Salvatore Barbarossa Psicologo e Mental Coach

Salvatore Barbarossa Psicologo e Mental Coach 🧠 Psicologo e Coach
🚀 Aiuto le persone a sbloccare il loro potenziale e a vincere le sfide 🥇

Leggi ora il mio nuovo articolo su IL7 Magazine PSICOLOGIA E «IA», IL RISCHIODELLE DIAGNOSI FAI DA TE«Dottore, soffro di...
04/07/2025

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PSICOLOGIA E «IA», IL RISCHIO
DELLE DIAGNOSI FAI DA TE
«Dottore, soffro di un disturbo ossessivo compulsivo, me l’ha detto l’intelligenza artificiale». Lo sguardo del- l’adolescente che ho davanti è serio, convinto, come se finalmente
avesse trovato una risposta. Peccato che quella
risposta gliel’abbia data un chatbot. Non è un
episodio isolato: negli ultimi mesi mi è capitato
sempre più spesso di accogliere ragazzi e ragazze
che arrivano in studio con una diagnosi già confezionata, spesso accompagnata da consigli terapeutici, tutto grazie a una conversazione con la
loro intelligenza artificiale preferita. Il futuro, insomma, è già qui e con lui nuove sfide, nuove
opportunità e nuovi rischi, soprattutto per la salute mentale.
La psicologia sta vivendo una rivoluzione silenziosa. L’intelligenza artificiale ha fatto irruzione
in un territorio fino a poco fa considerato esclusivo dell’umano: il mondo interiore. Chatbot,
piattaforme digitali, assistenti virtuali in grado di
“ascoltare” e “consigliare” sono ormai alla portata di tutti, h24, in qualsiasi angolo del mondo.
E sì, da un lato tutto questo rappresenta un
enorme passo avanti: mai come ora è stato così
facile accedere ad un numero cosi elevato di informazioni, questo in alcuni casi permette a tanti
di sentirsi meno soli e di conseguenza consente
ad alcuni di sfogarsi e ricevere in pochi secondi
strategie di coping che prima avremmo cercato
faticosamente in un libro o in una seduta. Ma
cosa succede se la diagnosi è errata e le strategie,
di conseguenza sono inappropriate?
Per molte persone, soprattutto giovani, il primo
passo verso il benessere psicologico inizia proprio lì, nella camera da letto, davanti allo
schermo, con una domanda digitata nella notte.
Ma se la voce dell’intelligenza artificiale può abbattere barriere e pregiudizi, può anche diventare
una scorciatoia pericolosa. Perché il dolore
umano non è un problema da risolvere con un
comando, e le risposte semplici spesso nascondono complessità che un algoritmo non può
comprendere. Quando un ragazzo dice di avere
un disturbo perché l’ha detto l’intelligenza artificiale, non solo rischia di incasellarsi in una diagnosi errata, ma soprattutto rischia di perdere
l’occasione di farsi ascoltare davvero. Dietro una
frase detta al volo, un comportamento inspiegabile, un silenzio prolungato, ci sono mondi che un’intelligenza artificiale non può esplorare, per- ché le mancano la presenza, lo sguardo, il con- tatto, i segnali non verbali, i silenzi e non fa domande, accettando per buono quello che gli
viene comunicato. L’intelligenza artificiale non
può ancora creare l’alleanza terapeutica tra psicologo e paziente, le manca l’empatia, che resta
e resterà la colonna portante di ogni percorso terapeutico autentico.
