Pronto Soccorso Psicologico - Bologna

Pronto Soccorso Psicologico - Bologna Info in locandina Dalla terza seduta, le tariffe di tale percorso saranno calmierate. Tel: 0510216764
Mail: ps.psicologico.bo@gmail.com
Aletheia, via A.

Psicologi e Psicoterapeuti di orientamento psicoanalitico offrono fino a due sedute di ascolto psicologico gratuito, volte a dar sollievo alla persona nell'immediato e ad orientarla nella scelta del percorso psicologico a lei più adatto. Psicologi e Psicoterapeuti di orientamento psicodinamico e psicoanalitico offrono fino a due sedute di ascolto psicologico gratuito in presenza, volte a dar solli

evo alla persona nell'immediato e ad orientarla nella scelta dell'eventuale trattamento psicologico a lei più congeniale. La proposta offre strumenti a chi abbia voglia di conoscersi nel profondo, ritrovare un equilibrio personale, e a chi desideri cambiare qualcosa di importante: dentro o fuori di sé. Alessandrini 11, Bologna
Studio Righi, via A. Righi, 3, Bologna

Risposte tempestive entro 24 ore lavorative dalla richiesta e appuntamenti fissati nel primo orario disponibile (solo giorni feriali)
Per urgenze psichiatriche rivolgersi al 118 o al Centro di Salute Mentale territoriale

13/07/2025

Versione PDF stampabile: Questo film è senz'altro uno degli esempi più fulgidi di come l'arte serva per scuotere la coscienza come un terremoto che sancisce un prima e un dopo. E lo fa mostrando l'orrore che si cela davvero dietro la "banalità del male" (Arendt, 1963), situando l'abominio dell'in...

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19/03/2025

Psicologi e Psicoterapeuti di orientamento psicodinamico e psicoanalitico offrono fino a due sedute di ascolto psicologico gratuito in presenza, volte a dar sollievo alla persona nell'immediato e ad orientarla nella scelta dell'eventuale trattamento psicologico a lei più congeniale.
Dalla terza seduta, le tariffe di tale percorso saranno calmierate.

La proposta offre strumenti a chi abbia voglia di conoscersi nel profondo, ritrovare un equilibrio personale, e a chi desideri cambiare qualcosa di importante: dentro o fuori di sé.

Tel: 0510216764
Mail: ps.psicologico.bo@gmail.com

Aletheia, via A. Alessandrini 11, Bologna
Studio Righi, via A. Righi, 3, Bologna

Risposte tempestive entro 24 ore lavorative dalla richiesta e appuntamenti fissati nel primo orario disponibile (solo giorni feriali)

Per urgenze psichiatriche rivolgersi al 118 o al Centro di Salute Mentale territoriale

01/02/2025

Versione PDF stampabile: Se Dio è morto, è stato perché era troppo in buona salute. (Hillman, 1991, p. 98)La psicologia usa il linguaggio in funzione apotropaica, cioè per nascondere l'angoscia di fondo data dal fatto che in realtà non sappiamo niente della psiche. Abbiamo sviluppato sistemi ch...

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23/12/2024

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L’AUTUNNO NELLA MENTE Di fronte alla stagione autunnale ognuno di noi trova una sua postura psichica, vuoi d’autodifesa ...
30/10/2024

L’AUTUNNO NELLA MENTE
Di fronte alla stagione autunnale ognuno di noi trova una sua postura psichica, vuoi d’autodifesa rispetto alla sua forza evocativa, vuoi di valorizzazione di un tempo poetico vocato alla nostalgia.
Di Alessia Vignali

L’autunno ritorna ogni volta come una sorpresa, come una condanna.
Chiunque abbia superato i cinquant’anni sa che nessun autunno è uguale al precedente. Non nella natura, poiché ogni specie risponde ai fenomeni atmosferici del semestre appena trascorso con un letargo dalle modalità nuove. E non dentro di noi: scoperte, lutti, vicissitudini storiche del mondo hanno modificato il ritmo delle nostre vite, la qualità dei nostri sguardi.

Tuttavia, anche quest’anno il rosso delle bacche di rosa canina e il giallo delle ginkobilobe svetteranno sul fondo bianco dell’aria, presenze in acuto prima del silenzio.
Le foglie d’acero brillano, con la loro sorprendente eleganza, sull’asfalto.
L’aria della città emana un profumo silvestre, ricci aperti dei castagni misti a bacche, a foglie cadute.

Le cose sembrano più nitide, “più se stesse” quando si stagliano in un’ultima presenza. Anche noi, se raccogliamo le evocazioni stagionali, sembriamo “più noi stessi”. Accediamo ad aspetti del carattere poco indagati, che danno un senso di maggior “verità” alla nostra idea di noi, una teoria su “chi siamo” che a volte è da aggiornare.

In precedenza ho postulato l’esistenza di una “mente stagionale” capace di partorire sentimenti e idee distintivi a seconda della stagione, un po’ come prescrive il taoismo. Le evocazioni delle atmosfere che troviamo fuori spingono chi è attento a un profondo sentire a confrontarsi con gli “universali” della vita.

L’elegia d’autunno non può essere spiegata, può farcela vivere un libro sull’”autunno dell’esistenza” in cui a parlare è un cronista di razza, Enzo Biagi. Si tratta di “Lunga è la notte”, scritto nel lontano 1995. Biagi, che aveva all’epoca settantacinque anni, morirà dodici anni dopo.

