14/08/2025
Tra le meraviglie custodite in questa splendida opera, quella che più mi ha toccato è l’uso della parola “abbandono”.
Nelle mie terapie, questo termine ritorna spesso: affiora quando i pazienti ricordano la propria infanzia segnata dall’abbandono emotivo, oppure quando raccontano storie d’amore in cui si sono sentiti lasciati soli.
L’autrice di questo capolavoro, invece, utilizza il termine con un’accezione finalmente positiva, intesa come abbandonarsi alla vita.
L’abbandono non più come ferita, ma come apertura.
“Abbandònati” — dice la voce della Candiani — come a lasciarsi portare dal mistero, senza fuggire, nemmeno davanti a ciò che più spaventa: la malattia, la vecchiaia, la morte.
Abbandonarsi non significa negare la tragicità, la fatica o la sofferenza che questi eventi portano con sé, ma il suggerimento è accoglierli comunque come visitatori, portatori di messaggi fondamentali.
Ho trovato davvero toccante l’invito continuo della scrittrice ad avere una “fiducia sconfinata nell’ignoto, nel saper abitare il mistero”.
E concludo lasciando che siano le sue parole a risuonare:
“Naturalmente, è doloroso riuscire ad abbandonarsi, perdere le consolazioni a portata di mano per una dimensione aperta e senza garanzie, ma è l’accesso alla fine della sofferenza: la sofferenza di soffrire per attaccamento, avversione, ignoranza. Attaccamento al risaputo, avversione per l’insicurezza del non conosciuto, ignoranza che l’identificazione con se stessi, con le opinioni e il costante ‘mi piace/non mi piace’ è la causa dell’angoscia e della disperazione.”