’altro mi deve restituire, mi deve riconoscere, mi deve amare come io l’ho amato.
Questa è l’illusione più pericolosa delle relazioni: pensare che l’amore funzioni come una banca. Che ci siano interessi, scadenze, risarcimenti. Che l’altro viva per ripagare il nostro dare. Ma l’amore non è un contratto, e se lo diventa muore.
Il credito affettivo è un veleno sottile: trasforma la libertà in obbligo, la spontaneità in dovere, il dono in debito. Così, invece di guardare il volto dell’altro, guardiamo solo il conto aperto. Invece di dialogare, invochiamo restituzione. Invece di vivere il legame, lo trasformiamo in tribunale.
E questo accade non solo nelle coppie. Lo vediamo nelle amicizie che si spezzano, perché si pretende adesione cieca alle proprie idee. Lo vediamo nelle famiglie, dove figli e genitori si rincorrono per debiti mai saldati di cura, di ascolto, di presenza. Lo vediamo persino nella spiritualità, quando Dio diventa il grande debitore a cui chiedere di colmare ogni mancanza.
La radice è antica: è il bambino interiore che ancora reclama. Quel bambino che dice: mi devi amore, mi devi riconoscimento, mi devi carezza. È un grido legittimo, ma se resta congelato diventa catena. Da adulti rischiamo di vivere ancora prigionieri di quel credito inesigibile, aspettando da altri ciò che non potranno mai darci.
E allora la vita diventa un’attesa eterna. Ci si sente sempre in credito, ma senza mai incassare. È come bussare a una banca vuota, come presentare un contratto strappato. L’altro non potrà mai ripagare quel debito, perché quel debito non è suo: appartiene alla nostra mancanza originaria.
La sfida vera è un’altra: smettere di vivere a credito. Passare dall’attesa sterile al dono generativo. Non chiedere adesione cieca, ma incontro vivo. Non domandare risarcimento, ma scegliere di costruire insieme. Non ridurre l’amore a saldo, ma lasciarlo rinascere come gratuità.
Nessuno ci deve nulla. Ed è proprio quando lo comprendiamo che tutto diventa possibile. Perché senza catene di pretesa, l’amore può tornare ad essere scelta. La fedeltà può tornare ad avere il volto della libertà. La tenerezza può tornare a scorrere senza paura di non essere ricambiata.
La verità è che non si ama per recuperare, ma per generare. Non si sta insieme per risarcire, ma per vivere. Non c’è più un conto da chiudere, ma un cammino da aprire.
E forse la vera maturità affettiva comincia proprio qui: nel giorno in cui smettiamo di aspettare un risarcimento e iniziamo a costruire una vita libera, in cui il dono non è più debito, ma possibilità.
✒️ Dr Carlo D’Angelo | Voce delle Soglie