01/05/2023
HO PAURA DEI PAZIENTI: LA TERAPIA È UN RING?
“Della correttezza poi non gliene importava assolutamente niente, lui odiava tutto ciò che è corretto, nei decenni di storia della propria vita aveva imparato a odiare la correttezza” (T. Bernhard “La Fornace”)
Lo confesso, non sarò corretto, ma lo confesso… ho paura dei pazienti, di tutti i pazienti, nessuno escluso. Ad ogni primo contatto la paura mi viene a trovare, inizio a pensare se mi farà male, se mi stalkerizzerà, se mi piacerà troppo o troppo poco, se la mia indole paranoica sentirà una eco, se la sua ansia ballerà con la mia, se la sua paura abbandonica riverberà la mia, oppure se tutto ciò che mi abita finirà per far male a lui o a lei.
E vi dirò di più, s’io fossi una donna, al primo contatto, specie oggi che le terapie si fanno online, mi coglierebbe anche il timore di qualche fanciullo attempato un pelino ar****to che ha scrutato la mia foto sul profilo fb… si ho paura.
Ecco! Si quando mi chiamano o mi messaggiano sono come una donna che riceve un apprezzamento per strada, ossia la mia soddisfazione per aver ricevuto quell’attenzione è sempre seconda rispetto al mio timore di che cosa possa succedere.
Oddio sia chiaro, non è sempre così. A volte la questione è più snella, ma spesso mi è utile una tecnica banale, fingere di parlare come se avessi tre o quattro spettatori che sentono la telefonata, un piccolo pubblico composto da qualche collega affezionato che mi sorride e mi ricorda di non dire cazz… ops scusate, di non dire baggianate.
Allora qui oggi vorrei spiegarvi brevemente perché questa paura deve essere doppia quando si lavora nel settore pubblico, e ve lo spiegherò spiegando il transfert e suo cugino, quello che ho battezzato il “transfert istituzionale”.
Se chiedete a Google cosa sia il transfert, Lui (che poi chi lo ha deciso che Google sia uomo non si sa) vi risponderà che il transfert è “il processo di trasposizione inconsapevole, nella persona dell'analista, di sentimenti provati dal soggetto nei riguardi di persone che ebbero importanza nella sua vita infantile”.
Ora capirete la mia paura. Anzi vi confesso che ogni volta, ogni singola volta mi viene la tentazione di dire qualcosa del tipo “Ma cosa c’entro io se tuo padre era rabbioso?!” o ancora “Ma che colpa ho se tua madre non ti curava?!”. Insomma un terapeuta, anche se è cognitivo comportamentale, raccoglie su di se le emozioni relazionali prototipiche dei pazienti.
E considerate che a volte ci sono carnefici anche un po’ più cattivi, ma soprattutto considerate che un buon terapeuta, ed io lo sono, sa che i cattivi esistono e che poco conta sapere che la parola cattivo viene dal latino, da captivus, ossia prigioniero… insomma la mia è la professione in cui dare asilo al “male”, sia nei casi in cui chi giunge lo abbia subito, sia che lo abbia perpetrato.
E la terapia è il luogo in cui poter fare una sorta di esperienza riparatoria rispetto a quelle configurazioni emozionali che hanno costellato la vita dei pazienti.
Ma ora provate a pensare… e se si lavora in una istituzione? Che so magari in un Centro di Salute Mentale? Oppure in SPDC come la collega uccisa? Oltre al transfert canonico vi si aggiunge quello istituzionale. Già la sola idea di aggiungere mi fa ve**re un po’ di pelle d’oca, ma il trasfert istituzionale non è un aggiunta qualsiasi… ora vi spiego ma rischierò di scadere in tecnicismi… non me ne vogliate.
Quando un paziente contatta il suo medico o il CSM, mette in stand by il transfert individuale e inizia ad essere attraversato da una serie di fantasie e aspettative verso l’istituzione, ossia verso quelle strutture sociali come scuola, sanità o lavoro, con le quali ci si interfaccia da e per tutta la vita e alle quali attribuiamo delle richieste che vogliono farci.
