13/05/2024
Lavorare sui confini, per noi che operiamo in Psichiatria, pur essendo una modalità che consideriamo acquisita se non scontata, rappresenta in realtà una rivoluzione copernicana, che dobbiamo saper capire a fondo, per non fare danni. Significa, che di fronte a ogni problema clinico di un paziente psichiatrico, qualunque approccio medico o psicologico tradizionale (basato sulla definizione e denominazione dei sintomi, sulla ricerca delle cause biologiche, su interventi terapeutici, per lo più farmacologici, di "sradicamento" del sintomo stesso, ecc.) non è un'operazione sbagliata o inutile (anzi!), ma è a rischio.
A rischio di cosa? di diventare a sua volta un
fattore patogeno (di tipo iatrogeno, come si suol dire) prima ancora che curativo. Perché introduce un ulteriore elemento di rottura e decontestualizzazione, in un ambito già frammentato e sconnesso, come la psiche di un paziente grave, che di tutto ha bisogno fuorché di essere ulteriormente disarticolata. Tale approccio contravviene a uno dei primi comandamenti del lavoro sui confini in Psichiatria: "mai creare o accentuare interruzioni e distanze" che il paziente non capisce ed elabora male. Distanze tra un vissuto e l'altro, tra un momento e l'altro tra un intervento e l'altro... e distanze tra un operatore e l'altro e tra il paziente e il curante. Ciò si verifica praticamente ad ogni contatto diagnostico o terapeutico, a meno che non venga fatto contestualmente un lavoro di ricucitura e di recupero della continuità perduta. Ma viene fatto nella prassi quotidiana? Poco e male, dato che fare contemporaneamente due cose di segno contrario è difficile, molto difficile, per tutti. Eppure è quello che viene richiesto all'operatore psichiatrico come normale attività quotidiana!