Oriana Piangoloni - Psicologa Psicoterapeuta EMDR

Oriana Piangoloni - Psicologa Psicoterapeuta EMDR Sono psicologa psicoterapeuta EMDR, mi prendo cura delle relazioni.

12/08/2025

Ci sono settimane in cui la stanza di terapia sembra divorare tutto il tempo.
Pazienti, urgenze, report, messaggi, riorganizzazioni.
E poi, a fine giornata, ti ritrovi svuotata e senza un minuto per aprire quel libro che volevi leggere da giorni.
Non per obbligo, ma per desiderio.
Ne parlavamo in intervisione non molto tempo fa: dove va a finire il tempo per pensare?
Il tempo non produttivo, non fatturabile, non visibile.
Quel tempo lento, in cui le idee si sedimentano, i collegamenti si fanno vivi, le intuizioni emergono.
Nel lavoro clinico, il pensiero è parte della cura.
Non è un lusso. È ciò che tiene in vita il nostro sguardo.
Quando non leggiamo più, non studiamo, non ci confrontiamo… smettiamo di evolvere. E senza accorgercene, iniziamo a ripetere.
Ho iniziato a proteggere piccole porzioni di tempo, come fossero finestre sacre.
A volte basta un’ora in silenzio. Una pagina sottolineata. Una domanda che resta lì, a fermentare.
Non serve sempre fare di più. A volte serve solo spazio per pensare meglio.

09/08/2025

Una paziente parla del suo corpo, del suo piacere, di come “nessuno capisce davvero cosa voglia dire essere una donna che vuole”.
E nella stanza si muove qualcosa.

Non è imbarazzo. È più sottile.
È una tensione. Una domanda interna che rimbalza: “Cosa sto sentendo io, mentre lei parla?”

La sessualità femminile, quando si esprime con forza — non come sintomo, ma come desiderio vivo, arrabbiato, impaziente — può smuovere molto anche in chi ascolta.

Se sei una terapeuta donna, c’è una doppia risonanza:
quella professionale e quella personale.
La parte che accoglie, e la parte che sa benissimo di cosa sta parlando quella paziente.

Il rischio è mettersi dalla parte del contenimento troppo in fretta.
Offrire parole giuste, posture neutre, ma non sentire più davvero.
Come se la forza di quella rabbia erotica dovesse essere ridotta a codice.

Invece no.
Quella rabbia va accolta, riconosciuta, pensata, anche quando ci tocca.
Anzi: proprio perché ci tocca.

È lì che la clinica si fa viva.
Quando non solo accompagniamo, ma ci lasciamo interrogare.
E stiamo in quella tensione senza spegnerla.
Finché diventa parola, e non più solo reazione.

07/08/2025

Quante volte ci siamo sentiti in ferie ma con la testa ancora al lavoro, paralizzati dalla paura che qualcuno “scopra” che non siamo poi così bravi.

La sindrome dell’impostore non è solo una sensazione passeggera: erode autostima, rallenta la crescita professionale e personale, e ci tiene imprigionati in un ciclo infinito di autocritica.

In questo articolo, la collega Luisa Fossati esplora da vicino come nasce questa convinzione di “non essere mai abbastanza”, quali meccanismi mentali la alimentano e come l’EMDR può aiutare a spezzare questo schema.

🔗 [Link all’articolo https://emdrfirenze.com/sindrome-dellimpostore-comprenderla-affrontarla-e-superarla-con-laiuto-della-psicoterapia-emdr/]

Agosto rallenta, ma il lavoro no.Meno sedute, più “dietro le quinte”: sistemo lo studio, monto lampade, preparo i prossi...
06/08/2025

Agosto rallenta, ma il lavoro no.
Meno sedute, più “dietro le quinte”: sistemo lo studio, monto lampade, preparo i prossimi contenuti.
È il momento di fare quello che durante l’anno non trova spazio.

06/08/2025

Un giorno il paziente entra e racconta qualcosa con un tono nuovo.
Non cerca approvazione. Non si giustifica. Non si scusa.

Sta solo lì, in quello che ha fatto. In quello che ha scelto.
Come se, per la prima volta, potesse essere sé stesso senza paura.

Non sempre arriva con un grande insight.
A volte è un gesto semplice: chiedere di spostare un orario, portare un tema scomodo, dire di essere arrabbiati.
E lo fanno senza scappare.

In questi momenti si sente che qualcosa si è spostato.
Che il setting — nella sua ripetitività, nella sua solidità — è diventato un luogo interno, non solo esterno.
Un luogo dove ci si può presentare interi. Non solo bambini da accudire. Non solo figli da compiacere.

Per molti pazienti, la stanza di terapia è il primo spazio davvero adulto.
Uno spazio in cui l’autonomia non rompe il legame, e il legame non chiede sottomissione.

È lì che la cura diventa trasformativa.
Non perché guarisce, ma perché restituisce qualcosa che prima non c’era:
la possibilità di esserci, senza bisogno di scegliere tra amore e libertà.

