
23/05/2025
Condivido pienamente il pensiero della collega Psicologia SenzaCamice - Ada Moscarella.
“Se all'inizio del millennio erano tutti borderline, da qualche anno sono diventati tutti narcisisti.
Da sempre nel mio studio arrivano pazienti con partner o ex partner $tr0nzi/e, che ne hanno combinate di tutti i colori: tradimenti giustificati in modi surreali, innamoramenti a velocità supersonica, convivenze lampo, scelte completamente irrazionali, ricatti emotivi di ogni genere, atti mancati (i miei preferiti: quelli che si fanno scoprire perché non sanno come uscirne), ghosting, orbiting, storie Instagram piene di allusioni, ritorni improvvisi dopo ere geologiche (un classico del lockdown), e-mail furibonde e persino qualche serenata con chitarra in spalla.
Quando arrivano in terapia questi pazienti portano dolore, smarrimento, confusione.
Ferite nuove che spesso si sovrappongono a quelle vecchie, le riaprono, le aggravano, le infettano.
Appaiono pieni di rabbia e frustrazione, ma sotto sotto – e neanche troppo – sono pieni di paure.
Paura di restare soli, di essere sbagliati, di non meritare di meglio, di non valere abbastanza, persino di essere destinati a questo e a nient'altro.
Ci sono momenti in cui il lavoro del terapeuta deve essere netto, deciso.
Quando è in gioco la sopravvivenza, fisica o psichica, o quando sono coinvolti soggetti che non hanno possibilità di scelta – come i figli, reali o ancora solo immaginati, spesso investiti di ruoli messianici per cambiare la partita.
In questi casi, il significato di quelle paure si esplorerà dopo.
Prima, si salva il paziente. Lo si tira fuori da una casa che va a fuoco.
Ma poi bisogna chiederselo: cos’ha reso così affascinante l’idea di vivere con qualcuno che gioca con gli accendini e la benzina?
Ecco: nella retorica mainstream sulle “relazioni tossiche”, questo passaggio manca quasi sempre.
Ci sei tu, e poi c’è lo stronzo/a.
E basta.
Ti devi allontanare, devi riconoscere i segnali!
Così si fanno corsi per riconoscere i narcisisti, si stilano liste di red flags, si etichetta tutto: chiaro, semplice, digeribile.
Il problema viene ridotto a: “come evitare quelli/quelle che ti fregano”.
Come se interrogarsi su quali parti di noi ci hanno portato in quel bel guaio fosse un tabù.
Come se provarci significasse automaticamente condividere la colpa, come se mettere tutto sullo stesso piano.
E qui sta il rischio: favorire una resistenza – clinica e culturale – fondata su un patto implicito tra terapeuta e paziente.
Il terapeuta si trattiene dal pensare – o peggio, dal mostrare di pensare – “ma come hai fatto a non accorgertene?”.
Perché anche lui o lei magari ci è cascato/a, in una storia simile.
E il paziente, nel frattempo, ha un bisogno feroce di spostare tutta la frustrazione fuori da sé.
Il risultato?
Aiutiamo le persone a staccarsi da relazioni disfunzionali.
Ma non sempre le aiutiamo a creare lo spazio per accogliere relazioni funzionali.
E quello spazio non può nascere solo dall’abilità di schivare lo stronzo/a di turno.
Deve radicarsi in un’idea diversa di sé: nella capacità di provare amore, compassione, pazienza, tolleranza verso i propri bisogni, desideri, mancanze, passioni, contraddizioni.
Solo così possiamo smettere di cercare “la persona giusta” e cominciare a costruire “la relazione giusta”.