22/11/2023
“𝗨𝗻 𝗺𝗶𝗻𝘂𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝗿𝘂𝗺𝗼𝗿𝗲” 𝗹𝗮 𝗿𝗶𝗳𝗹𝗲𝘀𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗘𝗹𝗶𝘀𝗮𝗯𝗲𝘁𝘁𝗮 𝗖𝗮𝗺𝘂𝘀𝘀𝗶
La morte di Giulia Cecchettin è stata un femminicidio che nella sua tragicità si potrebbe definire “perfetto”.
Come psicologhe e psicologi non possiamo infatti non notare quanto la dinamica dei fatti, la sua articolazione, l’intervallo temporale tra la scomparsa e il ritrovamento, la fuga dell’assassino, i volti e le storie dei protagonisti, delle famiglie, della sorella di Giulia abbiano permesso al sentire comune un processo di identificazione e rispecchiamento raramente accaduto prima.
Giulia non è la prima donna giovane ad essere uccisa dall’ex, né la prima studentessa.
Certo non è la prima donna uccisa nel 2023 – semmai la numero 105. Ma la sua è la prima storia a cui molte persone delle diverse età hanno partecipato mentre accadeva, e non solo post mortem, come solitamente avviene.
Questa partecipazione è stata possibile perché, diversamente dalle altre vicende, la narrazione di quanto stava accadendo aveva sì le forme del racconto giornalistico, ma su questo prevalevano le parole dei famigliari e più di tutte quelle di Elena Cecchettin, la sorella.
Elena che, ancora una volta diversamente da quanto accaduto per i femminicidi precedenti, ha avuto da subito, poco dopo la sparizione dei due giovani, “𝗹𝗲 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝗱𝗶𝗿𝗹𝗼”.
Raccontando i segnali allarmanti che aveva colto nella relazione di Giulia con il fidanzato, anche dopo il termine della storia. E provando a descriverli con la lucidità di chi su queste tematiche ha pensato, studiato, appreso, condiviso. La sua capacità di definire l’omicidio della sorella come l’esito di una violenza e di una discriminazione contro le donne di tipo sistemico, e dunque non rubricabili nella pseudo spiegazione del raptus, ha avuto un effetto spiazzante: perché normalmente questa narrazione appartiene alle esperte -non ai famigliari-, che cercano di tenere in considerazione tanto il caso singolo quanto la sistematicità di atteggiamenti e comportamenti collettivi, unitamente alla necessità di interventi di prevenzione che investano la società tutta.
𝗚𝗿𝗮𝘇𝗶𝗲 𝗮 𝗘𝗹𝗲𝗻𝗮, 𝗿𝗮𝗴𝗮𝘇𝘇𝗲 𝗲 𝗿𝗮𝗴𝗮𝘇𝘇𝗶, 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗲 𝘀𝗰𝘂𝗼𝗹𝗲, 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗰𝗮𝗽𝗶𝘁𝗼 𝗳𝗼𝗿𝘀𝗲 𝗼𝗴𝗴𝗶 𝗽𝗲𝗿 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮 𝘃𝗼𝗹𝘁𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝘃𝗶𝗼𝗹𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗹𝗲 𝗱𝗼𝗻𝗻𝗲, 𝗱𝗲𝗳𝗶𝗻𝗶𝘁𝗮 𝗱𝗮𝗹𝗹’𝗢𝗡𝗨 𝘂𝗻’𝗲𝗽𝗶𝗱𝗲𝗺𝗶𝗮 𝗻𝗼𝗻 𝗿𝗶𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗶𝘂𝘁𝗮, 𝗲̀ 𝘂𝗻 𝘁𝗲𝗺𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗶 𝗿𝗶𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗮. E hanno risposto al minuto di silenzio proposto dalle scuole con un minuto di rumore.
𝗔 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗿𝘂𝗺𝗼𝗿𝗲, 𝗮 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗿𝗶𝗻𝘂𝗻𝗰𝗶𝗮 𝗮𝗹 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗱𝗮 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗿𝗲 𝗰𝗼𝗻𝗻𝗼𝘁𝗮 𝗹𝗮 𝘃𝗶𝗼𝗹𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗱𝗶 𝗴𝗲𝗻𝗲𝗿𝗲 𝗲 𝗹’𝗶𝗺𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝗿𝗶𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗲𝗿𝗹𝗮 𝗼 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝗿𝗹𝗮, 𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗿𝗶𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗮 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗰𝗵𝗶 𝘃𝗮 𝗮 𝘀𝗰𝘂𝗼𝗹𝗮, 𝗹𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗮 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗲 𝗱𝗲𝘃𝗲 𝗿𝗶𝘀𝗽𝗼𝗻𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗰𝗼𝗻 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗲𝘁𝗲𝗻𝘇𝗮.
Psicologhe e psicologi hanno infatti l’expertise per riconoscere che le violenze e le discriminazioni, contro le donne e non solo, hanno effetti traumatici. Sanno altrettanto bene, occupandosi di atteggiamenti e comportamenti, quanto i processi di socializzazione siano influenzati da prescrizioni stereotipiche sui ruoli di genere.
E conoscono infine la complessità delle dinamiche tra autonomia e indipendenza che connotano le relazioni affettive e la necessità che su questo si intervenga con competenze professionali a partire dai primi anni di vita, nei contesti scolastici, nel gruppo dei pari, con gli adulti.
𝗣𝗲𝗿 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼, 𝗮𝗴𝗶𝗿𝗲 𝗽𝗿𝗼𝗳𝗲𝘀𝘀𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝗽𝗿𝗼𝗺𝘂𝗼𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗶𝗹 𝗰𝗮𝗺𝗯𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹𝗲 𝗲̀ 𝗰𝗲𝗿𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗹 𝗺𝗼𝗱𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗶𝗺𝗽𝗲𝗱𝗶𝗿𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗶𝗹 𝗿𝘂𝗺𝗼𝗿𝗲 𝗱𝗶 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗺𝗼𝗿𝘁𝗲 𝗱𝘂𝗿𝗶 𝘁𝗿𝗼𝗽𝗽𝗼 𝗽𝗼𝗰𝗼.
𝗘𝗹𝗶𝘀𝗮𝗯𝗲𝘁𝘁𝗮 𝗖𝗮𝗺𝘂𝘀𝘀𝗶