
15/09/2024
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In qualsiasi manuale di fisiologia, il dolore viene descritto come un’importante componente del sistema sensoriale: è grazie ad esso se vi accorgete che una vespa vi ha punto 🐝 o che la tazza della tisana è bollente 🍵.
In entrambi i casi ricorrerete ai rimedi opportuni per non ustionarvi la mano o evitare un’estesa infiammazione cutanea data dalla puntura. Tutto questo proprio grazie alla segnalazione dei recettori dolorifici del vostro corpo.
Ma esistono anche dolori del corpo che non sono riconducibili ad un agente esterno che possiamo vedere o toccare con mano. Ad esempio, quante volte vi capita di alzarvi al mattino con una tensione alla mandibola
(e magari un dolorino cervicale annesso) o un fastidio alla zona lombare senza aver fatto alcun movimento eccessivo o senza aver subito un trauma? O ancora, quel dolorino all’addome un po’ persistente a cui a livello medico non è stata ricondotta causa alcuna? Perché non citare, infine, il mal di testa del sabato mattina, quello che puntualmente arriva appena ci si rilassa un po’?
È interessante come il tema del dolore, all’apparenza di assoluta competenza sanitaria, venga invece trattato dalla filosofia, in questo caso dal filosofo sudcoreano Byung-chul Han.
Il dolore, infatti, oltre alla sua componente prettamente corporea, possiede anche un significato ed è da
quest’ultimo che si sviluppa la riflessione dell’autore. Il punto di partenza, come in molti libri che qui vi propongo, è la società.
Secondo Byung-chul Han, infatti, viviamo in un’epoca predominata dall’algofobia, ossia dalla paura del dolore. Un timore promosso da una società che viene definita:
👉 della positività (il richiamo al saggio di Goodman “Positività tossica”, che potete trovare nel mio profilo, è d’obbligo), ossia che tenta di emanciparsi da tutto ciò che è negativo ed il dolore è l’emblema della negatività;
👉 della prestazione, ove il dolore viene interpretato dal mercato del lavoro come un segno di debolezza, il quale rende l’essere umano inefficiente e improduttivo. La positività deve garantire la prestazione.
🤔 Come fa questa società ad emanciparsi dal dolore?
Con l’ideologia, innanzitutto: sii felice, prima di ogni altra cosa.
In secondo luogo, attraverso l’uso sconsiderato della farmacologia così da impedire che ci si interroghi sulla causa del dolore, confinandolo solo alla sfera medica.
Quindi: “Perché mi sono svegliato con il male alla mandibola questa mattina?”, “Come mai quando mi rilasso non sto bene?”. La risposta è spesso confinata al primo antinfiammatorio disponibile (è interessante notare come Aldous Huxley ne “Il Mondo Nuovo”, attraverso la dialettica medicina-felicità-produttività-obbedienza abbia profetizzato un secolo fa questi sviluppi: potete trovare anche lui tra i libri
recensiti).
Invece, come ci suggerisce il filosofo, la ricerca ossessionata ed univoca della cura del sintomo non permette al dolore di espletare una delle sue funzioni principali: permettere di comprendere la tensione psichica – caratteristica della società della prestazione - che lo sottende e quindi aprire le porte al cambiamento e all’evoluzione sia personale sia sociale.
Credo che uno dei compiti più importanti della pratica osteopatica sia proprio in linea con quanto scritto: aiutare ad attribuire significato al dolore di chi si rivolge a me, poiché, come di direbbe Byung-chul Han, senza
di questo, "lo spirito rimane uguale a sé stesso".