
29/05/2025
Mi domando che senso abbia inasprire le pene se, al contempo, non si è disposti ad investire in un'educazione all'affettività e alla sessualità.
“L’ho uccisa con una pietra perché mi aveva lasciato e non voleva tornare con me”.
Ha confessato Alessio Tucci, 19 anni, il femminicida di Martina Carbonaro, anni 14.
Lo ha fatto con queste esatte parole. Sempre le stesse. Come il copione macabro di ogni femminicidio. Quel senso di possesso malato e tossico che ritorna sempre identico. E che ogni volta rifiutiamo di vedere, di sentire, di capire.
Alessio Tucci non è un mostro. No, troppo comodo, troppo facile.
Alessio Tucci è un figlio sano del patriarcato che considera la donna - in questo caso poco più che una bambina - una “cosa propria”, di cui disporre a piacimento. E, se non la può avere, la cancella, la sopprime, la uccide, perché nessuno all’infuori di lui possa “averla”.
Maschi fragili, incapaci di amare, incapaci di accettare, incapaci di concepire il rifiuto, di leggere un’emozione.
Possiamo passare anni a inasprire le pene, a invocare ergastoli, a pretendere “chiavi buttate” e “punizioni esemplari”.
O partiamo da questa frase spaventosa nella sua banalità del male, sull’educazione sessuo-affettiva, sul possesso, sull’alfabetizzazione emotiva dei maschi, o Martina resterà solo un nome e un numero nella contabilità dell’orrore.
Questo è. Non c’è altra via.