“Come è triste una rosa bianca d’autunno”, racconta. “Rabbrividisce nel vento. Cadono pesanti le foglie dell’ippocastano: sento che l’inverno si avvicina.
Pasolini si accorse che erano sparite le lucciole; sono anni che non vedo partire o arrivare le rondini. È stato subito domani e tutto è passato molto in fretta.
Una volta mi sembrava che il mondo cominciasse con me: lo scoprivo ogni giorno. Ogni ora aveva un profumo: di terra bagnata, di legna bruciata, quando era tempo di vendemmia, di mosto; arrivavano in città i carri trainati dai grandi buoi e ricomparivano le vecchine delle caldarroste.
Mi addormentavo con la musica della pioggia che scrosciava sul selciato. Prima recitavo l’atto di dolore, “perché se muori”, ammoniva mia madre “vai in purgatorio”.
Anche adesso dico una preghiera: per chi ho amato, per chi mi ha amato. C’è qualcuno che ha pianto per me? W***y Brandt alla fine si è giustificato: “Ho fatto ciò che ho potuto”. Anch’io.
So che il viaggio sta per concludersi, ma ho vissuto ore felici. Forse coincidono con i momenti senza storia, quelli dell’attesa.”

Ovviamente, il testo ha una coloritura struggente per via del fatto che l’Autore è “rosa bianca” piantata nella sua vecchiaia. Lo scritto di Biagi testimonia un lavoro psichico di presa in carico del momento di vita e delle sue reali implicazioni, che sospinge l’Autore a un riesame dell’intera esistenza. Si tratta di una valutazione non scevra da dubbi angosciosi, accompagnata dal sentimento della paura. Biagi attraversa col pensiero l’autunno, si prefigura l’inverno e ci coinvolge in un percorso che condensa in una pagina, com’è nel suo stile. In esso reincontra le immagini, la terra, le persone: il succo di una vita. Non ci si può congedare dall’estate senza averla capita.

L’inverno fa paura. Le strade psichiche che imbocchiamo nella sua imminenza sono molteplici. C’è chi ne nega l’arrivo con fare robotico, tuffandosi nell’alienazione quotidiana per non dover pensare. Alcuni lo irridono maniacalmente, come quando ad Halloween rappresentano la morte in una ”danse macabre” esilarante ed erotica, complice il rito collettivo: il vitalismo dell’irrisione e del sesso scotomizzano l’angoscia sottostante.
Altri si deprimono silenziosamente, senza un perché: forse, è per via del “pianto del mondo”, che viene simboleggiato in piogge senza fine.

Nel saggio “Caducità”, Freud racconta che l’amico poeta Rilke gli confidò la sua sofferenza per la fugacità di un fiore. “In assenza della morte l’esistenza parrebbe insipida quanto un flirt americano”, gli rispose il padre della psicoanalisi. E aggiunse che è proprio la caducità della vita a conferire ad essa il maggior valore. Sebbene si tratti di una constatazione inoppugnabile, notiamo che anch’essa è frutto di un meccanismo di difesa rispetto alla durezza del dato emotivo. Meccanismo che la stessa psicoanalisi denomina “razionalizzazione”, accompagnato da una punta d’intellettualizzazione (altra difesa).

C’è anche chi, come il citato Biagi, tesaurizza ogni istante che lo separa dall’inverno, ripensando con nostalgia ai tempi della gioia, in una difficile elaborazione accompagnata da una quota di sublimazione della tristezza. Dobbiamo, a questo punto dell’articolo, congedarci dal linguaggio simbolico adottato sinora e addentrarci più decisamente in quello della psicoanalisi, seppure essa rimanga, per fortuna, scienza “poetica”. Il mio scritto somiglierà dunque, da qui in avanti, a una cronaca del presente, basata sul costume e accompagnata da una lettura scientifica emozionata.

Diremo allora che la sublimazione che vediamo all’opera nel vecchio giornalista è anch’essa un meccanismo di difesa dalla sofferenza, tuttavia è il meno dannoso, il più “alto di livello” e, se vogliamo, il più “prezioso” per l’uomo. Esso gli consente di esprimere e rappresentare le pulsioni trasformandole. L’arte (anche quella di scrivere) è una magia che solo apparentemente fa scaturire cose “dal nulla”, donando il bello e il buono alla collettività. I prodotti artistici nascono dalla “trasformazione” di sentimenti o pulsioni non proprio piacevoli, simili all’oro che, nella trasformazione alchemica, si credeva potesse provenire dal piombo.

Come ogni gioco della nostra mente, nessuna delle strade elencate per confrontarsi con l’autunno, “oggetto stagione” o metafora esistenziale che sia, risulta priva di conseguenze sulla realtà che riusciamo a vedere, descrivere, esperire. Più “massiccia” e primitiva è la difesa, minore la possibilità di far esperienza mentale di qualcosa che si avvicini alla realtà.

Leggendo quanto appare sui social, mi sembra che la prima risposta dello “Zeitgeist attuale” alla specificità dell’autunno sia la “negazione” o, ancora una volta in gergo psicoanalitico, la “fuga nella maniacalità”.

Per intenderci, fugge nella maniacalità l’uomo di mezz’ età che comincia ad avere amanti più giovani per non s’accorgersi d’invecchiare. In questo caso, è una “potenza erotica” continuamente ribadita a puntellare un’identità in pericolo.

Si reggono su una fuga maniacale i miti e riti collettivi che oggi vengono trasmessi dai social. Impazzano storie in cui si spiegano i “10 motivi per cui adoriamo l’autunno” o si danno i “10 consigli per goderselo al meglio”. Se ci spingiamo a elencare dieci motivi per cui amiamo qualcosa, sarà perché non ne siamo davvero convinti. Il meccanismo di difesa è, in questo caso, “controfobico”.