E poi c’è un altro aspetto, meno evidente ma altrettanto importante: l’IA non si assume la responsabilità. Non educa alla consapevolezza, alla
fatica del cambiamento, al valore del dubbio. Ti
dice cosa potresti essere, ma non ti accompagna
a scoprire chi sei. Ti fornisce etichette, ma non
costruisce significati. E mentre si diffonde l’illusione che tutto sia facilmente spiegabile, decifrabile, classificabile, rischiamo di dimenticare che
ogni essere umano è un intreccio irripetibile di
emozioni, storia, relazioni e contesto.
Questo non significa che l’intelligenza artificiale
sia un nemico. Anzi. Può essere una risorsa preziosa, un alleato, uno strumento estremamente
potente, che può rappresentare un utile supporto.
Può aiutarci a intercettare chi ha bisogno e magari non trova il coraggio di chiedere aiuto. Ma non dobbiamo mai dimenticare che è uno stru- mento, non un sostituto. E che il nostro compito, oggi più che mai, è educare i giovani (e non solo loro) a un uso critico, consapevole e responsabile di queste tecnologie. Spiegare che, sì, è giusto
informarsi, confrontarsi, anche provare a capire.
Ma che quando si parla di dolore, di ansia, di
paura, di senso di smarrimento, serve un ascolto
diverso. Un ascolto che accoglie, non che si limita a dare risposte. Un ascolto che si costruisce
nel tempo, nella relazione, nel confronto reale
con un altro essere umano.
David Lazzari, psicoterapeuta ed ex presidente
nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha paragonato queste scorciatoie alla lampada di Aladino:
un’illusoria magia che crea dipendenza, ma «un
conto è chiedere notizie scientifiche, altra cosa è
interrogarla su questioni personali». Ecco il paradosso: un aiuto che somiglia così tanto a terapia, ma che non lo è. La psicologia del futuro
deve essere un dialogo critico con l’IA, non una
sottomissione a essa. Senza il confronto umano,
senza lo sguardo empatico e la relazione terapeutica, si rischia di impoverire la complessità dell’esperienza emotiva umana. Non sorprende il
fatto che molti giovani, dopo aver provato con
l’intelligenza artificiale, decidano di intrapren- dere un percorso con uno psicologo “in carne e
ossa”: perché avvertono il bisogno della relazione, non soltanto della risposta perfetta o presunta tale.
Il problema, come sottolinea David Lazzari, è
che la tecnologia corre, ma l’elaborazione psicologica ha bisogno di tempo. Le novità digitali si
susseguono con un ritmo vertiginoso, mentre i
processi interiori seguono tempi lenti, fisiologici,
profondamente umani. Questo scarto genera un
disorientamento sottile: ci si affida allo strumento prima ancora di capirne davvero la portata, rischiando di usarlo in modo acritico e superficiale. La cura, quella vera, nasce nella relazione, nel- l’incontro, nello scambio imperfetto ma vivo tra due persone. E lì, solo lì, l’IA potrà trovare il suo spazio: come uno strumento, non come una voce definitiva. Come un aiuto, non come una scorciatoia. Come un’estensione della nostra umanità, non come il suo sostituto.
Lo trovi completo qui 👉https://online.flippingbook.com/view/1060308607/22/

