
20/07/2025
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“Il paziente psicotico è così perseguitato dall'idea che il mondo reale abbia perso consistenza o comunque abbia subìto una trasformazione del suo tipo di presenza, che una sola esperienza benefica di vitalità non sarà mai sufficiente. Essa potrà al massimo aprire una scintilla di speranza, o indurre uno slancio di fede o indurre un attimo di conforto. Ma la certezza che il mondo esiste, che è conoscibile, che è abitato da esseri come noi, questa ce la potrà dare solo il ripetere e ancora ripetere l'esperienza positiva.
L'analista dovrà stare lì molte e molte volte e il paziente dovrà sperimentare ripetutamente che il momento buono ritorna oppure che il momento cattivo è allontanabile, tramite la conoscenza o tramite il conforto attivo dell'altro. Solo l'abitudine può dare un senso di certezza. L'abitudine contiene però anche un altro aspetto importante. Essa dà vita a oggetti che si saturano di abitudine e diventano quindi veri e propri oggetti del Sé, testimoni viventi dell'impregnazione che hanno tratto dalla frequentazione costante col soggetto. La propria tazza per far colazione, la propria penna, i propri occhiali, quel certo vestito, il proprio cuscino: tutti gli oggetti possono diventare, in certi casi, oggetti del Sé. È questa la radice dell'esperienza così penosa che ci coglie quando si osserva un oggetto appartenuto a qualcuno che non c'è più.
Nel caso del paziente psicotico la quotidianità assume un'altra faccia. Molto spesso, specie quando sussistono simbiosi protettive, il paziente frequenta intensamente delle abitudini, ma queste abitudini sono rituali vuoti, che rassicurano ma non conferiscono senso di realtà. La musica nel walkman, la televisione sempre accesa, i caffè, le si*****te, sembrano abitudini necessarie, ma senza vita. Il paziente usa l'oggetto come un rifugio, e non come una fonte di vitalità: molte relazioni familiari, talvolta fortemente idealizzate, si rivelano fondate su affetti intensissimi ma vuoti, nel senso che non sono più in grado di veicolare significati, ma solo sicurezza”.
A. Correale (2000), Psicoanalisi e psicosi: fino a che punto indagare l’area traumatica?, in Rivista di Psicoanalisi , (46)(4):707-730