Psicologa Psicoterapeuta Valentina Seghini

Psicologa Psicoterapeuta Valentina Seghini Studio di Psicologia Clinica, Psicodiagnosi, Psicoterapia, Analisi Transazionale, Psicotraumatologia

- Visita psicologica.
- Consulenze e colloqui psicologico-clinici.
- Valutazione psicodiagnostica.
- Psicoterapia, individuale, di coppia e di gruppo.
- Valutazione e riabilitazione neuropsicologica (demenze, disturbi della memoria, agnosie, aprassie, linguaggio).
- Progettazione sociale.
- Psicologia scolastica. Attività clinica:

problematiche della relazione;
problematiche dell'adolescenza;
problematiche dell'età senile;
sostegno alla genitorialità;
problematiche della coppia (separazioni, divorzi, lutti);
disturbi post-traumatici;
disturbi psicosomatici;
depressione;
ansia e attacchi di panico;
problematiche della sessualità;
identità di genere;
dipendenze patologiche (gioco d'azzardo; internet, ecc...);
disturbi alimentari;
disturbi di personalità.

Quando un bambino o un adulto vive qualcosa di troppo grande da gestire e non trova un testimone empatico, una figura ch...
29/09/2025

Quando un bambino o un adulto vive qualcosa di troppo grande da gestire e non trova un testimone empatico, una figura che lo veda e lo accompagni, la sofferenza resta congelata, dissociata, e diventa ferita traumatica.

In altre parole: non è solo l’urto dell’evento, ma il vuoto relazionale che lo segue a rendere il dolore intollerabile.

Il terapeuta, co-regola, offre al paziente la possibilità di sentirsi accompagnato dentro ciò che prima era insopportabile da vivere da soli.
È questo passaggio che apre la strada...

Quando l’accesso al ricordo è troppo difficile si utilizzano le tecniche sensomotorie. Queste lavorano sul corpo, senza bisogno di “ricordare tutto a parole”, e aiutano a sciogliere le tracce del trauma rimaste nella memoria implicita.

Alcuni esempi:

-notare le sensazioni fisiche presenti qui e ora e imparare a modularle;

-lavorare su posture e movimenti interrotti (es. un gesto di difesa mai completato) per dare al corpo la possibilità di “finire l’azione bloccata”;

-esercizi di radicamento e confine corporeo, che rafforzano la percezione di sicurezza.

L’EMDR, integrato con l’approccio sensomotorio, consente poi di rielaborare i ricordi congelati: non serve riviverli per intero, ma gradualmente trasformarli da frammenti traumatici a memorie integrate.

In questo modo, la terapia non forza mai il paziente ad affrontare da solo il trauma, ma lo accompagna passo dopo passo: dal corpo alla mente, dal silenzio alla parola, dalla solitudine alla relazione.

Nel trauma complesso, vergogna e dissociazione sono due facce della stessa ferita.La dissociazione nasce come difesa: il...
28/09/2025

Nel trauma complesso, vergogna e dissociazione sono due facce della stessa ferita.
La dissociazione nasce come difesa: il bambino che subisce abusi o trascuratezza cronica non può tollerare la piena consapevolezza di quello che accade. Divide allora l’esperienza: una parte vive l’evento, un’altra lo “mette via”, per sopravvivere.

Ma questa scissione non è neutra. A tenerla insieme si insinua la vergogna:
👉 “Se è successo a me, vuol dire che sono sbagliato.”
👉 “Se mi hanno trattato così, è perché non valgo.”

La vergogna diventa quindi il filo rosso che unisce le parti dissociate: non lascia ricordare tutto, ma lascia sentirsi difettosi. Non si limita ad accompagnare l’esperienza, ma diventa una sorta di marchio identitario. Non ricordiamo tutto quello che è accaduto, ma resta la sensazione costante di non valere, di essere difettosi, di meritare in qualche modo ciò che si è subito. Come se la mente avesse sacrificato la memoria per salvare il legame con l’altro, lasciando però una voce interiore che continua a ripetere: “Se è successo a me, vuol dire che sono io il problema.”