Henry e la convivenza con la depressione. Una compagna di viaggio scomoda che lo ha accompagnato per tutta la sua brilla...
26/06/2025

Henry e la convivenza con la depressione.

Una compagna di viaggio scomoda che lo ha accompagnato per tutta la sua brillante carriera.

Tu conoscevi questa storia?
Trovi punti in comune con la tua esperienza?

✨ “Mamma, non è un caso.”Sono parole semplici, ma dietro c’è un mondo che cambia. 🌎Quando un ragazzo ritrova fiducia, en...
24/06/2025

✨ “Mamma, non è un caso.”
Sono parole semplici, ma dietro c’è un mondo che cambia. 🌎

Quando un ragazzo ritrova fiducia, entusiasmo e grinta… si vede, si sente. E soprattutto, si vive.

Questa è la testimonianza di una mamma che ha ritrovato negli occhi del figlio qualcosa che mancava da tempo: la luce.

💬 Leggere messaggi come questo mi gratifica profondamente. Non solo come psicologo e mental coach, ma come persona.
Mi rende orgoglioso. Mi fa amare ogni giorno di più ciò che faccio.

Perché dietro ogni percorso, ogni incontro, ogni parola condivisa… c’è la possibilità concreta di fare la differenza. E questa, per me, è la vera vittoria.