Analogo meccanismo sottende la serie dei manuali Hygge, la filosofia del quotidiano danese basata, più o meno, sul ricorso a grandi tazze di tè caldo, maglioni di lana e divani comodi per consolarsi nei rigori dell’inverno. I parecchi Pin d’ispirazione Zen appartengono alla stessa filiera, incitando un po’ tutti a “godere del presente”.
Le ultime due soluzioni sono volte a ottenere una “presentificazione” che spezzi la continuità del pensiero. In realtà, nell’essere umano il pensiero sarebbe più utilmente occupato dal connettere il presente al passato e al futuro, alla ricerca di un qualche principio di causalità. Se è vero che “staccare” dal passato aiuta chi abbia avuto in esso traumi troppo grandi, è anche vero che abusare di questo metodo tiene accuratamente distanti dal pensare, che rimane l’unico sistema per risolvere davvero le cose.

Non salverei molto dell’odierno trend verso l’idealizzazione del rifugio nelle “piccole cose”. In psicologia si è scoperto che l’idealizzazione serve talvolta a coprire un sottostante disprezzo. Dunque, non è da considerarsi del tutto sincera.

Più interessante è quanto accade quando, avendo preso profondo contatto con se stessi e con i propri sentimenti di perdita, si accede a una comprensione profonda di quanto immenso sia il valore delle cose perdute. Se abbiamo amato tanto (un uomo, un’estate, una canzone…) da soffrire quando finisce, significa che le nostre scelte contano qualcosa. Si tratta di un’operazione psichica grazie alla quale scopriamo il vero senso delle nostre vite e dei nostri affetti, come ci mostra d’aver saputo fare Biagi. Ci accade allora di voler fare il possibile per restaurare e riparare i momenti perduti nella mente, nel ricordo o nelle opere concrete, quando ancora possibile. Questa è la più nobile delle capacità mentali, denominata dagli psicoanalisti “riparazione”. E si ottiene solo accettandoli, i contenuti che ci fanno soffrire. E facendosene qualcosa. In questo modo si potrà persino cambiare il mondo, questa volta sì, nel presente.

L’eccessiva paura di soffrire non porta mai buoni frutti. Nemmeno quando in ballo c’è una cosa minima come l’arrivo di una nuova stagione. Nella migliore delle ipotesi, la paura di soffrire reca un sollievo momentaneo, nella peggiore adultera la realtà rendendola irriconoscibile, ci impedisce di provare sentimenti “umani”. Nella fattispecie dell’”autunno dell’anima”, solo chi può permettersi d‘ospitare in sé il sentimento della nostalgia, gravido di struggimento, può cogliere l’occasione di valorizzazione del Sé offerta da un tempo che non è solo delle caldarroste, ma anche del pensiero e dei ricordi.

LA SERPE IN SENOL’odierna maggior diffusione dell’omicidio in famiglia è davvero un caso? di Alessia Vignali Vista da un...
17/10/2024

LA SERPE IN SENO
L’odierna maggior diffusione dell’omicidio in famiglia è davvero un caso?
di Alessia Vignali

Vista da un’angolatura psicoanalitica, la follia è sempre un problema d’amore. Purtroppo l’Italia non è, oggigiorno, un paese per l’amore: né per quello romantico, né per quello filiale. Soprattutto, non è un paese capace di sostenere né culturalmente, né attraverso le istituzioni il meraviglioso, nutriente e indispensabile amore della “coppiamadre” per la sua creatura. Bene prezioso che eviterebbe alla creatura stessa di divenire, da adulta, un individuo con disturbi mentali talmente gravi da indurlo ad uccidere i suoi stessi famigliari.

Il termine “coppiamadre” è un’espressione del teorico di psicoanalisi infantile Guido Crocetti, che prevede che il compito di allevare un figlio nei primi anni di vita sia non solo della madre, ma di una coppia in cui due adulti generano un bambino avendo in mente un progetto goduto e pensato. Progetto che prevede spazi nobili di dedizione, tempi lunghi di cura, ascolto, assistenza, disponibilità. E studio emozionato degli interventi d’appoggio da compiere nei tanti dilemmi di un figlio che cresce.

La “coppiamadre” così descritta, però, non sembra vedersi granché: fino a che gli “adultescenti” di oggi dovranno occuparsi delle proprie “magagne irrisolte”, finché saranno impegnati attorno al proprio “ombelico sofferente”… non vi sarà vero spazio mentale per il nuovo nato. Quest’ultimo verrà anzi chiamato a risolvere i problemi dei genitori: di visibilità, di realizzazione nel mondo, di conferme mai avute, di affetto da chiedere al figlio perché si è incapaci di ottenerne da un adulto. I “like” ottenuti dal figlio sono più soddisfacenti di quelli raccolti online!

Lo psicoterapeuta Giulio Cesare Giacobbe ricorda con tenerezza, nel libro “Come fare un matrimonio felice che dura per tutta la vita”, che una delle motivazioni alla base del desiderio di fondare una famiglia è che il mondo ti calpesta, ti umilia, ti sottomette, ma al tuo rientro a casa, la sera, troverai gli occhioni lucidi dei tuoi piccoli, che ti considerano un gigante. Un po’ perché essendo piccoli non capiscono molto, un po’ perché non hanno altra scelta.
Avviene insomma come per il cane, che a detta di qualcuno “è il migliore amico dell’uomo… perché non gli può rispondere!”.

Il titolo significativo di un bel saggio dello psicoanalista infantile Lancini “Sii te stesso a modo mio” chiarisce gli impasse educativi dei genitori contemporanei: aperti, si son fatti la teoria che il figlio debba essere appagato in ogni desiderio, forse anche perché appagano se stessi identificandosi in lui. E’ la famosa “vendetta dell’ex deprivato”, dell’ex affamato (in questo caso, d’amore): ricordate le tante obesità del dopoguerra?