Judith Herman lo descrive come un senso di indegnità che imprigiona; Bessel van der Kolk spiega che il corpo trattiene quelle esperienze sotto forma di sensazioni e reazioni che non trovano parole; Giovanni Liotti ci ricorda che nei legami disorganizzati il bambino impara a pensarsi “sbagliato” pur di non perdere la vicinanza della figura di accudimento.

Una storia clinica:
Una giovane donna in terapia racconta di “non provare nulla”. Quando ripensa alla sua infanzia, dice:
“So che succedevano cose brutte, ma è come se fossero scene di un film. Non sento niente… tranne la sensazione costante di essere sbagliata.”

Questa è la dissociazione in azione: il ricordo resta “lontano”, mentre la vergogna diventa il sentimento dominante, quello che si incarna nell’identità.

Il lavoro terapeutico, allora, non è forzare la memoria, ma creare uno spazio sicuro in cui le parti dissociate possano essere riconosciute e integrate. Solo così la vergogna smette di essere una condanna silenziosa e può trasformarsi in un segnale che porta alla cura.

Non possiamo più stare in silenzio!!!Ogni bambino ucciso non è solo “una vittima della guerra”, è l’annientamento di una...
19/09/2025

Non possiamo più stare in silenzio!!!
Ogni bambino ucciso non è solo “una vittima della guerra”, è l’annientamento di una possibilità di futuro. Ogni madre, ogni padre che piange non è “un danno collaterale”, è un grido che dovrebbe scuotere le nostre coscienze. E se fossero i nostri figli? E se gli "altri" fossimo noi?
Da ieri Gaza in blackout e i civili in esodo. È straziante!!!

Eppure, di fronte a questa distruzione, molti preferiscono il silenzio.
Forse perché parlare di Thanatos, è troppo scomodo.
Forse perché ci ricorda che dentro ogni società, dentro ogni individuo, esiste questa tentazione di annientare, di distruggere.
Ma il silenzio non ci salva: ci rende complici!!!
Io ci metto la faccia!!!

La guerra a Gaza non è solo geopolitica. È psiche collettiva ferita, è umanità dissociata.
Restare neutrali davanti a massacri e bombardamenti significa lasciar crescere la parte più oscura della psiche umana.

Chi lavora con il dolore umano lo sa: il trauma non è mai neutro, lascia cicatrici che passano di generazione in generazione. Oggi, in Palestina, si sta generando un trauma transgenerazionale globale.

Non possiamo fermare le bombe da soli. Ma possiamo scegliere di non restare zitti, di denunciare, di rifiutare questa narrazione disumanizzante. Possiamo opporci! Bloccando l'economia di chi vuole questa distruzione!

Chiediamoci quale parte vogliamo nutrire, in noi e nel mondo: pulsioni di vita o pulsioni di morte?!!!

Non basta indignarsi a metà. Non basta abbassare lo sguardo.
Il silenzio è già una scelta!!!

Sono amareggiata, angosciata dalle immagini che ci colpiscono ogni giorno di questo crimine contro l'umanità. Non possiamo stare zitti. Tutta questa indifferenza è preoccupante. Le nostre azioni di oggi determineranno il futuro come esseri umani etici ed empatici, stiamo perdendo tutto...in questo senso... senza Gaza non c'è futuro!

📍Uno studio danese pubblicato su PNAS ha seguito quasi un milione di persone dalla nascita all’età adulta.La ricerca ha ...
17/09/2025

📍Uno studio danese pubblicato su PNAS ha seguito quasi un milione di persone dalla nascita all’età adulta.

La ricerca ha analizzato quasi 943.000 persone nate in Danimarca fra il 1985 e il 2003, per le quali sono disponibili dati nazionali su salute mentale, condizioni socioeconomiche, storia familiare, e l’indirizzo di residenza.

È stato misurato quanto verde – usando immagini satellitari e l’indice NDVI (Normalized Difference Vegetation Index) – circondava la casa di ciascun individuo nei primi 10 anni di vita, entro una zona di circa 210×210 metri.

Chi è cresciuto con i livelli più bassi di verde aveva fino al 55% di rischio in più di sviluppare uno o più disturbi psichiatrici da adolescente/adulto, rispetto a chi ha vissuto in ambienti con alto verde.