📩 Le emozioni autentiche non mentono. Il cambiamento non è magia, è lavoro interiore.
Ed è lì che inizia tutto.

👉 Se anche tu vuoi intraprendere un cambiamento profondo o supportare chi ami a farlo, sappi che il primo passo è sempre possibile. E non sei solo.

Leggi ora il mio nuovo articolo su IL7 Magazine“Amava i bambini e sognava, nonostante tutto, un lavoro che le permettess...
19/06/2025

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“Amava i bambini e sognava, nonostante tutto, un lavoro che le permettesse di coniugare passione e necessità. Claudia - chiameremo così questa donna per proteggerne l'identità - aveva una vita complessa: tre figli, uno dei quali con una disabilità, e un marito con un lavoro precario. Eppure non si è mai arresa. Volontaria per anni in una struttura dedicata all'infanzia, si era fatta notare per la sua creatività, la sua dolcezza, e quella naturale capacità di entrare in empatia con i più piccoli.
Quando finalmente ottenne un impiego stabile nel centro per minori in cui era volontaria, affiliato a una delle più grandi organizzazioni in difesa dell'infanzia, sembrava che la vita avesse finalmente preso la giusta direzione. Ma dietro quel contratto e quelle pareti colorate, la sua vocazione fu tradita.
Il desiderio di restare, di non perdere ciò che aveva faticosamente costruito, la rese vulnerabile. E la sua vulnerabilità divenne l'innesco di un processo subdolo, invisibile e corrosivo: il mobbing.
Il mobbing è una forma di violenza psicologica sistematica esercitata sul luogo di lavoro. Non si manifesta attraverso gesti eclatanti, ma con azioni sottili, ripetute, persistenti. Le vittime spesso faticano a riconoscerlo, e quando lo fanno, è già troppo tardi. Il termine, introdotto dallo psicologo tedesco Heinz Leymann negli anni '80, definisce un insieme di comportamenti ostili messi in atto da uno o più individui nei confronti di un lavoratore, con l'intento (spesso inconsapevole) di escluderlo, isolarlo, delegittimarlo.
Secondo Leymann, il mobbing si struttura in quattro fasi: la fase del conflitto latente, in cui si comincia a percepire tensione, ma non si è ancora consapevoli della direzione che sta prendendo la situazione; fase di mobbing vero e proprio, in cui cominciano atti sistematici di umiliazione, isolamento, sovraccarico o svuotamento di mansioni; fase del coinvolgimento delle risorse umane, in cui l'organizzazione, spesso inconsapevolmente, inizia a schierarsi contro la vittima; fase di espulsione, in cui il lavoratore, esausto e delegittimato, è costretto ad abbandonare il posto di lavoro.
Claudia visse ogni passaggio. Dapprima il carico di lavoro eccessivo, poi le minacce celate, la messa in discussione pubblica del suo operato, fino all'isolamento sociale all'interno della struttura. I suoi tentativi di chiedere aiuto ai vertici dell'organizzazione rimasero inascoltati. Un silenzio assordante, che spesso accompagna le vittime del mobbing, soprattutto quando gli autori occupano posizioni di potere.
Le conseguenze psicologiche del mobbing sono devastanti. Ansia, insonnia, depressione, attacchi di panico, disturbi psicosomatici, perdita dell'autostima. La vittima si convince di non valere, di essere davvero inadeguata, sbagliata. Nei casi più gravi si arriva al disturbo da stress post-traumatico (PTSD), lo stesso diagnosticato nei reduci di guerra.
Il mobbing è come un "omicidio dell'identità professionale". L'individuo non solo perde il lavoro, ma si vede rubare la propria dignità, la propria immagine di sé. Per persone come Claudia, il cui lavoro era parte integrante della loro realizzazione personale e valoriale, l'effetto è doppiamente devastante.
Forse l'aspetto più inquietante della storia di Claudia è il contesto in cui si è verificata: un'organizzazione che si proclama paladina dei diritti dei minori, ma che ha chiuso gli occhi d fronte alla sofferenza di una sua operatrice. É qui che il mobbing si trasforma in una ferita collettiva, che coinvolge non solo la vittima, ma l'intera comunità educativa e, indirettamente, anche i bambini destinatari del suo lavoro.
Il paradosso è evidente: un'organizzazione nata per proteggere gli indifesi ha fallito nel proteggere chi si prendeva cura degli indifesi. In questo silenzio, il danno diventa sistemico.
Claudia ha lasciato quel posto di lavoro. Ha lasciato i bambini, le famiglie, la sua missione.
Ha tentato la strada della giustizia legale, ma si è scontrata contro il muro dell'impunità e della sproporzione di potere.
La sua storia è una denuncia e un monito. Il mobbing non è un problema individuale: è un fallimento organizzativo, culturale ed etico. Riconoscerlo, nominarlo, contrastarlo non è solo un dovere legale, ma una responsabilità umana.
Raccontare storie come quella di Claudia non è solo cronaca: è un atto di resistenza civile.
Perché ogni voce che si alza contro l'abuso rompe il silenzio che lo alimenta. E in quel silenzio, troppo spesso, ci perdiamo le Claudie del nostro tempo.”