L’altra motivazione è altrettanto triste, altrettanto dolorosa: pensano che solo in questo modo possono legare il figlio a sé, immaginandosi privi d’altri poteri. Ciò che li corrode è un’implicita teoria, nascosta in fondo all(’in)coscienza: l’idea d’aver davvero poco d’interessante da offrire dentro di sé.

L’iper- appagamento cui ricorrono è destinato però a lasciar tutti insoddisfatti (non a caso l’iper-appagamento è divenuta legge su cui si basa il consumismo). Non essendo legato ai reali bisogni di figli identificati nella loro unicità, ma a bisogni “allucinati” dei genitori che trattano i figli come proiezioni di sé, esso è alla fine un tradimento, che lascia questi ultimi vuoti, misconosciuti nella loro reale essenza. I figli, se solo potessero esprimere un pensiero impensabile, non vorrebbero esser trattati come delle appendici.

“Per molto tempo (n.d.r: nel secondo Novecento), ai ragazzi abbiamo chiesto di aderire alle aspettative ideali di genitori e insegnanti. Li abbiamo cresciuti come piccoli adulti, li abbiamo spinti a socializzare, li abbiamo protetti dall’infelicità e dal dolore. Oggi però lo scenario sta cambiando. Siamo approdati a una società che non si limita più a chiedere ai ragazzi di essere all’altezza delle nostre aspettative, ma li costringe a seguire un mandato paradossale: “Sii te stesso, ma a modo mio”.
Questa trasformazione, che segna il passaggio al paradigma post narcisistico, è in atto da tempo, ma è stata la pandemia ad aver smascherato il rischio di un’inversione dei ruoli: mentre i ragazzi si adattano alle esigenze degli adulti per farli sentire tali, questi ultimi sono alle prese con una crescente fragilità”.

Secondo l’Autore, per uscire da questo cortocircuito in cui la generazione vecchia fagocita quella giovane, impedendole di partire per la sua avventura (il compito primario è… adattarsi al genitore per farlo sentire adulto, come abbiamo visto) occorre “curare gli adulti”. Operazione impensabile, senza pensare di cambiare alcuni paradigmi a guida sia del pensiero, che della cultura, che della struttura della nostra società.

Non sorprende che l’amore di sé, quel narcisismo sano che ci consente di star bene nella nostra pelle concedendoci il lusso di amare gli altri, sia per tanti ragazzi irraggiungibile: non sanno cos’è, non avendolo mai ottenuto dai genitori. Hanno avuto con essi un rapporto d’uso (come abbiamo visto), non d’amore. Nella loro mente non possono attingere all’amore di sé, che finiscono per sperimentare a intermittenza, tra un eccesso di pulsionalità e l’altro, tra un empito rabbioso che li conduce ad accumular grandi o piccole follie (come gli stupri in diretta o le più blande ma non meno distruttive “canne”) e un ritiro depressivo a mò di “hikikkomori”.

Il problema è il solito: la “coppiamadre” non ha potuto riempire d’amore le loro “tasche vuote”.
E l’amore non ricevuto, ottenuto “a rate” oppure morbosamente, si trasforma in un buco di pensiero.

“Chi uccide i fratelli, i genitori, i figli, il marito, la moglie è un animale”, dice qualcuno. C’è un fondo di verità in quest’espressione, qualora la prendiamo come metafora per quanto “forte” essa sia: l’omicidio in famiglia si deve al fatto che chi lo commette non ha potuto accedere a una mente “umana” adulta. Si tratta infatti di un “bambino” che non ha avuto modo di sviluppare il pensiero e il sentire. È rimasto allo stato dell’”orda primitiva”, quello ”animale” in cui si ama e si odia a seconda del momento e dell’utilità: “mi fai un torto, ti uccido; mi dai una carezza, ti amo”… ma non ho modo di prevedere o ricordarmi che se ti uccido, poi sei la stessa madre che amavo e non ti riavrò”.

Sono molte le persone vittima della diffusa “presentificazione” del mondo d’oggi, meccanismo di difesa contro l’ansia per il futuro e il terrore che il passato sia per sempre perduto. Meglio scordarlo, il passato, complice una scuola e una cultura che cancellano i riferimenti spazio-temporali abolendo l’insegnamento della geografia, della storia dell’arte e persino avendo in animo di togliere il criterio cronologico dalla presentazione della filosofia. Ma da difesa contro l’angoscia qual è in partenza, il meccanismo della presentificazione può farsi foriero di una regressione ancora più pericolosa.

All’anzidestritta primitività mentale, il giovane che oggi uccida in famiglia unisce una confusione tra mondo interno e mondo esterno dovuta a un pensiero anch’esso di qualità psicotica, corroborato dal massiccio affidamento alla realtà virtuale: nei videogame si uccide e la vittima torna in vita nel frame successivo; oggi l’esistenza virtuale è presentata all’infans troppo presto, viene percepita come talmente in continuità con quella reale che… le leggi dei due mondi si sovrappongono, la realtà si sfalda e lascia il posto a un terrore primitivo, per via del quale si è costantemente sull’orlo dell’abisso: l’abbandono affettivo viene avvertita come equivalente alla morte, la frustrazione come preludio a un ignoto che inghiotte. “Chi sono io, infatti, se non mi posso percepire unito alla sostanza stupefacente, all’oggetto, al bene di consumo, all’uomo o alla donna da cui dipende il mio godimento?” potrebbe implicitamente chiedersi il nostro, ma non vi riesce (se vi riuscisse, non avrebbe bisogno di agire la sua follia).
“Se non godo non sono, se non godo non vivo.
Se non godo, avverto il mio essere mutilato, mancante di, imperfetto, impotente, in balia. Meschino… E non posso accettarlo. Non tollero nemmeno il desiderio, tanto allude a una mancanza”.