L’associazione rimane forte anche dopo aver aggiustato per altri fattori noti: urbanizzazione, status socioeconomico dei genitori, storia familiare di disturbi mentali, età genitoriale.

È emersa una “dose cumulativa”: cioè il verde presente nel corso di tutta l’infanzia (non solo in anni singoli) aveva effetto più protettivo.

🍃 Non si tratta solo di alberi o parchi: gli spazi “verdi e blu” (acqua, laghi, mare) agiscono come ammortizzatori dello stress, favoriscono la regolazione emotiva e riducono il rischio di disagio psichico.

📍Il ruolo dello psicologo

Oggi sappiamo che il benessere psicologico non nasce solo nello studio del terapeuta, ma anche dal contesto in cui viviamo. Per questo è importante che gli psicologi partecipino attivamente ai tavoli di urbanistica e alle politiche pubbliche:

👉 per portare una prospettiva psicologica nella progettazione di città più sane,

👉 per promuovere spazi verdi e blu accessibili a tutti,

👉 per ricordare che il “prendersi cura” passa anche dall’ambiente che circonda le persone.

💚 Non basta curare i sintomi: serve costruire contesti che favoriscano resilienza, connessione e salute mentale.

👉 Il nostro stile di attaccamento guida come ci aggrappiamo, fuggiamo o ci chiudiamo nelle relazioni e influenza anche i...
16/09/2025

👉 Il nostro stile di attaccamento guida come ci aggrappiamo, fuggiamo o ci chiudiamo nelle relazioni e influenza anche il modo in cui soffriamo quando un amore finisce e ci spezza il cuore.

Non è solo questione di carattere: è la storia dei nostri legami a parlare dentro di noi.

Gli psicologi dell’attaccamento ci ricordano che la maniera in cui affrontiamo il dolore amoroso ha radici molto antiche:

👉 chi ha un attaccamento ansioso tende a vivere la separazione come un abbandono insopportabile, con la paura di non essere mai abbastanza;

👉 chi ha un attaccamento evitante cerca di non sentire, si allontana dal dolore e dalle emozioni, come se potesse controllarle razionalmente;

👉 chi ha un attaccamento sicuro riesce a soffrire senza perdersi, a chiedere supporto e a mantenere fiducia nel futuro.

Le neuroscienze ci aiutano a capire che queste reazioni non sono solo psicologiche, ma anche biologiche: quando perdiamo una persona amata, si attivano nel cervello gli stessi circuiti del dolore fisico (Naomi Eisenberger), e l’amigdala registra la minaccia della perdita come un pericolo reale per la nostra sopravvivenza emotiva.
Vittorio Liotti ci ricorda che gli schemi di attaccamento possono trasformarsi in veri e propri “sistemi motivazionali interpersonali” che guidano inconsciamente il nostro modo di amare e soffrire. E Stephen Porges, con la sua teoria polivagale, spiega come il nostro sistema nervoso oscilli tra ricerca di contatto, chiusura e immobilità in base alla sicurezza o al pericolo percepito nelle relazioni.

La sofferenza d’amore è sempre reale, non va mai banalizzata. Ma riconoscere il proprio stile di attaccamento significa dare un senso a quello che proviamo e imparare a non essere più ostaggio delle vecchie ferite.

🌺 Dal dolore di un cuore spezzato può nascere la forza di un amore nuovo, prima di tutto verso sé stessi.

Dott.ssa Valentina Seghini
Psicologa Psicoterapeuta

🫂 Aiuto adolescenti, ragazzi, adulti e coppie che vivono ansia, traumi o relazioni dolorose a ritrovare equilibrio e fiducia.

📍 Disponibile a Palermo e Bagheria
💌 Per info o prenotare subito: scrivimi in privato.

Ci sono ferite che non si vedono. Non hanno un prima e un dopo, non nascono da un singolo evento che tutti chiamerebbero...
15/09/2025

Ci sono ferite che non si vedono. Non hanno un prima e un dopo, non nascono da un singolo evento che tutti chiamerebbero “trauma”. Sono ferite silenziose, che si costruiscono piano piano nelle relazioni di ogni giorno.