Lo trovi completo qui 👉🏻 https://online.flippingbook.com/view/618318258/22/

Come scegli di reagire durante un duro periodo o dopo un evento spiacevole❓La vita è fatta di scelte e la nostra reazion...
18/06/2025

Come scegli di reagire durante un duro periodo o dopo un evento spiacevole❓

La vita è fatta di scelte e la nostra reazione agli eventi é fondamentale per prendere quelle giuste.

Leggi il mio focus e poi fammi sapere come, di solito, reagisci.

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12/06/2025

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“C’è un momento, ogni anno, in cui tutto sembra sospendersi. Le scuole chiudono, gli impegni si diradano, le città si svuotano sotto il sole implacabile. In molte zone del Sud Italia - ma non solo - l'estate porta con sé una pausa collettiva: rallentano i ritmi, cambiano le abitudini, si interrompe quella routine che, per mesi, ci ha tenuti in carreggiata. E proprio lì, nel silenzio di giornate più lente, può farsi spazio qualcosa di inaspettato: un senso di vuoto. Non è solo questione di noia o di avere troppo tempo libero. È qualcosa di più sottile e profondo. Quando il fare si ferma, può emergere una domanda che molti di noi evitano per tutto l'anno: chi sono, se non sto facendo qualcosa?
Nel mio lavoro con atleti professionisti, soprattutto nel mondo del calcio, osservo spesso questo fenomeno. Alla fine della stagione sportiva, dopo mesi di allenamenti, partite e pressioni costanti, arriva un periodo di stop. All'esterno potrebbe sembrare una pausa meritata. Ma per molti atleti non è affatto un tempo di pace: è un tempo pieno di incertezze, di ansia, di domande.
La mente non si ferma insieme al corpo. E nel vuoto lasciato dall'assenza di stimoli, può emergere una sensazione di disorientamento: e adesso?, si chiedono. Cosa succederà?
Verrò riconfermato? Troverò una
nuova squadra? E, soprattutto: chi sono io, se non sto giocando?
Ma non sono solo gli sportivi ad affrontare queste sensazioni. Accade a tutti, prima o poi. Succede dopo la fine di una relazione.
Dopo un licenziamento. Durante una malat-tia. All'inizio della pensione. Tutti momenti in cui la vita perde struttura, e il fare quotidiano non basta più a sostenere il senso di identità.
In psicologia si parla di vuoto esistenziale o deserto interiore: uno stato in cui la persona non riesce più a sentire chiaramente cosa desidera, cosa prova, cosa la muove davvero.
Non è semplice tristezza, e nemmeno solo solitudine. È come se mancasse un centro di gravità dentro di noi.
Il vuoto ci spaventa. Per questo impariamo a evitarlo. Lo copriamo con social, serie TV, shopping, scroll compulsivo, videogiochi, lavoro. Anche attività apparentemente sane, come lo sport o lo studio, possono diventare un modo per non stare in contatto con ciò che sentiamo davvero.
Durante l'estate, questo meccanismo diventa ancora più evidente: l'uso dei dispositivi digitali aumenta, il cellulare diventa un'estensione della mano, i social un sottofondo costante. È una strategia di distrazione funzionale. Ma evitare un'emozione non significa superarla: spesso, la rende più rumorosa nel tempo.
Molti atleti, nel vuoto dell'estate, sperimentano irritabilità, insonnia, calo dell'umore.
C'è chi si rifugia nei videogiochi, chi cerca stimoli continui nei locali o sui social. Sono
tentativi umani, comprensibili. Ma raramente portano sollievo duraturo, perché non affrontano la radice del disagio: la perdita di contatto con sé stessi.
E questa dinamica, in fondo, ci riguarda tutti.
Ogni volta che qualcosa si ferma, un ciclo, una stagione, una relazione, il rischio è quello di cercare subito qualcosa da fare per non sentire il vuoto. Ma forse, la sfida più importante è imparare a stare. A guardare dentro, invece che cercare fuori.
Il vuoto spaventa, è vero. Ma può essere anche un'opportunità. È nello spazio lasciato libero dalle vecchie abitudini che può emergere qualcosa di nuovo: un desiderio autentico, un bisogno trascurato, una parte di sé rimasta in silenzio troppo a lungo.
L'estate, con il suo rallentare, ci offre una possibilità rara: ascoltarci davvero. Non è facile, né immediato. Ma è proprio nel silenzio che si può tornare a sentire. E forse, a riscoprire chi siamo davvero al di là di ciò che facciamo.”