Il non-ancora-soggetto di oggi si trova in una posizione mentale che gli psicoanalisti, sulla scia di Melanie Klein, denominano “schizoparanoide”: in essa l’individuo non riconosce persone intere, se non parti di persone (il seno, gli occhi) collegate alle funzioni che hanno per lui (nutrirlo, guardarlo) in una relazione d’uso; vive in un mondo scisso (“schizo”) in cui o è amore o è odio, nessuna tonalità intermedia. Come i i gatti, che un attimo prima si fanno accarezzare, un attimo dopo, fossero grandi come tigri, vi sbranerebbero. Senza rimpianti, senza memoria.

In quella fase mentale, che nella normalità si conclude a sei mesi di vita, il bambino non ha, infatti, memoria, non lega nemmeno la sensazione, l’emozione, il sentimento. Sono cose per lui prive di continuità e significato, il suo mondo è a sprazzi d’emozioni persecutorie o euforizzanti… Non sa cosa vuol dire essere qualcuno, non ha la continuità dell’esistere né la “costanza dell’oggetto d’amore”, cioè l’idea che il referente affettivo sia lì con continuità. Vive terrori impensabili, angosce senza nome, le stesse che spingono l’omicida ad agire.

Anch’egli, come il neonato, è intrappolato nell’incapacità di tessere le fila di una memoria personale che, dall’affastellarsi di istanti “conosciuti non pensati” dei primi giorni, dovrebbe farsi storia della propria vita, teoria di sé, mente pensante, ma non ce la fa.

Questo itinerario, che va dall’”animale” incapace di pensiero e sentimento dei primi anni di vita all’uomo, viene magistralmente ripercorso nel romanzo “Lucy” di Cristina Comencini. Lucy è l’ominide femmina considerato dagli antropologi “l’anello mancante”, il testimone del “salto evolutivo” tra ominide e uomo. L’Autrice ne immagina alcuni momenti di vita. È quando Lucy esce dalla concentrazione animale su di sé, in cui è prigioniera della sensazione dell’istante… e per via della quale ciò che prova nell’attimo, estasi o dolore che sia, crede debba durare per sempre; quando alza lo sguardo da terra per incontrare quello del maschio e si sente in lui, e “lo” sente; quando capisce che in fondo dipende da lui, che deve seguirlo, occuparsi della raccolta delle bacche mentre lui difenderà lei e suoi cuccioli; quando avverte che lei e lui possono di più, assieme, e che assieme stanno meglio… ha inizio la storia dell’uomo.
Essa inizia, cioè, avvertendo qualcosa al di fuori di sé che è l’Altro. Abdicando all’egoismo dei bisogni primari a favore di qualcosa di più.
Trova in sé un “altruismo” che è “cosa mammifera”, sì, ma soprattutto “cosa umana” quando s’ammanta di ideale, di progetto e si fa scelta.

La capacità d’amare non solo nell’istante del bisogno, come fa il bambino, ma d’amare con continuità, “nella buona e nella cattiva sorte”, è cioè dono naturale dell’uomo in quanto essere biologicamente generativo, ma anche cimento squisitamente umano che richiede l’adultità del pensiero e la maturità del volere, la capacità di una scelta e di una rinuncia.

In Lucy la “scoperta” dell’Altro coincide con l’accesso alla memoria, che fa sì che “la Lucy buona” degli istanti d’amore e “la Lucy cattiva” degli istanti di odio avvertano d’essere la stessa “persona”.

Mettere insieme sensazioni contrastanti, accedere al senso di una continuità di se stessa nel tempo, fa entrare Lucy nella dimensione complessa della “responsabilità”, che è la premessa “umana” dell’amore duraturo. La fa cioè entrare in un tempo che non è più l’eternità immemore dell’animale, ma la storia degli uomini. In realtà, nell’ontogenesi umana la dimensione del tempo comincia ad essere avvertita soltanto grazie al ripetersi delle situazioni di presenza e assenza dell’oggetto desiderato, dell’oggetto amato: il tempo è la misura di quanto mi separa dal ritorno della mamma! Oggetto che riconosco come un intero, una persona, da cui dipendo.
La memoria di noi comincia con l’attesa del ritorno dell’Altro da cui dipendiamo.

Tornando al nostro “folle”, egli è preda di momenti emotivi ingovernabili dalla ragione (non è potuto avvenire il lento ammaestramento degli impulsi legato all’educazione), non ha memoria di sé (anche perché non lo è ancora, un sé) né ha fatto sua l’idea inizialmente inaccettabile di dipendere davvero da un altro per farcela.

Tutti elementi, quest’ultimi, cui si accede grazie a una prolungata assistenza genitoriale, una cura primaria della madre e secondaria del padre o di chi ne assuma i ruoli.

Intendo dire che la grave carenza, indotta culturalmente e dal sistema economico di oggi, nella mente del bambino è l’assidua presenza di una madre nei primi tre anni di vita, che lo farebbe evolvere dal suo stato “animale”. Le madri che debbono affidare al nido il loro bambino prima dei tre anni spesso sentono quanto assurda, crudele, ingiusta sia questa norma sociale, che non può che produrre esseri umani feriti dall’assenza di ciò che gli spetterebbe per diritto: l’amore di una e una sola donna al mondo, la madre. Gli altri e le altre vengono dopo, sono “gli scarti” cui vengono affidati, immaginando d’esser scarti a loro volta. La madre s’occupa d’altro rispetto a loro, che vengono dunque in secondo piano. E poiché la madre è sacra, non possono che ritenere inconsciamente di valere molto poco, visto che lo crede lei, mostrandolo nei fatti!