Judith Herman scriveva che “il trauma non è solo l’evento terribile che accade, ma anche ciò che non è accaduto: la mancanza di protezione, di ascolto, di riconoscimento”. E infatti molti traumi invisibili nascono proprio lì: quando da piccoli non ci siamo sentiti davvero visti. Quando per essere amati abbiamo imparato a diventare “bravi”, “forti”, o a farci piccoli per non disturbare.

Nel mio lavoro spesso noto come queste ferite invisibili siano collegate al modo in cui i nostri sistemi motivazionali – quelle spinte interiori che ci muovono (attaccamento, protezione, ricerca di senso, relazione) – si attivano o rimangono inascoltate. Se uno di questi sistemi si inceppa, si sente che qualcosa non va: non siamo liberi di desiderare, non siamo capaci di fidarci, non riusciamo a stare nel presente. La finestra di tolleranza si restringe: ci basta poco per sentirci travolti o vuoti.

Come capire se dentro c’è un trauma irrisolto?

1. Hai paura costante di essere abbandonato o rifiutato.

2. Ti senti “troppo” o “mai abbastanza”, qualsiasi cosa tu faccia.

3. Fai fatica a fidarti degli altri, anche quando lo vorresti.

4. Ti irriti o ti chiudi per cose piccole, come un silenzio o un messaggio non risposto.

5. Senti il bisogno di controllare tutto, altrimenti ti assale l’ansia.

6. Eviti i conflitti perché ti spaventano, oppure reagisci con rabbia sproporzionata.

7. Ti capita di sentirti improvvisamente vuoto o scollegato da te stesso.

8. Nei momenti di stress il corpo parla: tensioni, mal di stomaco, insonnia.

9. Ti accorgi di ripetere gli stessi schemi nelle relazioni, anche se ti fanno soffrire.

10. Dentro di te c’è una voce critica che non smette mai di giudicarti.

Guarire non vuol dire cancellare quello che è successo, ma imparare ad allargare quella finestra, riconoscere i nostri sistemi motivazionali feriti, restituire voce alle parti di noi che hanno smesso di parlare. Permettersi di essere interi, non solo sopravvissuti.

Quando il trauma irrompe nella vita, non lascia solo un ricordo doloroso.Agisce come un terremoto interiore che altera i...
12/09/2025

Quando il trauma irrompe nella vita, non lascia solo un ricordo doloroso.
Agisce come un terremoto interiore che altera i sistemi di regolazione delle emozioni. La neuroscienza mostra come l’amigdala, centro della paura, resti in stato di iperattivazione, mentre la corteccia prefrontale, deputata a dare significato e controllo, fatichi a contenere l’impulso emotivo.

La conseguenza è la disregolazione emotiva che non è fragilità, ma una risposta adattiva a un’esperienza che ha travolto i confini della mente e del corpo. Rabbia improvvisa, ansia persistente, tristezza che sembra senza fine non sono “esagerazioni”, ma il linguaggio che il trauma continua a parlare dentro di noi.

Spesso pensiamo al Trauma con la T maiuscola: incidenti, abusi, eventi violenti che minano la sicurezza. Ma esistono anche i traumi relazionali, più sottili e quotidiani: la mancanza di sguardi che accolgono, parole svalutanti ripetute negli anni, assenze affettive che lasciano il vuoto.
Non generano necessariamente un ricordo nitido, ma creano una ferita lenta che insegna al sistema nervoso a vivere in allerta, a diffidare della vicinanza, a sentirsi “troppo” o “non abbastanza”.

Esempio clinico
Laura, 32 anni, racconta di non ricordare un evento traumatico preciso. Eppure vive da sempre con un senso di inadeguatezza e una fatica costante nel gestire le emozioni.
Indagando insieme, emerge una storia di trauma relazionale: un’infanzia segnata da genitori presenti fisicamente, ma emotivamente distanti, incapaci di riconoscere e contenere i suoi stati d’animo. Il risultato non è un ricordo traumatico singolo, ma un corpo e una mente che hanno imparato a vivere senza un senso di base di sicurezza.

Come scrive van der Kolk, “il corpo accusa il colpo”: il trauma non si esaurisce nell’evento, ma si imprime nei circuiti neurali, nella memoria implicita, persino nel battito cardiaco.