La vittoria di Alcaraz contro Sinner è il risultato di una preparazione meticolosa. Preparazione atletica, forza mentale...
10/06/2025

La vittoria di Alcaraz contro Sinner è il risultato di una preparazione meticolosa. Preparazione atletica, forza mentale e fisica si sono unite per dare vita a una performance straordinaria. Un giovane talento che continuerà a sorprenderci! 💪🎾

Questi, secondo me, tre fattori chiave che hanno contribuito alla vittoria!

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05/06/2025

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La morte di Martina Carbonaro, una giovane ragazza di soli 14 anni, ha scosso profondamente l'opinione pubblica, portando alla luce le difficoltà emotive e psicologiche che molti adolescenti si trovano ad affrontare durante le prime esperienze amorose. Questa tragedia, che ha visto la morte della ragazza per mano di Alessio Tucci, un giovane di 19 anni, ha suscitato un dibattito pubblico su vari livelli. La comprensione delle dinamiche psicologiche che influenzano i comportamenti giovanili è cruciale per prevenire simili tragedie, e questa vicenda ci obbliga a riflettere non solo sulle difficoltà degli adolescenti, ma anche sul ruolo fondamentale che i genitori, come modelli di riferimento, giocano nel processo di sviluppo emotivo dei figli.
Le relazioni durante l'adolescenza sono spesso caratterizzate da una forte intensità emotiva, che può essere difficile da gestire. Le prime esperienze sentimentali, purtroppo, non sempre sono guidate dalla consapevolezza e dalla maturità necessarie per affrontare i complessi vissuti che ne derivano. Gli adolescenti, ancora in fase di formazione della propria identità, tendono a vivere i loro sentimenti in maniera estremamente intensa, ma talvolta anche impulsiva, e priva di una guida adulta che possa aiutarli a comprendere e contenere le emozioni. L'adolescenza rappresenta una fase critica per la formazione dell’identità, un periodo in cui i giovani affrontano la
"crisi dell'identità vs. confusione di ruolo". Durante questa fase, i ragazzi tendono a cercare un equilibrio tra l'individualità e la necessità di appartenere a un gruppo sociale, e le prime esperienze amorose giocano un ruolo importante nel processo di sviluppo dell'identità. Martina, che ha iniziato la sua relazione a sol 12 anni, rappresenta un esempio delle sfide che gli adolescenti affrontano in questa fase. I primi legami affettivi che i bambini e gli adolescenti stabiliscono con le figure di riferimento, come i genitori, influenzano profondamente il modo in cui svilupperanno le loro relazioni intime. Un attaccamento sicuro, che si costruisce attraverso una cura coerente e affettuosa, favorisce una maggiore sicurezza nelle proprie relazioni future. Tuttavia, in assenza di una guida solida o in presenza di attaccamenti insicuri, i giovani possono manifestare difficoltà nell'affrontare le emozioni complesse che emergono nelle loro prime esperienze amorose. In questo caso, non possiamo fare a meno di riflettere su come il contesto familiare e sociale di Martina abbia influito sulla sua capacità di gestire questa relazione.
Il ruolo dei genitori, quindi, diventa centrale: non solo come sostegno emotivo, ma anche come modelli di riferimento per la gestione delle emozioni e dei conflitti relazionali. I genitori rappresentano le prime figure a cui i bambini e gli adolescenti si rivolgono per imparare a gestire le emozioni. L'osservazione e l'interazione con modelli familiari affettuosi e stabili contribuiscono significativamente alla formazione di un attaccamento sicuro. Se i genitori non sono in grado di offrire un supporto emotivo solido o di trasmettere modelli sani di relazioni, i giovani possono trovarsi a fronteggiare difficoltà nella regolazione emotiva e nella gestione delle loro realzioni.