La seconda condizione di una mente capace di pensare è la presenza di un padre, o di qualcuno che ne svolga il ruolo, che è tradizionalmente quello di chi ti dà il senso del limite, di chi ti trasmette i valori. La madre ti dà il senso della tua infinità e “onnipotenza” potenziale, il padre li commisura ai vincoli della realtà, aiutando il figlio a dar forma e realizzazione concreta ai suoi desideri.

Tra figli e genitori di oggi assistiamo a una finta pienezza fatta d’appagamenti inutili, accompagnata da un vuoto profondo: per dirla con Crocetti, si configura tra genitori e figli un vuoto di conoscenza, un vuoto di appartenenza, un vuoto di valori, un vuoto di gioco.

Tutto questo genera nel soggetto una perdita del senso di sé, un’esperienza di se stesso disorientata e superficiale che non si fonda su codici valoriali presentati dai genitori, vividamente sentiti e condivisi.

I bambini vengono affidati a “balie” o “maestre” avventizie, e da queste ultime spesso ai videogiochi del telefonino.

Di recente ho appreso da una mia collega, che si occupa di terapia del bambino, che molti bambini non sanno più giocare. Il fatto è inedito: la terapia del bambino, da che è nata quasi un secolo fa, si basa sul gioco, proposto anche a bambini che stanno molto male. Se il “nuovo standard” dovesse essere quello di non saper giocare mi metterei le mani tra i capelli.

Non saper giocare significa avere una mente meno sviluppata del cane di casa, che, come sapete, le sue “finte” le fa, con sommo divertimento. Giocare significa infatti “aver del gioco”, “del margine” tra sé e la realtà. La realtà è così come la vediamo, ma la possiamo immaginare anche diversa nel gioco! Possiamo inventarne una alternativa. Il gioco è la base del pensiero ipotetico, la qualità che ha reso l’uomo l’unico essere capace letteralmente di crearsi “il suo mondo”.

Se i crimini in famiglia sono oggi in aumento, non oso immaginare cosa ci attenda per il futuro. Credo che l’emergenza “bambino”, inteso come “padre dell’Uomo”, dovrebbe essere tenuta ben più presente da chiunque si occupi di diritti civili. È in gioco il concetto stesso di “essere umano” per come lo conosciamo ora.

Il nuovo Budda per la stradaDallo psicologo al guru, dal coach all’autore di tutorial o manuali di “crescita personale”,...
25/09/2024

Il nuovo Budda per la strada
Dallo psicologo al guru, dal coach all’autore di tutorial o manuali di “crescita personale”, sembra non si riesca più a fare a meno di una guida alla nostra esistenza. Se il fenomeno non è nuovo, è tuttavia da comprendere nelle sue accezioni più attuali.
Di Alessia Vignali

Circa dieci anni fa, un amico fashion editor che lavorava a Londra (il compianto Peppe Orrù, per chi lo abbia letto e apprezzato) mi disse che le ultime generazioni di inglesi guardavano tutorial per fare qualunque cosa, dall’avviare una lavatrice all’apparecchiare la tavola; era come non sapessero fare più nulla, l’ignoranza regnava deliziosamente sovrana sulle loro esistenze. D’altro canto, il mercato della comunicazione o del “mentoring” offriva loro stampelle in cambio di audience o di congrui guadagni.

Colpa dell’americanizzazione della cultura, che come sempre sbarca prima da loro, poi arriva anche da noi? In parte sì. A questo aspetto si univa il fenomeno della pervasività nell’uso delle droghe: ci si drogava per aiutarsi ad andare ai party, a ballare, a fare sesso, poi però occorreva assumere altre droghe per calmarsi, dormire, lavorare. Frequentare le vie impervie della vita sembrava, cioè, qualcosa di impensabile senza una guida, senza uno sballo o senza l’abbinamento delle due cose.

Non sorprendentemente, nemmeno l’Italia di oggi sembra riesca più a fare a meno delle summenzionate soluzioni. Oggi ci concentreremo su quella più “soft”, da cui eravamo partiti. Dallo psicologo all’influencer, dal guru al coach sino al tutorial o alla formazione permanente, il “mentoring moment” sembra irrinunciabile. Pensando ai libri, quelli più in alto nelle vendite nelle classifiche di Amazon sono dedicati alla crescita personale. Per “imparare come si fa”.

Logicamente vien da pensare che, se ci occorre trovar qualcuno che ci dica “come si fa”, nessuno abbia svolto con noi questo compito quando era ora lo svolgesse, cioè in quella fertile epoca del nostro sviluppo in cui occorre essere introdotti ai segreti del mondo. Mi riferisco per primi ai genitori, per seconda alla scuola. Perché se questo fosse accaduto potremmo saperlo già, come si fa. Oppure, potremmo capire autonomamente quanto di nuovo c’è da capire senza trovarci nel nonsense in cui invece siamo impantanati.

La seconda cosa che vien da pensare è che la società d’oggi sia talmente complessa, piena di ingiunzioni paradossali e di “double binds” (quelli che in psichiatria è comprovato inducano psicosi) che lo sperdimento è un male necessario. Potremmo come al solito pensare che chi non si senta a disagio in questo clima sia un genio, un “baciato dagli dei” o un grave malato mentale (i più gravi pensano di essere sani).

“Essere in un percorso di terapia o di crescita” distingue dunque i “sofferenti consapevoli” dagli altri, i “sofferenti inconsapevoli”.

È dunque la dipendenza da un maestro o terapeuta un fenomeno deleterio, che induce a dipendere sempre da qualcuno per via dell’incapacità a sentirsi adulti?
Oppure il ricorso ai mentori è la spia di un’esigenza profonda e vera, che magari è bene soddisfare?

