
31/01/2025
Perchè Tornare a parlare del nichilismo
I giovani stanno male. Lo vedo ogni giorno, nei loro sguardi sfuggenti, nei loro silenzi densi, nelle loro parole stanche prima ancora di essere pronunciate. E non è il malessere tipico dell’adolescenza, quell’inquietudine esistenziale che segna il passaggio all’età adulta. No, qui si tratta di un male più profondo, più radicato, che penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, fiacca la loro anima e cancella ogni prospettiva di futuro. Un ospite inquietante si aggira tra loro: il nichilismo. Non lo sanno chiamare per nome, ma ne avvertono il peso. È una nebbia che avvolge ogni emozione, un vuoto che inghiotte ogni speranza, un’ombra che si insinua nelle loro vite fino a renderle esangui.
E torno a parlare di nichilismo perché oggi, più che mai, è necessario. Un tempo lo si poteva considerare una questione filosofica, il tema per le riflessioni di Nietzsche, di Heidegger, di Dostoevskij. Oggi, invece, il nichilismo è una realtà concreta, diffusa, pervasiva. È il clima culturale in cui siamo immersi. Un clima che priva i giovani di ogni orizzonte di senso, che spegne la passione prima ancora che possa accendersi, che trasforma la vita in un esercizio di sopravvivenza emotiva.
Le famiglie si allarmano, la scuola è smarrita, e il mercato? Lui sì che ha trovato una funzione per questi giovani disorientati: trascinarli nel vortice del consumo e dell’intrattenimento. Perché nel nichilismo la vita si consuma, e non sono gli oggetti a diventare obsoleti, ma le persone stesse, che si logorano nell’assenza di un futuro. E allora il presente diventa l’unico orizzonte possibile, da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità sia portatrice di gioia, ma perché è l’unica difesa contro l’angoscia, contro quel senso di vuoto che emerge ogni volta che si arresta il frastuono e ci si ritrova soli, di fronte al proprio deserto interiore.
Ma se li interrogo, se chiedo loro di descrivere il proprio malessere, il più delle volte non trovano le parole. E non per una loro mancanza, ma perché vivono immersi in un analfabetismo emotivo che impedisce loro di riconoscere e nominare ciò che sentono. E come si può dare un nome al nulla che li pervade? In una società in cui la famiglia non offre più un rifugio e la scuola ha perso ogni autorità, la comunicazione si svuota, le parole si dissolvono prima ancora di raggiungere il loro scopo. E allora resta il silenzio. O, al contrario, il grido. A volte un grido disperato, a volte un grido soffocato dalla musica nelle cuffie, dalla droga che anestetizza il dolore, dalla solitudine che avvolge e isola.
E in questa solitudine, in questo deserto di valori, resta solo un’ultima illusione di senso: il denaro. L’unico generatore simbolico di valore che la nostra cultura sembra aver lasciato in piedi. Non la famiglia, non la scuola, non la comunità, non l’amicizia, non la politica, non l’arte, non la cultura. Solo il denaro, nella sua spietata logica di mercato, in cui ogni cosa si compra e si vende, e dove anche la vita diventa merce di scambio.
Ma non è sempre stato così. I valori cambiano con il tempo. Prima della Rivoluzione francese la società era ordinata da gerarchie, poi da principi di cittadinanza e uguaglianza, almeno formale. Eppure, questo mutamento non ha generato nichilismo. Il nichilismo arriva quando i valori collassano e nessuno li sostituisce, quando il vecchio ordine muore e il nuovo non nasce, quando ci si ritrova, come scriveva Hölderlin, in quel limbo in cui "gli dèi sono fuggiti e i venienti non sono ancora arrivati". È il tempo della povertà estrema, direbbe Heidegger. Il tempo in cui manca il fine, manca la risposta al "perché?". Il tempo in cui il futuro non è più una promessa ma un’incognita paralizzante.
E allora i giovani si ritirano. Non per protesta, ma per rassegnazione. Dormono fino a mezzogiorno, vivono di notte, perché il giorno li mette di fronte alla loro insignificanza sociale. Non sono risorse, sono problemi. Non vengono chiamati per nome, non vengono ascoltati, non vengono coinvolti. Sono parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, nell’attesa di qualcosa che non arriva mai. E così, per non affrontare la delusione, la anticipano. Rinunciano prima ancora di tentare. Implodono.
E qui sta il vero fallimento della nostra società. Non negli integralismi, non nell’efficienza di altre culture che avanzano, ma nella nostra incapacità di offrire ai giovani una prospettiva credibile. Abbiamo smesso di progettare per loro, di ideare con loro, di generare per loro un futuro degno di essere vissuto. Li abbiamo lasciati soli con il loro nichilismo, e poi ci stupiamo se non sanno cosa farsene della propria vita.
Ma se il disagio non è psicologico, se non è individuale, allora non basteranno i farmaci, non basterà la psicoterapia. Perché il disagio non è nella mente dei giovani, ma nella cultura che li circonda. Una cultura che ha smesso di offrire senso, che non sa più rispondere alla domanda fondamentale: perché sono al mondo?
Nietzsche ci aveva avvertiti. "Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al ‘perché?’". Ma se davvero l’uomo è, come diceva Goethe, un essere volto alla costruzione di senso, allora il nostro compito non è quello di curare le ferite individuali, ma di ricostruire un orizzonte culturale che restituisca ai giovani ciò che oggi manca loro: la possibilità di credere in qualcosa. Perché il problema non è la sofferenza – quella c’è sempre stata, e l’umanità ha sempre cercato di darle un senso – il problema è il vuoto di significato. Non soffrono perché stanno male. Soffrono perché non sanno più perché vivere.
Ecco perché torno a parlare di nichilismo. Perché il nichilismo non è più un’idea, un concetto astratto da discutere nei convegni di filosofia. È diventato la condizione esistenziale del nostro tempo. E se non lo affrontiamo, se non ne riconosciamo la portata, continueremo a perdere intere generazioni nel deserto dell’insensatezza.