Tuttavia, oltre ai modelli familiari, un altro aspetto che non può essere trascurato è l'influenza dei media e dei social media sulle generazioni più giovani. Oggi, infatti, i giovanissimi sono quotidianamente esposti a modelli di relazione spesso fuorvianti, proposti dai social network e dai media mainstream. Le piattaforme social, come Instagram, Tik lok e altri, presentano una visione dell'amore e delle relazioni che, purtroppo, è spesso superficiale, idealizzata e, in alcuni casi, tossica. Celebri influencer e personaggi pubblici promuovono, talvolta inconsapevolmente, dinamiche di possesso, gelosia e comportamenti romantici estremi come segno di affetto, rafforzando l'idea che l'intensità emotiva sia sinonimo di amore vero. Questi modelli distorti, che si mescolano con le aspettative che i giovani si pongono su se stessi e sugli altri, possono spingere gli adolescenti a cercare relazioni che non sono in grado di gestire emotivamente.
Le relazioni amorose precoci possono essere vissute come un'opportunità di crescita, ma pongono anche interrogativi sulla maturità emotiva degli adolescenti. Gli adolescenti non sono completamente in grado di regolare le proprie emozioni e impulsi a causa del continuo sviluppo del loro cervello. In particolare, la corteccia prefrontale, responsabile della pianificazione, della presa di decisioni e del controllo degli impulsi, non è
ancora completamente sviluppata fino a circa 25 anni. Ciò significa che gli adolescenti, possono essere particolarmente vulnerabili a comporta menti impulsivi e alla difficoltà nel gestire conflitti emotivi all'interno delle relazioni.
Martina ha vissuto un'esperienza relazionale che ha avuto inizio all'età di 12 anni, un'età in cui i giovani sono ancora lontani dal possedere una piena maturita emotiva necessaria per affrontare le complessità di un legame sentimentale. Le ricerche indicano che l'amore adolescenziale è caratterizzato da un'intensità emotiva che può facilmente sfuggire di mano, soprattutto quando sono coinvolti sentimenti di gelosia e possesso.
Secondo il modello di "intelligenza emotiva" proposto da Daniel Goleman, la capacità di riconoscere, comprendere e regolare le proprie emozioni è essenziale per evitare reazioni impulsive in momenti di stress emotivo. Quando i giovani non sono adeguatamente equipaggiati per gestire le proprie emozioni, i risultati possono essere devastanti. In parallelo, questa tragedia pone un interrogativo sulla responsabilità della famiglia, della scuola e della società. Le istituzioni educative e familiari dovrebbero svolgere un ruolo cruciale nell'accompagnare i giovani verso un'educazione affettiva che non si limiti solo all'insegnamento dei "diritti" e dei "doveri" in una relazione, ma che promuova una consapevolezza emotiva e relazionale più profonda. Il concetto di "amore sano" dovrebbe essere parte integrante del percorso formativo degli adolescenti, ma troppo spesso questo non accade. Il supporto sociale e l'autoefficacia emotiva sono fondamentali per il benessere degli adolescenti, poiché influenzano la loro capacità di affrontare le difficoltà nelle relazioni e nel loro sviluppo personale.
Alessio Tucci, l'autore di questo omicidio, è un giovane di 19 anni, ma la sua giovinezza non ha impedito la sua discesa in un abisso emotivo che lo ha portato ad agire con violenza. La frustrazione e l'incapacità di gestire emozioni intense possono portare a espressioni violente. Alessio, purtroppo, sembra non aver avuto gli strumenti per fronteggiare il rifiuto e la delusione sentimentale in modo sano.
La morte di Martina non deve essere solo un caso di cronaca nera, ma un monito per tutti noi, perché le relazioni adolescenziali, purtroppo, troppo spesso possono sfuggire di mano finendo tragicamente. Le emozioni, quando non sono comprese, possono diventare devastanti.
La responsabilità collettiva, tra famiglia, scuola e istituzioni, deve essere quella di dare ai giovani gli strumenti per comprendere, rispettare e vivere le loro emozioni in modo sano, con il fondamentale supporto dei genitori, che devono essere modelli positivi nell'insegnamento della gestione emotiva.

