16/11/2025
Gli addii di Derrida
la Repubblica – 15 novembre 2025
La nostra vita è fatta dai nostri innumerevoli morti. Essi non sono più con noi, ci hanno lasciati per sempre, non ritorneranno più, eppure sono ancora in noi. Ma in che modo? Quale presenza è la presenza di chi non può più essere presente, di chi non è più qui e non può più risponderci? È questa una domanda che ritorna insistentemente in "Ogni volta unica, la fine del mondo" (Jaca Book, 2025), questo formidabile e struggente libro di Jacques Derrida costituito da discorsi a metà tra il congedo amicale, l’orazione funebre e il saggio critico che il filosofo rivolge a chi, tra i suoi amici e le sue amiche più cari, è scomparso. Con quale presenza possiamo rapportarci se la presenza di chi è morto si è convertita in una assenza irrimediabile, se io non posso più parlare con loro ma solo di loro ad altri, se la loro esistenza si è separata irreversibilmente dall’esistenza, se entrando nel regno dei morti questa presenza non fa più parte di questo mondo? La morte dell’altro, scrive Derrida, non coincide solo con la sparizione “di questa o quella vita” ma “con la fine del mondo nella sua totalità, con la fine di tutto il mondo possibile”. Allo stesso modo, potremmo dire, il dolore che accompagna il trauma della perdita non è un dolore che possiamo circoscrivere in un organo, che possiamo localizzare o identificare, ma è un dolore che investe tutta la nostra vita, un dolore che rende la nostra stessa esistenza dolorosa in quanto tale. Ma, daccapo, cosa resta in me di chi se n’è andato per sempre, cosa resta in me di te? In che modo chi non è più qui può essere ancora qui? In quali forme possiamo preservare un rapporto con chi è divenuto irreversibilmente assente? Il paradosso che i nostri cari morti sollevano è che essi, come ricorda Derrida, restano in noi pur non potendo mai essere nostri. Non ne possiamo disporre, non possiamo raggiungerli, non possiamo richiamarli in vita. La loro assenza, come scriveva Lewis in Diario di un dolore, è divenuta “come un cielo che si estende su ogni cosa”, una “forma acuta della presenza”, secondo una intensa poesia di Attilio Bertolucci. Ma questa assenza che è un cielo sopra la mia testa e che è acuta come una spina nella carne, è destinata a diventare l’esperienza estrema di una presenza tanto prossima quanto lontana. Tuttavia, se i nostri morti non possono più sentire la nostra voce, noi possiamo sentire ancora la loro nella forma residuale di un resto che il tempo non può cancellare mai del tutto. “Sorridetemi… come io avrei sorriso fino alla fine”, scrive Derrida ai suoi cari nel biglietto del suo stesso congedo. Il lavoro del lutto non punta a cancellare la perdita ma a convertirla in gratitudine. Non punta a liberarsi dal peso del morto, ma ad istituire la sua memoria in un modo nuovo, come la sopravvivenza in noi di chi non è più tra noi. La potenza di questo lavoro non consiste, dunque, nel recupero integrale della libido che rende possibili nuovi futuri suoi investimenti, come invece Freud riteneva dovesse qualificarsi un lutto cosiddetto compiuto. Perché c’è in ogni lutto qualcosa di “interminabile, inconsolabile, irriconciliabile”. Perché è necessario, come Derrida sostiene di fatto in questo libro, fare il lutto dell’ideale freudiano del cosiddetto lutto compiuto. Perché non c’è, appunto, lutto compiuto, non c’è lutto senza resto impossibile da elaborare nel lutto, perché ogni lavoro del lutto comporta una ferita melanconica che non può essere suturata. L’altro che riconosciamo come insostituibile non può essere dimenticato proprio perché non può essere integralmente assimilato, perché la sua presenza in noi, come ripete Derrida, non lo rende mai nostro, perché la sua vicinanza resta una prossimità lontana, perché la presenza della sua assenza non può dissolversi. Si dovrebbe invece – questo invita a fare Derrida – rinunciare all’apparente forza del lutto, all’ideale freudiano del suo compimento ideale. Si dovrebbe riconoscere lo scacco melanconico che ogni lutto degno di questo nome porta sempre parzialmente con sé. Per questo mancano le forze a Derrida mentre tiene le sue onoranze funebri, per questo mancano sempre le forze a chi resta e deve parlare di chi non è più qui, per questo la sua stessa voce trema e anche parlare gli risulta impossibile, per questo, forse, si dovrebbe sempre e solo tacere. Perché la vera forza del lutto coincide con la sua massima debolezza, ovvero con il lutto della forza stessa del lutto, col riconoscimento che insieme all’amico o all’amica, al fratello o alla sorella, all’amato o all’amata, al figlio o alla figlia, al padre o alla madre, è morto anche un mondo intero che non ritornerà più. Ma come fare affinché un addio non sia per sempre? In che modo è possibile mantenere un rapporto con chi morendo è uscito da ogni possibile rapporto? In che modo possiamo mantenere un rapporto con chi “non è più vivo, non è più qui, non ci risponderà più”? Quella che Derrida definisce come “la gioiosa innocenza dell’ammirazione” non è forse la risposta in noi di chi non è più con noi? Non è questo vincolo di libertà che ci spinge a riconoscere nell’incontro che abbiamo fatto con chi ci ha lasciato l’ordine di una grazia? La riconoscenza e la gratitudine sono due forme di eredità che, respingendo la nostalgia del rimpianto, rinviano l’accadere della morte. La riconoscenza e la gratitudine non implicano però alcuna identificazione. Non si tratta di essere o di diventare chi non è più qui, ma di assumere la sua assenza come il resto di un debito fecondo. È solo la fedeltà all’evento di ciò che il nostro incontro è stato a mantenere l’evento di quell’incontro ancora vivo, a farlo esistere ancora, a non farlo terminare mai, a fare in modo che continui a ripetersi, che non smetta di iniziare ancora. L’addio a chi non è più con noi rivela l’insostituibilità di chi non c’è più, ma, insieme ad essa, rivela la grazia di un incontro che, al di là della morte, può non smettere di ripetersi. In questo senso i nostri innumerevoli morti non sono solo delle ombre che oscurano i nostri giorni, ma presenze fatte di assenza che accompagnano la nostra vita nonostante se ne siano irreversibilmente separate. Per questo Derrida può scrivere infine che “Dio” vuol dire: la morte può mettere fine a un mondo, ma non può significare la fine del mondo”.