Senza dubbio, il fatto denuncia un diffuso vuoto interno, che non si può liquidare con l’insofferenza di chi pretenderebbe che chi sente d’aver bisogno di strumenti “si rimbocchi le maniche e faccia da solo”. Se chi si rivolge al mentore potesse “fare da solo” lo avrebbe già fatto. La vita è più complessa delle esternazioni teoriche dei vecchi barbogi.

In realtà, afferma lo psicoanalista Sheldon B. Kopp in “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo”, “in ogni epoca gli uomini hanno intrapreso pellegrinaggi, viaggi spirituali, ricerche personali. Spinti dal dolore, attirati dal desiderio, sorretti dalla speranza, singolarmente o in gruppi sono andati alla ricerca della liberazione, dell’illuminazione, della pace, del potere, della gioia o dell’irrealizzabile. Desiderosi di conoscenza, hanno però confuso l’apprendimento con la conoscenza stessa e spesso hanno cercato aiutanti, guaritori e guide, insegnanti spirituali dei quali poter divenire discepoli. L’uomo d’oggi, il pellegrino contemporaneo, desidera essere discepolo dello psichiatra (n.d.r: oggi anche del coach, del mister, dell’influencer).
Se cerca la guida di tale guru contemporaneo, si troverà a intraprendere il proprio pellegrinaggio spirituale moderno. Non dovremmo rimanerne meravigliati”. Tuttavia, aggiunge l’Autore, “l’I King, la Bibbia, lo psicoterapeuta contemporaneo e altri guru sono oracoli imperfetti. Sono invece alquanto più significativi come fonti di saggezza riguardo l’ambiguità, l’insolubilità e l’inevitabilità della situazione umana. Il loro valore sta proprio nell’offrire immagini che sono fisse senza essere stereotipate, immagini “su cui meditare e in cui scoprire la propria identità”.

In questo brano troviamo la traccia sia per comprendere lo smarrimento che induce l’uomo d’ogni tempo e luogo a trovare aiutanti che lo sorreggano nel buio, sia lo spunto per capire come mai oggi tale necessità sia ubiquitaria.

Il punto chiave è l’identità: poterla ritrovare quando si è smarrita “la diretta via” (Dante nella Divina Commedia), quando sembra che tutto ciò che siamo stati, che abbiamo pensato e in cui abbiamo creduto sia inconsistente… oppure poterne fondare ex novo una, tessendo in inedite trame i fili dei troppi talenti sprecati. Il primo tipo di smarrimento identitario citato avviene nei grandi snodi del ciclo di vita, l’adolescenza, il matrimonio, la gravidanza, la separazione, il nido vuoto, la menopausa, l’andropausa, oppure in concomitanza di un forte choc che induce a una crisi, chiamando la persona alla rimessa in discussione profonda di sé.

La seconda occasione d’identificazione o “individuazione”, per dirla con gli analisti junghiani, avviene quando il soggetto s’accorge di sfuggire a se stesso, di non avere una vera identità, magari d’averne una fittizia fintamente sgargiante (“Sotto il vestito niente”), oppure di non riuscire a lanciarsi nella vita come sarebbe tempo facesse. Non gli occorre, in questo caso, una ri-nascita, ma una sorta di “nascita al mondo”, come se la prima non fosse stata in grado di mettere pienamente in vita il soggetto.

L’uomo non è nell’infanzia autosufficiente a causa della prolungata neotenia, grazie alla quale supera in intelligenza gli altri animali. Dopo l’utero, il bambino necessita di un altro prolungato “utero”, questa volta “mentale ed affettivo”, che primariamente la madre gli fornisce nei primi tre anni di vita, praticamente ventiquattr’ore su ventiquattro.
È in quella fase che gli occorre un’attenzione altamente specializzata che gli restituisca “chi è”, poiché “sapere chi si è”… è un dono “per sempre”. La madre è la prima a riconoscere il figlio, a descriverlo, a “vederlo”. Con le parole e mediante la musica dei gesti, degli sguardi, delle carezze. Ne abbiamo già parlato in precedenti articoli, ma la nostra organizzazione sociale, che non permette a madre e bambino di stare assieme il necessario, non potrà mai produrre soggetti autonomi. L’autonomia richiede, per realizzarsi, una precedente fase di dipendenza riuscita e goduta.

L’assistenza della coppia genitoriale, questo “secondo utero”, continua poi sino ad adolescenza compresa, fondando per il figlio quella “base d’attaccamento sicura” che gli consenta di essere bene accompagnato nelle prime esperienze, dal gioco con la mamma alle esperienze sullo scivolo nel parco. Solo se sente di “avere le spalle coperte” il bambino può fare qualcosa che gli è assai naturale, esplorare il mondo… lasciandosi volentieri alle spalle proprio gli amati genitori!

L’autonomia sarebbe congenita all’essere umano, se solo gli venisse garantita un’infanzia assistita dal fare concreto dei genitori e illuminata dal loro desiderio di lui.

Purtroppo, oggi la maggioranza dei bambini è deprivata del contenimento della prima infanzia e anche della seconda, che richiederebbero il “tempo nobile“ di genitori che investano su di lui con passione e genuino godimento (Guido Crocetti). I genitori stanchi non fanno un buon lavoro, poiché il loro bambino non disporrà dei primi mattoni su cui edificare la sua soggettività.

Rendendosi poi conto in maniera inconscia dell’insicurezza dei loro figli oramai adolescenti, molti di loro tenderanno a compiere un ulteriore abuso nell’intento di “riparare il danno”: l’iperprotezione.
Gli esiti estremi di tale disastro sono descritti nelle cronache nere di ogni quotidiano, quelli meno infausti, ma comunque dolorosi, affollano appunto i divani degli psicoanalisti, le sessioni di meditazione o s’affacciano speranzosi sul nuovo libro di crescita personale.

