28/07/2025
“Ma quindi l’EMDR è tipo… muovere gli occhi e passa tutto?”
Questa domanda me la sono sentita fare spesso. A volte con curiosità genuina, altre con un pizzico di scetticismo, altre ancora con la speranza che esista davvero una scorciatoia per soffrire meno.
E capisco da dove nasce: viviamo in un’epoca dove vogliamo risultati rapidi, meglio se “scientificamente provati”, e dove la psicoterapia (anche grazie alla divulgazione) è più visibile, ma spesso anche più semplificata.
L’EMDR è una metodologia potente, e validata scientificamente, ma non è una bacchetta magica. E soprattutto non è una tecnica da applicare in modo standardizzato, senza una solida concettualizzazione clinica. Farlo è rischioso.
Perché è rischioso?
Perché nei pazienti complessi – quelli con traumi precoci, storie di attaccamento disorganizzato, disregolazione cronica, sintomi somatici, dissociazione o strutture di personalità fragili – un lavoro solo tecnico può diventare non solo inefficace, ma anche dannoso.
L’EMDR non può essere ridotto a un “protocollino” da applicare in serie, né a un procedimento meccanico da seguire passo dopo passo. Quando manca una cornice teorica chiara e un ascolto profondo del funzionamento del paziente, si rischia di “stimolare” troppo e troppo presto, o di andare a toccare nodi che non sono ancora integrabili.
Serve una mappa
Nel lavoro con questi pazienti, la tecnica deve essere al servizio della comprensione, non il contrario. Serve una mappa: una teoria della mente, una lettura delle difese, della relazione terapeutica, delle dinamiche transferali e controtransferali. Serve saper leggere il tempo interno del paziente, la sua finestra di tolleranza, i segnali sottili della sua regolazione (o disregolazione).
E serve comprendere se è il caso di non procedere, di integrare con altri strumenti, di procedere in modo progressivo, di aspettare. Serve il coraggio di usare l’EMDR quando è il momento giusto, anche se non è subito. Questo non è “non fare EMDR”: è fare EMDR in modo clinicamente etico e fondato.
Ai colleghi e alle colleghe
Noi che usiamo l’EMDR, e che lo amiamo per ciò che può facilitare nei nostri pazienti, abbiamo una responsabilità: proteggerlo dalla banalizzazione. Difendere la complessità del lavoro clinico, integrare la tecnica in una cornice teorica solida, continuare a formarci, a supervisionarci, a dubitare.
E a chi ci legge da “paziente”
Se stai pensando di iniziare un percorso EMDR, sappi che hai tutto il diritto di chiedere. Di capire come funziona. Di non accontentarti di una risposta meccanica. Perché la terapia è un incontro tra storie, non un’app da installare.
E tu non sei un protocollo da eseguire, ma una persona da ascoltare, da comprendere e da accompagnare – con delicatezza, fermezza e rispetto per i tuoi tempi.