31/05/2025
Lo Yoga Sutra definisce santosha (il secondo niyama) come la rinuncia a soddisfare i desideri che nascono continuamente dentro di noi, in quanto compiacere ogni impulso di questo tipo, ogni brama, ogni passione richiede l’impiego continuo di mezzi, di energie, di risorse in vista della gratificazione che pensiamo di poter così conseguire. Questa prescrizione, che ci esorta a inibire la naturale propensione per il mondo sensibile, mira a evitare l’asservimento a tale dimensione, condizione che distoglierebbe lo yogin dalla sua pratica d’introspezione che culminerà nel pratyahara, ponendo le basi per la meditazione.
Tale rinuncia non è considerata però una costrizione, ma come la logica conseguenza della consapevolezza dell’inutilità di questa continua ricerca della propria gratificazione, reiterata nella speranza che l’ultima cosa desiderata sia risolutiva, che sia quella che ci garantirà un appagamento definitivo; purtroppo non è così perché un desiderio ne attiva un altro, determinando una corsa senza fine verso traguardi che si moltiplicano in continuazione; al contrario, una volta che venga meno la brama che alimenta tali desideri, sorge nell’uomo una grande gioia grazie alla predominanza di sattva nella sua mente: “A santosha segue la più grande felicità” (Yoga Sutra II,42)
Una grande serenità che non è dovuta al possesso di questo o di quell’oggetto, alla realizzazione di questo o di quel desiderio, ma è una gioia profonda fatta di quiete, di pace, di appagamento della propria attuale condizione.
Anche la Bhagavad Gita analizza in profondità questo argomento, mettendo in guardia lo yogin dai pericoli derivanti dall’incontinenza:
“Colui in cui penetrano tutti i desideri così come le acque (dei fiumi) confluiscono nel mare, che pur riempiendosi mantiene inalterato il suo livello, costui raggiunge la pace; non è così invece per chi è in preda ai desideri.” (II,70)