03/08/2025

Nel lavoro terapeutico con persone q***r, un rischio sottile (e frequente) è quello dell’esotizzazione clinica:

trattare l’identità sessuale o di genere come fatto centrale,

interpretare ogni sintomo come espressione della “diversità”,

sovrainvestire la categoria e sottovalutare la soggettività.

Questa dinamica, spesso inconsapevole, trasforma il paziente q***r in una figura da “gestire” con cura, o da “capire” come fosse clinicamente speciale.
Ma così facendo, si rompe una dinamica fondamentale del setting:
non è il paziente a dover spiegare chi è, ma il terapeuta a doversi interrogare su come guarda.

Clinicamente, questo si manifesta in due modi:

una ipersimbolizzazione dell’identità q***r (“la sua non conformità è la radice del malessere”),

oppure una neutralizzazione difensiva (“l’identità non conta, lavoriamo solo sul sintomo”).

Entrambe le risposte sono difese.
E in entrambi i casi, la soggettività viene messa da parte.

Una clinica q***r-competente non significa adottare nuovi linguaggi o moltiplicare le etichette.
Significa, più radicalmente, saper stare in ascolto senza colonizzare il senso.
L’identità non è la spiegazione di nulla, ma è parte della storia.
E ogni storia va trattata come unica, incarnata, legata al contesto.

L’etica clinica sta qui:
non rendere straordinario ciò che, per chi lo vive, è semplicemente realtà.

31/07/2025

Coppia in seduta.
Uno dei due dice: “Litighiamo sempre per le stesse cose.”
L’altro risponde, secco: “No, è che non mi ascolti mai.”
E poi si parte. Scena già vista, mille volte. Le parole diverse, l’energia identica.
È come assistere a una danza. Sempre la stessa coreografia.
Parte uno, l’altro risponde, si alzano i toni, poi silenzio, distanza, rancore.
A volte riavvicinamento. A volte gelo.
Eppure spesso (e chi lavora con le coppie lo sa bene) non è il contenuto della lite a essere il problema, ma la struttura profonda della dinamica che si ripete.

Nel lavoro clinico con le coppie, la “lite” è solo la superficie.
Quello che osserviamo è il modo in cui i partner si cercano (e non si trovano), si difendono (anziché proteggersi), si attaccano (per non sentirsi abbandonati).
È l’attivazione di copioni relazionali antichi, spesso radicati nell’attaccamento primario, che vengono riattivati proprio nel luogo dove si spera di sentirsi al sicuro: la relazione.
Usare modelli come quello del Metodo Gottman, ad esempio, ci aiuta a dare un nome e una struttura ai pattern disfunzionali (critica, disprezzo, difensività, muro di gomma) e a trasformarli in spazi di regolazione e di incontro.
Ma serve anche una lettura profonda della funzione difensiva della lite e del bisogno sottostante.

Se vi sembra di litigare sempre per le stesse cose (che siano i piatti nel lavello, l’educazione dei figli, il tempo passato al cellulare o qualunque altra cosa), forse è il momento di chiedervi:
Cosa c’è sotto?
Cosa stai davvero cercando, quando alzi la voce o ti chiudi nel silenzio?
Che ferita si sta riaprendo? Quale paura si sta attivando?
La terapia di coppia non è il tribunale dove si decide chi ha ragione.
È lo spazio dove si smette di combattere l’uno contro l’altro e si inizia a guardare insieme il ciclo che tiene prigionieri entrambi.
Litigare sempre allo stesso modo è un segnale.
Non di rottura. Ma di una possibilità di trasformazione, se ci si ferma a guardare, con aiuto, cosa succede davvero.

28/07/2025

“Ma quindi l’EMDR è tipo… muovere gli occhi e passa tutto?”
Questa domanda me la sono sentita fare spesso. A volte con curiosità genuina, altre con un pizzico di scetticismo, altre ancora con la speranza che esista davvero una scorciatoia per soffrire meno.
E capisco da dove nasce: viviamo in un’epoca dove vogliamo risultati rapidi, meglio se “scientificamente provati”, e dove la psicoterapia (anche grazie alla divulgazione) è più visibile, ma spesso anche più semplificata.
L’EMDR è una metodologia potente, e validata scientificamente, ma non è una bacchetta magica. E soprattutto non è una tecnica da applicare in modo standardizzato, senza una solida concettualizzazione clinica. Farlo è rischioso.
Perché è rischioso?
Perché nei pazienti complessi – quelli con traumi precoci, storie di attaccamento disorganizzato, disregolazione cronica, sintomi somatici, dissociazione o strutture di personalità fragili – un lavoro solo tecnico può diventare non solo inefficace, ma anche dannoso.
L’EMDR non può essere ridotto a un “protocollino” da applicare in serie, né a un procedimento meccanico da seguire passo dopo passo. Quando manca una cornice teorica chiara e un ascolto profondo del funzionamento del paziente, si rischia di “stimolare” troppo e troppo presto, o di andare a toccare nodi che non sono ancora integrabili.
Serve una mappa
Nel lavoro con questi pazienti, la tecnica deve essere al servizio della comprensione, non il contrario. Serve una mappa: una teoria della mente, una lettura delle difese, della relazione terapeutica, delle dinamiche transferali e controtransferali. Serve saper leggere il tempo interno del paziente, la sua finestra di tolleranza, i segnali sottili della sua regolazione (o disregolazione).
E serve comprendere se è il caso di non procedere, di integrare con altri strumenti, di procedere in modo progressivo, di aspettare. Serve il coraggio di usare l’EMDR quando è il momento giusto, anche se non è subito. Questo non è “non fare EMDR”: è fare EMDR in modo clinicamente etico e fondato.

