Paola Guerreschi Psicologa Psicoterapeuta

Paola Guerreschi Psicologa Psicoterapeuta Psicologa Psicoterapeuta
Brescia. Relazioni, ansia, attacchi di panico, depressione, dipendenze, disturbi post-traumatici, genitorialità, sessuologia.

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20/07/2025

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“Il paziente psicotico è così perseguitato dall'idea che il mondo reale abbia perso consistenza o comunque abbia subìto una trasformazione del suo tipo di presenza, che una sola esperienza benefica di vitalità non sarà mai sufficiente. Essa potrà al massimo aprire una scintilla di speranza, o indurre uno slancio di fede o indurre un attimo di conforto. Ma la certezza che il mondo esiste, che è conoscibile, che è abitato da esseri come noi, questa ce la potrà dare solo il ripetere e ancora ripetere l'esperienza positiva.
L'analista dovrà stare lì molte e molte volte e il paziente dovrà sperimentare ripetutamente che il momento buono ritorna oppure che il momento cattivo è allontanabile, tramite la conoscenza o tramite il conforto attivo dell'altro. Solo l'abitudine può dare un senso di certezza. L'abitudine contiene però anche un altro aspetto importante. Essa dà vita a oggetti che si saturano di abitudine e diventano quindi veri e propri oggetti del Sé, testimoni viventi dell'impregnazione che hanno tratto dalla frequentazione costante col soggetto. La propria tazza per far colazione, la propria penna, i propri occhiali, quel certo vestito, il proprio cuscino: tutti gli oggetti possono diventare, in certi casi, oggetti del Sé. È questa la radice dell'esperienza così penosa che ci coglie quando si osserva un oggetto appartenuto a qualcuno che non c'è più.
Nel caso del paziente psicotico la quotidianità assume un'altra faccia. Molto spesso, specie quando sussistono simbiosi protettive, il paziente frequenta intensamente delle abitudini, ma queste abitudini sono rituali vuoti, che rassicurano ma non conferiscono senso di realtà. La musica nel walkman, la televisione sempre accesa, i caffè, le si*****te, sembrano abitudini necessarie, ma senza vita. Il paziente usa l'oggetto come un rifugio, e non come una fonte di vitalità: molte relazioni familiari, talvolta fortemente idealizzate, si rivelano fondate su affetti intensissimi ma vuoti, nel senso che non sono più in grado di veicolare significati, ma solo sicurezza”.

A. Correale (2000), Psicoanalisi e psicosi: fino a che punto indagare l’area traumatica?, in Rivista di Psicoanalisi , (46)(4):707-730

09/06/2025

Più che mai necessario insegnare ai propri figli l’importanza di non girarsi dall’altra parte di fronte al diritto di voto. La mancanza del senso di comunità e di partecipazione attiva al funzionamento sociale sono proporzionali al vuoto e alla solitudine patologica che ci circonda. Dobbiamo recuperare consapevolezza circa la connessione tra individuale e sociale come due facce della stessa medaglia, pena l’avanzamento di tutto il degrado a cui ogni giorno siamo esposti.

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18/05/2025

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Miguel Benasayag ha rilasciato un'intervista per Il Corriere della Sera, pubblicata nell'inserto Economia del 12 maggio 2025. Con la sua consueta lucidità, ha riaffermato una posizione che può apparire provocatoria nel tempo dell’intelligenza artificiale trionfante: ChatGPT non pensa, ma neppure il cervello, da solo, produce pensiero.

Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino naturalizzato francese, ha attraversato la militanza politica, passando anni di prigionia sotto la dittatura militare argentina, prima di rifugiarsi in Francia, dove tuttora vive e lavora. Autore prolifico, ha fondato il collettivo Malgré Tout e pubblicato saggi fondamentali come L’epoca delle passioni tristi, L’epoca dell’intranquillità e ChatGPT non pensa (e il cervello neppure), da cui prende spunto l’intervista.

Il punto centrale è chiaro: pensare non è calcolare. Pensare è un atto incarnato, emergente, relazionale. È ciò che accade nell’attrito fra noi e il mondo, non nella concatenazione fredda di simboli. È ciò che accade quando qualcosa ci resiste, ci interpella, ci coinvolge. Da questo punto di vista, non solo la macchina non pensa, ma neppure il cervello isolato produce pensiero. Serve un soggetto vivente, situato, che abiti un mondo e che ne venga trasformato.

Benasayag ricorre a immagini efficaci: ogni popolo suona strumenti diversi secondo il paesaggio che abita. Non è una scelta culturale astratta, ma una risposta incarnata all’ambiente. Pensare nasce da lì, da quella vibrazione tra corpo e mondo. In questo senso, non tutto ciò che facciamo è pensiero: quando giochiamo a ping pong, il cervello calcola traiettorie, ma non sta pensando. Pensare è un'altra cosa: è tensione, ambivalenza, apertura.