Ora tocca a te!Un percorso importante e una caduta, sul più bello, decisamente fragorosa. Perché l’Inter ha subito una s...
04/06/2025

Ora tocca a te!

Un percorso importante e una caduta, sul più bello, decisamente fragorosa.

Perché l’Inter ha subito una sconfitta così pesante?

Dimmelo nei commenti 👇🏻

Ogni trauma o delusione ci offre la possibilità di ricostruire e crescere. Il focus di oggi é dedicato alla resilienza p...
31/05/2025

Ogni trauma o delusione ci offre la possibilità di ricostruire e crescere.

Il focus di oggi é dedicato alla resilienza post-traumatica.

Buona lettura. Ah! Se ti va puoi raccontarmi la tua esperienza.

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29/05/2025

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"Se mi bocciano mio padre mi uccide!" - "Se non raggiungo la sufficienza passerò l'estate a studiare e sarà un incubo!" - "Se mi bocciano mollo tutto e vado a lavorare!" Sono frasi forti, a volte pronunciate per provocazione, ma sempre intrise di un'emozione vera. Chi lavora con gli adolescenti le sente spesso, soprattutto a fine anno scolastico, quando i voti stanno per essere consegnati e l'aria si fa pesante. Io le ascolto da tempo, in qualità di psicologo scolastico impegnato in vari istituti superiori, spesso nell'ambito di progetti di contrasto alla dispersione scolastica. È un privilegio, ma anche una responsabilità enorme. Proprio in questi giorni, mentre si chiudono i registri e si comincia a parlare di promozioni e bocciature, si apre nei ragazzi (e nei genitori) una vera e propria tempesta emotiva: ansia, frustrazione, rabbia, paura, ma anche sollievo e speranza.
Il voto, che dovrebbe essere uno strumento di valutazione, si trasforma facilmente in un giudizio identitario. Non è raro sentire studenti dire: "Ho preso un quattro, quindi sono un fallito". È un meccanismo che si radica soprattutto in adolescenza, quando l'autostima è ancora fragile e in costruzione. Il rischio è che un numero scritto sul registro venga percepito non come un'indicazione sul rendimento scolastico, ma come un'etichetta definitiva sulla propria persona. Così, la paura del fallimento genera ansia. l'ansia blocca la motivazione, e il blocco diventa un fallimento annunciato.
In psicologia, questo fenomeno è stato studiato approfonditamente da Carol Dweck, autrice della teoria del "mindset". Secondo Dweck, le persone con una "mentalità fissa" credono che le proprie capacità siano innate e immutabili, e per questo temono l'errore.
Chi invece sviluppa una "mentalità di crescita" sa che può imparare anche dai fallimenti e affronta le sfide con maggiore
flessibilità e fiducia. È una lezione preziosa, che dovrebbe attraversare l'intero sistema educativo.
Ma cosa accade, invece, quando la bocciatura arriva davvero? È un evento che scuote profondamente. Alcuni ragazzi provano un senso di liberazione, altri si chiudono in sé stessi, altri ancora si arrabbiano o si deprimono. In ogni caso, la bocciatura non è mai solo scolastica: è anche familiare, sociale, emotiva. Il giudizio dei genitori pesa moltissimo, così come quello degli amici, degli insegnanti, della comunità. E spesso, in questi momenti, affiora un sentimento antico e potente: il senso di colpa.
Il grande psicoanalista britannico Donald Winnicott ci aiuta a comprenderlo meglio. Per Winnicott, il senso di colpa non è solo una conseguenza negativa, ma un segno di crescita. Si manifesta quando il bambino o l'adolescente riconosce l'altro - il genitore, l'insegnante, la figura affettiva - come una persona distinta, che può essere ferita o delusa dalle sue azioni. In questo riconoscimento nasce la spinta a riparare, a prendersi cura della relazione. Un ragazzo che dice "Mi dispiace di non aver ascoltato" o "Avrei potuto fare di più" sta mostrando maturazione, non debolezza. È un segno di responsabilità, non di fragilità.
Naturalmente, per vivere il senso di colpa in modo costruttivo, è necessario che ci sia un ambiente affettivo che lo permetta. Se il ragazzo si sente umiliato, svalutato, punito duramente, non si pentirà: si chiuderà.
Il senso di colpa, invece, va accolto, contenuto, ascoltato. Genitori e insegnanti, in questo, hanno un ruolo fondamentale. Le parole contano. Dire "sei svogliato" o "non sei portato" non aiuta a riflettere, ma affossa e possono creare distanza incolmabili.
E' più utile usare espressioni come: "Hai fatto fatica, proviamo a capire insieme perché". Accogliere l'errore come parte del processo di crescita, non come una macchia indelebile, è il primo passo per aiutare davvero un ragazzo a rimettersi in piedi.
In fondo, non tutti maturano allo stesso ritmo.
A volte un anno in più può essere un'occasione preziosa per rallentare, riorganizzarsi, recuperare fiducia. Purché non venga vissuto come una punizione, ma come una nuova possibilità. Forse è arrivato il momento di porci una domanda collettiva: vogliamo una scuola che misura o una scuola che educa? Che punisce o che accompagna? Una scuola centrata solo sui voti produce adulti insicuri, ansiosi, incapaci di affrontare l'errore. Una scuola della crescita, invece, insegna che ogni errore è un'opportunità. Che fallire non significa essere sbagliati, ma avere ancora qualcosa da
Come ha scritto il pedagogista Franco Cambi, "Educare non significa adattare il ragazzo alla scuola, ma la scuola al ragazzo". Ed è da qui che dobbiamo ripartire. Se vostro figlio è stato bocciato, non chiedetevi subito cosa ha sbagliato. Chiedetevi di cosa ha bisogno adesso per crescere. E se siete insegnanti, ricordate che ogni voto è anche un messaggio: chiedetevi che tipo di messaggio volete trasmettere. E ai ragazzi, vorrei dire: nessun voto definisce chi siete. Il vostro valore non si misura in decimi. Le vacanze che stanno arrivando possono diventare un tempo prezioso per ricostruire fiducia, per ripensare gli obiettivi, per tornare a settembre con uno sguardo più libero, più forte, più consapevole. Perché ogni errore, se accolto con cura, può davvero diventare il primo passo verso un cambiamento profondo.”

Indirizzo

Via Plinio N°10
Brindisi
72100

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