30/11/2025
Una didattica che unisce: il vero valore della collaborazione
di Filippo Vadalà – Terapista ABA, Mental Coach, Autore, Formatore
Negli ultimi anni ho visto tante scuole cambiare, tante insegnanti impegnate, tante famiglie che fanno del loro meglio per costruire un percorso educativo coerente per i propri figli nello spettro autistico. Ma ho visto anche tante difficoltà, spesso invisibili: mancanza di comunicazione, scarsa condivisione degli obiettivi, poca coordinazione tra scuola, famiglia e terapisti. Eppure è proprio lì, in quel filo che unisce tutti questi mondi, che si gioca la vera differenza.
L’approccio didattico verso un bambino nello spettro non può essere lo stesso pensato per tutti. Non per “esclusione”, ma per rispetto delle diversità. Ogni bambino ha un proprio modo di apprendere, di comunicare, di concentrarsi, di reagire. E quando la scuola riesce ad accogliere questo concetto, non solo diventa più inclusiva — diventa più umana.
Spesso però accade che le figure intorno al bambino lavorino in parallelo, e non in squadra. Il terapista fa il suo lavoro in studio, l’insegnante di sostegno fa il suo in classe, i genitori cercano di gestire a casa come possono. Ma il bambino, nel mezzo, vive tre mondi diversi, ognuno con regole, linguaggi e obiettivi propri. È come chiedergli di imparare tre lingue contemporaneamente, senza che nessuno si parli.
Per questo è fondamentale creare un approccio didattico condiviso, in cui scuola, famiglia e professionisti si confrontino costantemente. Non basta una riunione all’anno o qualche scambio di informazioni a fine trimestre. Serve un dialogo vero, continuo, basato sull’ascolto e sulla fiducia reciproca. Perché un bambino non può imparare se ogni adulto intorno a lui procede per conto proprio.
Ogni giorno incontro insegnanti straordinari che mettono anima e cuore nel loro lavoro, ma che si sentono soli, spesso disorientati. Insegnanti che vorrebbero fare di più ma non sanno come, perché nessuno li forma abbastanza, nessuno li accompagna in un percorso condiviso con i terapisti. E vedo anche genitori che si fidano ciecamente della scuola o del centro, ma che non vengono coinvolti davvero.
Il risultato è che ognuno fa il massimo, ma non nella stessa direzione.
Eppure la direzione comune esiste, e si chiama obiettivo condiviso.
Non “migliorare il bambino”, ma aiutarlo a crescere nel suo ambiente naturale: casa, scuola, comunità. Questo significa che il lavoro del terapista ABA deve essere in linea con quello dell’insegnante di sostegno, che gli obiettivi didattici devono tener conto dei programmi terapeutici, e che i genitori devono sapere cosa si sta facendo, perché e con quali strategie.
Un bambino nello spettro non impara solo durante le ore di lezione o in terapia: impara sempre, in ogni contesto. E se quegli ambienti si parlano tra loro, l’apprendimento si consolida, diventa stabile, reale. Se invece le esperienze restano scollegate, tutto si indebolisce.
Un comportamento appreso in terapia, ma non rinforzato a scuola o a casa, tende a svanire.
Un obiettivo didattico raggiunto a scuola, ma non sostenuto nel quotidiano, rischia di non durare.
Collaborare non significa perdere autonomia o “farsi dire cosa fare”. Significa costruire una rete in cui ciascuno porta la propria competenza per un fine comune.
La maestra conosce il contesto scolastico, il terapista conosce le strategie comportamentali, i genitori conoscono il bambino meglio di chiunque altro. Se queste tre prospettive si uniscono, il risultato è potentissimo.
Ed è proprio qui che nasce la vera didattica inclusiva: non da leggi o regolamenti, ma da persone che scelgono di lavorare insieme.
Un bambino che vede coerenza tra ciò che vive a scuola, a casa e in terapia si sente sicuro.
E quando un bambino si sente sicuro, impara.
È in quella sicurezza che si accende la motivazione, l’autonomia, la fiducia.
Questo è ciò che mi piace ricordare sempre: l’inclusione non è un concetto astratto, è un lavoro quotidiano di squadra.
E ogni volta che un genitore, un insegnante e un terapista si siedono allo stesso tavolo per confrontarsi, nasce qualcosa di importante.
Non possiamo più permetterci di pensare per compartimenti stagni. Non possiamo lasciare che la scuola faccia la scuola, il terapista faccia la terapia e la famiglia si arrangi.
Ognuno deve fare la propria parte, ma con uno sguardo unico verso lo stesso obiettivo: il benessere e la crescita del bambino.
Io credo fermamente che questo sia il futuro dell’educazione e della terapia: collaborazione, condivisione, coerenza.
E se vogliamo che i bambini imparino davvero, dobbiamo imparare anche noi a lavorare insieme, ad ascoltarci, a riconoscere che nessuno può farcela da solo.
Filippo Vadalà
Terapista ABA – Mental Coach – Autore – Formatore