Insomma il transfert istituzionale è l’insieme di quelle aspettative sociali nei nostri confronti, che si traducono in un sistema di aspettative personali. E verso la società ognuno di noi si impegna, ma al contempo ognuno di noi si arrabbia per il fatto che Lei, la società non funziona come predica e chiede a noi di funzionare. In realtà si tratta di una proiezione di un combattimento interiore.
Allora un paziente che contatta la sanità pubblica, si aspetta che Lei, la ASL, gli garantisca la salute. Poi, ahimè, si accorge che la Sanità pubblica, così come la società, funziona a singhiozzo, e ad ogni singulto il paziente sussulta e s’incazz… ops scusate, si inalbera.
Poi si aspetta che la ASL si scusi, cambi, modifichi la sua struttura mentre la ASL come la famiglia e come la società tutta, vive in autotutela ossia sacrifica il singolo per proteggere se medesima… questo nella sanità, quella dei protocolli miopi e assurdi, viene portato all’estremo.
Ora provate a immaginare un professionista delle relazioni di aiuto che oltre al transfert individuale si debba far carico di quello istituzionale, quello che ha un carattere tipicamente paranoico e sul quale non sia ha la possibilità di agire in modo diretto.
Allora potremmo dire che nelle terapie private paziente e terapeuta fanno squadra rispetto alla collettività, mentre nel pubblico il paziente non ci crede in questa alleanza perché ha sempre la sensazione che il terapeuta sia dalla parte di quella collettività, dell’istituzione.
E invece non sa quanto il terapeuta viva le sue stesse tragici emozioni verso quella stessa istituzione, e non accetta neanche che il terapeuta si dichiari estraneo a ciò che nell’istituzione non funziona.
Il paziente allora stringe il terapeuta in un doppio legame, ossia chiede di fare squadra con lui e contemporaneamente gli chiede di non rinnegare il legame che il terapeuta ha con quella istituzione. È lacerante e faticosissimo e ogni terapeuta in quel contesto sa che è costretto a tenere questo pesante fardello.
Un fardello che può indurre qualcuno a vivere una rabbia così intensa da volerla agire, e magari uccide il terapeuta per ammazzare quel sistema, ma questa è solo un’ipotesi perché quel paziente probabilmente ha molto altro nella sua anamnesi. Ma una cosa è certa, i servizi pubblici sono diventati luoghi di trincea e si accusa Basaglia che ha aperto i manicomi senza ricordarsi che quel tizio f***e circa 50 anni fa aveva pensato a un sistema di salute mentale che rinviava all’idea di una comunità educante e non di un’azienda erogante.
Insomma ho paura e mi scuso se sono caduto in tediosi tecnicismi, ma più che per esercizio narcisistico, lo faccio perché penso che abbiamo bisogno di nuove teorie, nuovi concetti, nuovi modelli. E per nuovi non intendo sempre gli stessi ma con nomi diversi, ma nuovi veramente. La terapia invita i pazienti a costruire nuovi modelli interni a loro stessi ma non ha intenzione di cambiare i propri.
La signora Terapia deve andare in terapia e lo sa solo chi come me, e come i colleghi che hanno fatto trincea, ha vissuto l’esperienza delle minacce e dell’aggressione su di se e vigliaccamente ha deciso di fare della paura la sua miglior alleata. E paura significa “pavire” ossia tastare il terreno per vedere se tiene… mi scuso ma non riesco a fare a meno di tastare.
Saluto voi, la collega e tutti e vi chiedo, come lo chiedo ai colleghi e alle colleghe a cui faccio supervisione, di fare un esercizio immaginativo per capire come ci si può sentire se si viene picchiati da qualcuno insieme a tuo fratello e poi, lui, tuo fratello ti chiede di scusarsi per non averlo protetto a sufficienza.
Buona terapia.
Luca Urbano Blasetti