Il rischio – ammonisce Benasayag – è quello del produzionismo: confondere la potenza di calcolo con il pensiero, la prestazione con la coscienza, il funzionamento con l’esistenza. Così facendo, finiamo per ridurre l’umano a macchina, rinunciando alla sua alterità irriducibile; e questa delega eccessiva, questa esternalizzazione sistematica delle nostre funzioni cognitive, ci rende fragili. Diveniamo giorno dopo giorno sempre più pronti, ma sempre meno presenti.

Nel solco di Platone, cita il Fedro, dove Socrate si rifiuta di scrivere sostenendo che la scrittura sia una delega che indebolisce la memoria. Oggi sappiamo che quella previsione era in parte sbagliata. La scrittura, dice Benasayag, l’abbiamo addomesticata, e in essa vive anche la poesia, che parla attraverso ciò che non dice. Ma proprio per questo, una poesia scritta da un’IA, anche se formalmente perfetta, manca di intenzionalità, e quindi di significato.

Qui in questo spazio di riflessione, nel nostro paradigma filosofico e psicologico, questa riflessione di Benasayag si armonizza perfettamente: non siamo il funzionamento, ma ciò che simbolizziamo, ciò che soffriamo, ciò che mettiamo a rischio. L’intelligenza artificiale non ha un’etica, perché non esiste nel tempo del rischio e dell’incertezza: può solo ottimizzare. Diversamente l'etica umana è una scommessa, un tentativo di senso mentre camminiamo sul filo dell’esperienza, sopra l'abisso del nichilismo.

Ecco allora l’avvertimento più profondo: non è la macchina che minaccia l’uomo, è l’uomo che, smettendo di indagare la vita, cammina verso la morte. La posta in gioco non è tecnologica, ma ontologica. La sfida non è opporsi all’IA, ma integrarla senza confondere la sua potenza con la nostra vulnerabile dolcezza e grandezza.

In un mondo che ci chiede sempre più di funzionare, Benasayag ci invita a ricordare che siamo nati per esistere. Io direi “per vivere e celebrare la vita”.

Un abbraccio a tutti,
Pierluigi Dadrim Peruffo

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24/03/2025

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Chiar.ma Presidente del Tribunale dei Minori di Milano Avv. Maria Carla Gatto.......

