04/04/2020
Sono pronta, ho impiegato circa dieci minuti per vestirmi.
Ho messo due camici, tre paia di guanti, cuffia, occhiali di protezione, mascherina fpp3 e chirurgica sopra per poter riutilizzare la fpp3, visiera, copri collo e calzari, nastro adesivo ai polsi. Tutto in ordine preciso e sotto l’attenta supervisione e aiuto delle infermiere che rimangono ‘pulite’ dentro ogni reparto COVID19 per aiutare a noialtri che siamo in contatto con i pazienti.
Sono arrivati più DPI (dispositivi di protezione individuale) e l’armatura si è rinforzata. Mi sento più sicura anche se la paura resta.
Il nemico è invisibile, si fa fatica a darli una forma, un volto, è difficile lottare contro un fantasma.
I corridoi hanno strisce verdi e rosse per terra che separano i percorsi puliti da quelli transitati da noi in servizio. Tutto in ospedale è cambiato. Perfino noi. Sopratutto noi.
Una volta dentro non ci si può svestire per non sprecare materiale e per il rischio di contagio ad ogni manovra. Così non si mangia e non si va in bagno per quasi l’intera durata del turno o fin quando si resiste. Automatismi come grattarsi il naso o toccarsi il volto devono essere soppressi a ogni costo o si rischia la vita.
Poi, quando pensi di non farcela, vedi una ragazza più giovane di te con il casco respiratore in testa e passa tutto.
L’adrenalina ti mette a posto le priorità: so che dopo qualche ora andrò via e tornerò dai miei figli e mio marito. Ma lei rimarrà lì, attaccata alla macchina e se è stata fortunata la ritroverò stavolta sveglia il prossimo turno.
Ma non tutto è buio: le colleghe infermiere mi offrono strudel casalingo e caffè fatto nella moka all’alba. Mi spronano a mangiare, ho lo stomaco vuoto ma non ho fame. Mi raccontano storie allegri, anche loro hanno paura negli occhi ma la sanno nascondere. Sono state le prime ad arrivare e le ultime a lasciare il reparto. Sono fantastiche e mi chiedo perché applaudono ai medici quando sono loro i veri eroi. Anche loro hanno lasciato figli, marito, genitori a casa, ma hanno il cuore grande abbastanza per portare lo strudel in ospedale. Vorrei piangere di felicità ma se inizio so che non potrò fermarmi.
Non mi arrendo, imparo, studio, mi preparo per la prossima guardia in ospedale vivendo un giorno alla volta, godendomi le piccole cose che fino a qualche settimana fa davo per scontate.
E ringrazio che una mano sono riuscita a darla: più che una responsabilità sociale è un privilegio.