Chi sente d’aver bisogno di “qualcosa in più” non è dunque da condannare, con queste premesse. Sente di mancare di “un pezzo”, e a ragione. Non pensiate che a mancare di tale “pezzo” siano solo i fragili e gli indecisi: spesso personaggi anche di grande successo come Elon Musk ne sono privi, basti dare un’occhiata alla biografia autorizzata di Walter Isaacson.

Neppure dobbiamo pensare che una buona psicoterapia costituisca una nuova, deleteria dipendenza: il terapeuta onesto ha il compito di dare quel “pezzo” al paziente (oltre che di fare mille altri interventi, ma ne parleremo in altri articoli), poi di salutarlo. Nessuna manipolazione del paziente, nessuna formattazione dello stesso a uso e consumo della visione dello psicologo, qualora questi, ripeto, sia sano e onesto.
Il terapeuta non sovrascrive i suoi pensieri su quelli del paziente, si limita a renderlo libero di formulare i suoi.

Come indicava Kalil Gibran ne “Il profeta”, “il maestro che cammina all’ombra del tempio tra i discepoli non elargisce la sua sapienza, ma piuttosto la sua fede e il suo amore. E se è davvero saggio, non v’invita ad entrare nella dimora del suo sapere, ma vi guida alla soglia della vostra mente”.

Il “pezzo da restituire”, anzi da costruire ex novo è dunque spesso quella che potremmo definire una nuova esperienza di dipendenza. Ma essa ha la funzione di sopperire alle carenze di quella primaria, non andata a buon fine a causa dell’indisponibilità emotiva dei genitori. La nuova dipendenza dal terapeuta dev’essere ovviamente transitoria e concludersi con l’esito più ambito da ogni maestro: essere superato dall’allievo-paziente.

La frase spesso citata dagli psicoanalisti (anche dal mio) a fine analisi, indirizzata ai pazienti è quella pronunciata nel film di Giuseppe Tornatore “Nuovo cinema Paradiso” dal proiezionista, il “maestro semplice” che introdusse il bambino Totò (in cui identifichiamo il regista stesso) alla conoscenza del cinema. Totò è orami grande, indeciso se lasciare la natìa Sicilia. Il vecchio mentore gli parla così: “Ognuno di noi ha una stella da seguire. Vattinni! ‘A vita non è come l'hai vista al cinematografo, a vita è cchiu difficili. Vattinni, tonnatinni a Roma! Tu si giovane, il mondo è tuo e io, io sugnu vecchio… non voglio più sentirti parlare. Vogghio sentere parlà di tia. In italiano (più o meno, e reinterpretato): “vai via, non pensare più a me, voglio sentire parlare di te di te da altri”.

Accettare di farsi superare, di essere “lasciati indietro”: non vi sembra che il ruolo dello psicoanalista e del maestro siano, qui, assai vicini a quello del buon genitore? Ma quanti dei genitori fragili di oggi, apparentemente fortissimi, sono disposti a questo?
Nonostante la fatica che comporta, è proprio la separazione dal paziente a sancire il successo del terapeuta.
Se il paziente ne ricaverà il dono di un sé ritrovato, restaurato o costruito ex novo, il maestro ne otterrà il dono emotivo di un’esperienza indimenticabile.

Viene in mente, al proposito, anche il commovente rapporto dell’ex campione mondiale Apollo Creed con Rocky Balboa nel film “Rocky III”. Apollo cerca Rocky, colui che gli aveva strappato il titolo, e ne vuol fare il suo allievo… per salvarlo dalla stessa crisi che ha vissuto lui (e per “salvare se stesso” da un’altra crisi, quella di una maturità da rendere di nuovo fertile e generativa dopo la prima stagione). Nasce un’amicizia straordinaria di cui rimane impressa la scena in cui i due splendidi atleti corrono gareggiando sulla spiaggia, Apollo prima di Rocky, a perdifiato, fino a quando sarà Rocky a superare l’amico. Apollo potrà sanare, attraverso le conquiste dell’allievo Rocky, le sue stesse ferite in virtù del fenomeno della profonda identificazione che ha con lui.
Avere allievi è anche, in pratica, anche una chance di rinascita e riparazione del sé per lo stesso maestro. Chi avrà “dato” più all’altro, alla fine dell’avventura?

Tornando alla sofferenza, veniamo a un alto punto: il terapeuta o il guru non è un individuo superiore, semplicemente uno che “le ha passate prima di te”, dunque sa muoversi navigare nel vuoto infinito dell’ignoto, alla ricerca della verità nascosta (che spesso abbiamo tutti sotto il naso). E non si accontenta di soluzioni preconfezionate (le “diagnosi” da supermarket della finta cultura tanto in voga oggi), utili solo a placare l’inquietudine.

Che valore ha per il paziente un simile aiutante? Tornando al meraviglioso testo di Kopp, il cui emblematico titolo “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo” ora comprendiamo sempre meglio: “il terapeuta può essere utile in diversi modi. Anzitutto contrappone un altro essere umano in lotta al paziente attualmente egocentrico e cieco a ogni problema al di fuori dei propri. Il terapeuta può interpretare, consigliare, fornire l’accettazione emotiva e l’appoggio che alimenta la crescita personale e, soprattutto, può ascoltare. Non intendo che debba semplicemente udire l’altro, ma che ascolterà attivamente e in modo significativo, rispondendo con lo strumento del suo mestiere, cioè, con la vulnerabilità del proprio sé fremente”.

Cos’è un maestro, dunque? Mi piace salutarvi con una provocazione. Per Don Milani è (più o meno, cito a memoria) “qualcuno che non dovrebbe avere, finite le ore di lezione, interessi culturali.” La facoltà primaria, quella che il maestro dovrebbe coltivare sempre, è cioè la competenza per la relazione.

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