Le scrivo perché stamane ho letto l’intervista che ha rilasciato a “La Stampa”, in cui lei afferma che la famiglia affidataria di Luca non aveva i requisiti per diventarne famiglia adottiva. Le scrivo perchè io e Lei ci siamo incontrati in occasione di convegni in cui veniva messo a fuoco il tema della protezione dei minori. Ma soprattutto, Le scrivo perché Lei è nella posizione giuridica di decidere del destino di Luca, che a 4 anni - dopo essere stato cresciuto dal primo mese di vita da due genitori affidatari - ha avallato e firmato il provvedimento di trasferimento di Luca nella sua nuova famiglia adottiva, generando ciò che per noi specialisti di età evolutiva rappresenta uno dei più gravi traumi – sul piano clinico – che si possa verificare nella vita di un bambino: il trauma abbandonico. E’ come se avesse deciso che mamma e papà di Luca morissero contemporaneamente, scomparendo per sempre dalla sua vita. In più la riassegnazione di Luca a due nuovi genitori non ha comportato alcun genere di “processo ponte” tra vecchia e nuova famiglia, procedura di importanza fondamentale per permettere alla nuova famiglia di poter usufruire di tutto quel bagaglio di conoscenza e competenza su Luca che i genitori affidatari detengono dal primo mese di vita del bambino. Lei afferma che questo “ponte” tra famiglie non è avvenuto perché i due genitori affidatari si sono dimostrati ostacolanti. Io li ho ascoltati e mi sono sembrati tutt’altro che ostacolanti. Li ho sentiti “disperati” per essersi visto strappato un bambino in 48 ore senza possibilità di stargli accanto in una separazione così terribile. E le lacrime che hanno pianto non erano solo dovute al loro dolore inevitabile. Ma alla percezione del dolore che quel bambino avrebbe provato trovandosi dopo 4 anni, all’improvviso, senza mamma e papà.
A fronte di tutto questo, l’elemento chiave della sua decisione – alla luce di quanto dichiarato al giornale – sembra essere la protezione del minore che quando sarà adolescente si troverebbe ad avere come padre e madre due persone anziane. Oggi Luca ha 4 anni e i suoi genitori affidatari rispettivamente 54 e 53. Tra 10 anni Luca avrà 14 anni e i suoi genitori affidatari 64 e 63, ovvero 3 anni in più di me che oggi cresco 4 figli, di cui una la quarta figlia ha attualmente 16 anni. Non mi sento anziano per i suoi bisogni. Ma mi sento competente. Faccio molti errori educativi con lei, ma non dipendono dalla mia età. Lei sa meglio di me, inoltre, che in base al principio della continuità affettiva, decade e non è più effettivo il principio che regola il divieto di adottare in base all’età dei genitori. Io davvero non comprendo – e lo dico prima di tutto da specialista dell’età evolutiva, ma anche da genitore – come è possibile che il luogo istituzionale che si occupa della tutela del bene maggiore dei minori, possa applicare al caso specifico di Luca ciò che viene affermato nell’intervista rilasciata a La Stampa. Se lei sa che i genitori affidatari di Luca sono stati inadeguati con questo bambino, in quanto gli hanno procurato dolori e sofferenze per incompetenza genitoriale, la sua decisione appare perfetta e l’unica che andava presa. Ma considerato che questi genitori hanno ricevuto in affido proprio dal sistema di tutela del minore, un altro bambino dopo Luca e tuttora lo stanno crescendo come affidatari, io presumo che questi due genitori siano molto competenti sul piano emotivo e affettivo. E probabilmente lo saranno, con tutti i limiti che tutti abbiamo dopo aver compiuto 60 anni, anche tra 10 anni. Due settimane fa ho chiesto se in Italia c’era un solo professionista dell’età evolutiva che fosse d’accordo con questa decisione da Lei avallata. Non ce n’è stato uno in tutta la nazione. E’ paradossale ciò che accade, perché il suo stesso Tribunale, nei processi separativi, prende decisione dopo aver raccolto perizie e pareri degli specialisti. Credo che, in questo caso, gli specialisti che si sono occupati di Luca su ordine del Tribunale e che stanno monitorando la situazione, non siano allineati con il parere competente di tutto il mondo scientifico. E questa cosa, da professionista, la ritengo gravissima, sotto ogni punto di vista, sia clinico che giuridico. Io non sono nessuno e non ho alcun potere di legge che mi consenta di cambiare la situazione di questo bambino. Ma ciò che è accaduto - sono più che certo - è causa di un trauma enorme per Luca, un trauma che poteva essere prevenuto e che va riparato il più velocemente possibile, riassegnando il bambino alla famiglia che lo ha cresciuto. So che questo genererà una enorme fatica emotiva a tutti e penso con dolore a quella famiglia adottiva che ora ha accolto Luca e che lo sta amando, consapevole della precarietà enorme che questo iter giuridico ha imposto a tutti. Però, mi lasci dire: una cosa così non può accadere mai più. Urge una legge che tuteli in tutti i modi la continuità affettiva per il minore e sono senza parole che proprio voi, che siete uomini e donne di legge, non l’abbiate ancora promulgata. Presumo che lei come me sappia che Luca ha bisogno di tornare nella sua famiglia di origine, che io – dopo averne parlato – sento una volta alla settimana. Le consiglio di chiamare questi due genitori anche lei, invece che parlarne in astratto in un’intervista ai giornali. Si renderebbe conto che si tratta di due genitori attenti e competenti, con tanta esperienza (anche professionale) di cura dei minori. Lei li ha accusati di aver reso mediatico il loro caso. Mi lasci dire che hanno fatto bene: perché se questa cosa non fosse stata mediatizzata, oggi Luca sarebbe un bambino in balia della burocrazia più cieca e di una legislazione ingiusta. Lei ha tutto il diritto di considerare il mio intervento invadente e intrusivo. Ma in questo caso, io non riesco a non fare questo intervento. E chiedo a tutto il mondo di fare rumore, di condividere questo mio messaggio e di scriverle oggi stesso affinchè cambi il destino di Luca e in futuro di tutti gli altri Luca inascoltati che potrebbero trovarsi in questa situazione. La saluto con cordialità. Alberto Pellai

Sarebbe bello se anche la scuola italiana statale  si aprisse maggiormente a nuove sperimentazioni
15/03/2025

Sarebbe bello se anche la scuola italiana statale si aprisse maggiormente a nuove sperimentazioni

La Finlandia sta innovando l'educazione in modo affascinante: dal 2016, le scuole hanno introdotto il "Phenomenon-Based Learning", un approccio che integra le diverse materie in moduli tematici, affiancandoli all'insegnamento tradizionale.

Pensate un attimo: nella vita reale, quando affrontiamo una sfida, non usiamo solo matematica, o solo storia, o solo scienze. Utilizziamo tutto insieme. Almeno una volta all'anno, gli studenti finlandesi esplorano fenomeni reali proprio in questo modo, connettendo diverse discipline.

È come preparare un piatto elaborato: non teniamo gli ingredienti separati, ma li combiniamo sapientemente per creare qualcosa di nuovo e speciale. Così i giovani studenti finlandesi imparano a vedere le connessioni tra le diverse materie, preparandosi per un mondo dove l'integrazione delle competenze è fondamentale.

Il futuro dell'educazione è già qui, ed è più connesso di quanto pensiamo. 🇫🇮📚

11/03/2025

23/10/2024
16/10/2024

Il sogno appartiene da sempre all’esperienza umana e, fin dall’antichità, riveste un particolare interesse ed ispira ricerche nel tentativo di comprenderne meccanismi e significati. Tuttavia le varie discipline che si sono...

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