
02/08/2025
Immagina una fotografia che cattura non la vita, ma la delicata immobilità della morte — un ultimo ritratto pensato per preservare la presenza di una persona amata, quando tutto il resto è svanito. Nell’epoca vittoriana, questa era una pratica comune chiamata fotografia post-mortem, un rituale toccante nato dal dolore e dal bisogno di ricordare.
Nel XIX secolo, la vita era fragile e breve. Le malattie colpivano all’improvviso e la medicina poteva fare poco. Le fotocamere erano rare, i ritratti un lusso. Molte famiglie non avevano mai avuto la possibilità di avere una foto dei propri cari in vita. Così, quando arrivava la morte, la macchina fotografica diventava uno strumento non per segnare una fine, ma per trattenere qualcosa.
I defunti venivano vestiti con i loro abiti migliori e sistemati con cura — a volte distesi nel letto, tra le braccia di un genitore, o anche seduti su una sedia. Alcuni sembravano quasi addormentati, altri venivano ritoccati a mano con occhi dipinti o guance colorate per rendere meno evidente la loro immobilità. Queste immagini non volevano scioccare, ma dire: “Erano qui. Contavano.” Dietro ogni fotografia c’era amore, dolore e il desiderio silenzioso di ricordare.
Le famiglie posavano con emozioni diverse — alcune con dolore visibile, altre con calma apparente. Anche se oggi può sembrare strano, era un modo per affrontare la perdita in un periodo in cui le foto erano ricordi preziosi. Con il tempo e il cambiamento delle abitudini, questa tradizione è quasi scomparsa all’inizio del XX secolo.
Ma ci sono ancora tracce di questa pratica oggi, soprattutto nei casi di perdita infantile, quando viene offerta alle famiglie una possibilità silenziosa di ricordare. Questo ci ricorda che, anche se le usanze cambiano, il bisogno di trattenere l’amore resta. Invece di giudicare, possiamo guardare al lutto del passato con empatia e rispetto.