Eppure, se la disregolazione è la testimonianza del dolore, la terapia e la relazione sicura possono diventare i luoghi in cui il sistema nervoso impara di nuovo a trovare equilibrio.
Ogni volta che una persona riesce a restare presente a un’emozione senza esserne travolta, si apre uno spazio di guarigione.

Troppo spesso il suicidio viene etichettato come un atto di codardia.Ma questa è una visione riduttiva, che ferisce e ch...
11/09/2025

Troppo spesso il suicidio viene etichettato come un atto di codardia.
Ma questa è una visione riduttiva, che ferisce e che non coglie la realtà profonda di chi arriva a questo gesto estremo.

Il suicidio non è mancanza di coraggio.
È l’espressione estrema di un dolore insostenibile, che non ha trovato spazio, voce, ascolto.
È il risultato di un conflitto interiore che supera le risorse della persona e delle reti intorno a lei.

Come ci insegna Émile Durkheim, il suicidio è anche un fatto sociale: non nasce mai nel vuoto, ma dentro relazioni fragili, legami che si spezzano, comunità che non riescono a contenere il dolore.
Karl Menninger, psichiatra e psicoanalista, parlava del suicidio come di un atto in cui convivono tre forze: il desiderio di uccidere, quello di essere uccisi e quello di morire. Una dinamica interna che riflette conflitti profondi e spesso invisibili.
Shneidman, fondatore della suicidologia moderna, definiva il suicidio come la conseguenza di una “psiche intollerabile”, un dolore mentale che supera le possibilità di sopportazione.

Il dolore che sembra insopportabile per chi decide di porre fine alla propria vita, diventa allora dolore spezzato e moltiplicato: un’eredità che si distribuisce silenziosamente tra chi resta, trasformandosi in domande senza risposta, sensi di colpa, ferite invisibili.

Parlare di suicidio significa riconoscere questa dinamica, per aprire spazi in cui il dolore possa essere accolto e condiviso prima che diventi silenzio.
Significa ricordare che non esiste vergogna nel chiedere aiuto, e che la presenza di una relazione autentica può fare la differenza.
Il nostro compito, come comunità, è aprire spazi in cui quel dolore possa essere visto, nominato e condiviso.

🫂🎗





Nel mio lavoro mi è capitato spesso che quando in seduta emerge il tema della simbiosi, il paziente non lo riconosca sub...
21/08/2025

Nel mio lavoro mi è capitato spesso che quando in seduta emerge il tema della simbiosi, il paziente non lo riconosca subito ed esclami "no dottoressa io mi sento diverso/a da mia madre, mia sorella, il mio partner...non siamo una cosa sola". In effetti, la parola “simbiosi” richiama alla mente immagini di unione, complementarietà, intimità positiva. Ma in Analisi Transazionale questo termine indica anche qualcosa di diverso: un legame in cui parti del Sé restano affidate all’altro, generando dipendenza, fatica e, a volte, conflitto.
Racconto come esempio il caso di A. 36 anni: ogni volta che tornava a casa della madre si sentiva ancora un bambino. Bastava un commento, un consiglio non richiesto o uno sguardo critico perché esplodesse una lite. A. oscillava tra il bisogno di sentirsi accudito e la rabbia furiosa di chi si sente invaso. “Non riesco a staccarmi – raccontava – ma allo stesso tempo con lei litigo sempre, qualunque cosa dica mi fa saltare i nervi.”
Questa è una simbiosi conflittuale: un legame in cui due persone restano agganciate non da una relazione adulta, ma da bisogni infantili mai sciolti. Jacqui Schiff, che ha studiato a fondo questi processi, descriveva la simbiosi come la condizione in cui parti di sé rimangono depositate nell’altro, creando rapporti intensi ma imprigionati. Nel caso di A. il bisogno di protezione e riconoscimento si intrecciava con la ribellione verso quella stessa dipendenza. E così emergevano emozioni potenti come rabbia, vergogna e senso di colpa: rabbia per la percezione di non essere libero, vergogna per il bisogno sentito come eccessivo, ribellione come tentativo di affermare un sé adulto che ancora non trovava spazio.
Così A. non discuteva solo con la madre di oggi: stava lottando con le figure interiori del passato, con quelle parti di sé rimaste bloccate nell’infanzia.
La psicoterapia diventa allora un luogo sicuro in cui riconoscere la simbiosi e iniziare a scioglierla. Non significa cancellare il legame ma imparare a viverlo da adulto e con autenticità, distinguendo ciò che appartiene alla storia infantile da ciò che accade nel presente. Uscire dalla simbiosi non vuol dire interrompere la relazione ma scegliere.