Ai colleghi e alle colleghe
Noi che usiamo l’EMDR, e che lo amiamo per ciò che può facilitare nei nostri pazienti, abbiamo una responsabilità: proteggerlo dalla banalizzazione. Difendere la complessità del lavoro clinico, integrare la tecnica in una cornice teorica solida, continuare a formarci, a supervisionarci, a dubitare.

E a chi ci legge da “paziente”
Se stai pensando di iniziare un percorso EMDR, sappi che hai tutto il diritto di chiedere. Di capire come funziona. Di non accontentarti di una risposta meccanica. Perché la terapia è un incontro tra storie, non un’app da installare.
E tu non sei un protocollo da eseguire, ma una persona da ascoltare, da comprendere e da accompagnare – con delicatezza, fermezza e rispetto per i tuoi tempi.

25/07/2025

C’è una stanchezza strana, che non assomiglia a quella dei giorni pieni.

È più sottile. Non si sente subito, ma si accumula.

Arriva quando ti accorgi che ascolti… ma un po’ più distante. Che le parole del paziente ti attraversano, ma non ti toccano più davvero.

Non è disinteresse. È compassion fatigue.

Una stanchezza da troppa esposizione al dolore, anche quando non lo riconosci subito come tale.

Ne abbiamo parlato in intervisione. E ci siamo rese conto che a volte l’identificazione con il ruolo di chi cura ci impedisce di prenderci cura di noi.

Andiamo avanti per inerzia. Per senso del dovere. Perché “ci siamo sempre stati”.

Ma poi iniziamo a svuotarci.

Non basta più dirsi “mi prendo una pausa”: serve riconoscere che la pausa è parte del lavoro.

Che la presenza autentica richiede ricarica, nutrimento, confronto.

Che ascoltare davvero implica anche essere ascoltati.

Ogni volta che penso alla compassione professionale, mi ricordo che non è una risorsa infinita.

E che per poterla offrire, devo anche imparare a conservarla.

13/12/2024

3 mini-passi per prevenire lo stress (e recuperare l’equilibrio): 🌟
1️⃣ Prendi 5 minuti solo per te. Sì, anche adesso! Spegni tutto e fai qualche respiro profondo. Inspirare per 4 secondi, trattenere per 4, espirare per 4. Ripeti. Ti sorprenderai del risultato. 🌬️
2️⃣ Fai un elenco. Scrivi tutto ciò che ti preoccupa e poi scegli UNA cosa su cui concentrarti. Non devi risolvere tutto oggi, davvero.
3️⃣ Muoviti. Anche una passeggiata breve può aiutare a scaricare la tensione e far tornare chiarezza mentale. 🚶‍♀️

👉 Hai provato uno di questi consigli? Faccelo sapere nei commenti! Ricorda: piccoli passi portano grandi cambiamenti. 🌈

12/12/2024

📚 Stressato? Ecco un paio di libri che potrebbero cambiarti la vita!

A volte lo stress sembra prendere il controllo, ma sai cosa può aiutare? Un po’ di ispirazione e nuove prospettive! Ecco delle letture che ti consiglio se vuoi capire meglio lo stress e imparare a gestirlo:

1️⃣ "La trappola della felicità" di Russ Harris
Ti insegna come affrontare lo stress e l’ansia accettandoli, invece di combatterli. Perfetto se cerchi un approccio pratico!

2️⃣ "Vivere momento per momento" di Jon Kabat-Zinn
Un libro bellissimo per chi vuole scoprire il potere della mindfulness e come portare più calma nella vita di tutti i giorni. 🌿

👉 Hai già letto uno di questi libri? Oppure hai altri suggerimenti da condividere? Scrivilo nei commenti, potremmo scoprire insieme nuove letture per rilassarci! 💆‍♀️📖

E ricorda: lo stress si può affrontare, un passo alla volta... o una pagina alla volta. 😊

11/12/2024

Hai mai ascoltato il tuo stress? 🤔
Sì, hai capito bene. Lo stress è come un campanello d’allarme: non arriva per rovinarti la giornata, ma per dirti che qualcosa ha bisogno della tua attenzione. Magari stai correndo troppo, magari hai detto "sì" quando volevi dire "no", o forse non ti sei fermato da giorni per ti**re il fiato.

✨ Rifletti su questo: Quali sono i segnali del tuo corpo quando sei stressato? Mal di testa? Stanchezza? Nervosismo?
👉 Riconoscerli è il primo passo per recuperare il controllo. Condividi nei commenti i tuoi segnali “d’allarme”, potremmo scoprire di avere molto in comune! 💬

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