14/08/2025

Buongiorno 🌸
Oggi voglio lasciare un pensiero rassicurante e gentile per te...

Lo so, può sembrare strano, ma non per tutti le ferie o le vacanze equivalgono a spensieratezza: a volte proprio quando ci si ferma lontano dalla routine e anche dalla terapia, certe emozioni diventano più forti. Proprio quando tutto rallenta, dentro si muove ancora tanto e ci si può sentire un po’ persi.

Se ti succede, sappi che è normale. Davvero. Uscire dai ritmi abituali può essere faticoso, anche se intorno tutti ci sembrano “rilassati e felici”.

So che per alcuni di voi, più che per altri, questa attesa del rientro può sembrare enorme.
È normale sentirsi un po' spaesati e la pausa dalla terapia può rendere tutto più silenzioso o più confuso. Ma non c'è nulla di sbagliato in questo.

In questi momenti, prova a concederti
uno spazio tuo. Anche piccolo: una passeggiata, dieci minuti in silenzio, respirare con calma, scrivere qualcosa di quello che senti. Non serve fare grandi cose, ma solo restare in contatto con te stessə, con gentilezza.

Ricorda che anche se le nostre sedute sono in pausa, la nostra relazione ed il lavoro che stiamo facendo insieme continua a vivere dentro di te. Non è tutto sospeso. È solo in un momento di quiete, e può essere prezioso anche così.

Se ti và o ne sentissi il bisogno, focalizzati su un insight o un pensiero emerso in seduta che ti ha fatto bene, oppure prova anche solo ad immaginare cosa ci diremmo. La tua voce interiore sa più di quanto pensi e puoi imparare ad ascoltarla.

Ci rivediamo presto.
Nel frattempo, anche se siamo a distanza, io ti penso.
Tu non sei solə in questo cammino.
Con grande affetto

La tua terapeuta
💚

23/07/2024
Non sempre, quando il malessere ci assale, riusciamo a trovare la forza e il coraggio di parlarne. Capita più spesso di ...
28/05/2024

Non sempre, quando il malessere ci assale, riusciamo a trovare la forza e il coraggio di parlarne. Capita più spesso di evitare l’argomento, nella speranza di seppellire ciò che proviamo, come se non fosse mai esistito. Lo percepiamo come un disagio che colpisce soltanto noi, mentre osserviamo gli altri affrontare con serenità le loro vite, apparentemente prive di ostacoli. Eppure, non è così: l’ansia fa parte della quotidianità di molte persone, più di quante riescano a riconoscerlo, perfino a sé stesse. A volte è una lieve f***a allo stomaco, altre una vertigine o una morsa bloccante che ci schiaccia verso il basso, come se la forza di gravità fosse tutt’a un tratto aumentata soltanto per noi. L’ansia però ha anche un altro volto, meno conosciuto: se ben incanalata sa trasformarsi in una forza propulsiva, un’“ansia di vivere”, di ridere e scoprire, di legarsi ad affetti sinceri e concentrarsi su ciò che arricchisce il nostro stare al mondo.
Il libro, nato da un diario che l’autrice ha cominciato a scrivere nel drammatico periodo del Covid – per «confinare sul foglio di carta le preoccupazioni», racconta Di Gati – segue le vicende di Serena, una donna brillante ed eclettica, da sempre accompagnata da un “certononsoché” al quale non riesce a dare un nome.

Indirizzo

Via Imperatore Federico II, 44
Bagheria
90011

Orario di apertura

Lunedì 15:00 - 20:00
Martedì 15:00 - 20:00
Mercoledì 15:00 - 20:00
Giovedì 15:00 - 20:00
Venerdì 15:00 - 20:00
Sabato 15:00 - 20:00

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