Dott. Antonio Molinari - Biologo Nutrizionista

Dott. Antonio Molinari - Biologo Nutrizionista NUTRIZIONISTA

💊🧠 CARNITINA E PATOLOGIE NEUROLOGICHE: BENEFICI E RISCHILa carnitina, e in particolare la sua forma acetilata (acetil-L-...
19/08/2025

💊🧠 CARNITINA E PATOLOGIE NEUROLOGICHE: BENEFICI E RISCHI

La carnitina, e in particolare la sua forma acetilata (acetil-L-carnitina o ALC), rappresenta una molecola di crescente interesse nell'ambito delle neuroscienze per il suo ruolo nel metabolismo energetico cellulare e le sue proprietà neuroprotettive. Questo composto, derivato dall'aminoacido lisina e sintetizzato principalmente nel fegato, nei reni e nel cervello, svolge funzioni cruciali nel trasporto degli acidi grassi a catena lunga all'interno dei mitocondri per la beta-ossidazione. Nel contesto delle patologie neurologiche, l'acetil-L-carnitina ha dimostrato particolare interesse per la sua capacità di attraversare la barriera emato-encefalica e di esercitare effetti specifici sul tessuto nervoso.

L'acetil-L-carnitina esercita i suoi effetti neuroprotettivi attraverso molteplici meccanismi molecolari. La sua struttura chimica le consente di fungere da carrier di gruppi acetilici attraverso le membrane mitocondriali interne, facilitando la produzione di acetil-coenzima A, substrato essenziale per il ciclo di Krebs e per la sintesi dell'acetilcolina. Questo meccanismo è particolarmente rilevante nelle patologie neurodegenerative caratterizzate da deficit colinergico, come la malattia di Alzheimer.

L'azione citoprotettiva dell'ALC si manifesta inoltre attraverso la stabilizzazione delle membrane cellulari, l'incremento della sintesi proteica neuronale e la modulazione dell'attivazione di fattori di trascrizione coinvolti nella sopravvivenza neuronale.

⭕️ Gli studi preclinici hanno evidenziato che l'acetil-L-carnitina può influenzare positivamente il metabolismo energetico neuronale, particolarmente compromesso nelle condizioni neurodegenerative. La molecola dimostra proprietà antiossidanti significative, contribuendo alla riduzione dello stress ossidativo che caratterizza molte patologie neurologiche. Inoltre, l'ALC modula la sintesi di neurotrasmettitori, in particolare dell'acetilcolina, attraverso la fornitura di gruppi acetilici per la sua biosintesi, meccanismo che potrebbe spiegare parte degli effetti cognitivi osservati negli studi clinici.

Le evidenze relative all'utilizzo dell'acetil-L-carnitina nella malattia di Alzheimer presentano un quadro complesso e talvolta contraddittorio. Studi clinici controllati degli anni '90 hanno mostrato risultati promettenti, con miglioramenti significativi in scale cognitive e comportamentali. Tuttavia, una revisione sistematica Cochrane del 2003 ha concluso che "non esistono evidenze di beneficio dell'ALC nelle aree della cognizione, gravità della demenza, capacità funzionale". Questa discrepanza tra i primi studi positivi e le successive revisioni sistematiche riflette la complessità metodologica degli studi clinici in ambito neurologico e le difficoltà nell'identificazione di popolazioni omogenee di pazienti.

🔎 Un'analisi più recente del 2020 ha fornito un aggiornamento critico sulla letteratura disponibile, evidenziando che "diversi studi hanno esplorato gli effetti dell'acetil-L-carnitina nella demenza, suggerendo un ruolo nel rallentamento del declino cognitivo", pur riconoscendo che le evidenze rimangono insufficienti per raccomandazioni cliniche definitive. Gli studi più recenti hanno utilizzato dosaggi compresi tra 2-3 grammi al giorno per periodi di sei mesi fino a un anno, con risultati variabili che potrebbero dipendere da fattori quali il grado di severità della malattia, la durata del trattamento e le caratteristiche individuali dei pazienti.

L'acetil-L-carnitina ha mostrato risultati particolarmente interessanti nel trattamento delle neuropatie periferiche, specialmente quelle associate al diabete e alla chemioterapia. Le neuropatie periferiche colpiscono oltre 4 milioni di italiani, manifestandosi con parestesia, dolore, intorpidimento e perdita della sensibilità. Gli studi clinici hanno evidenziato che l'ALC può ridurre significativamente il dolore neuropatico e migliorare la conduzione nervosa periferica. Il meccanismo d'azione in questo contesto sembra essere correlato alla capacità della molecola di promuovere la rigenerazione assonale e di mantenere l'integrità delle membrane nervose.

🔹 Particolarmente rilevanti sono gli studi che hanno valutato l'efficacia dell'acetil-L-carnitina nelle neuropatie indotte da chemioterapici, dove la supplementazione ha dimostrato di ridurre l'incidenza e la severità dei sintomi neuropatici senza interferire con l'efficacia antitumorale dei trattamenti. Questi risultati suggeriscono un potenziale ruolo preventivo dell'ALC nel mantenimento della funzione nervosa periferica durante trattamenti neurotossici.

L'utilizzo dell'acetil-L-carnitina si estende a diverse altre condizioni neurologiche. L'azione citoprotettiva si è rivelata efficace in corso di patologie neurodegenerative come le neuropatie, la sindrome di Down e la demenza senile. Negli studi sulla sclerosi multipla, l'ALC ha mostrato benefici nella gestione della fatica, sintomo invalidante che caratterizza questa patologia autoimmune. La molecola sembra migliorare il metabolismo energetico dei neuroni demielinizzati, contribuendo al mantenimento della funzione neuronale in condizioni di stress metabolico.

L'interesse per l'acetil-L-carnitina si sta estendendo anche al trattamento dei disturbi dell'umore, con utilizzi per migliorare la memoria e le capacità di pensiero, trattare i sintomi della depressione. Gli studi preliminari suggeriscono che l'ALC possa modulare i circuiti neurali coinvolti nella regolazione dell'umore attraverso meccanismi che includono l'ottimizzazione del metabolismo energetico neuronale e la modulazione della plasticità sinaptica.

⚠️ L'utilizzo clinico della carnitina è complicato dal fatto che la molecola può essere convertita, in vari passaggi, in trimetilammina-N-ossido (TMAO), un metabolita che presenta significativi rischi cardiovascolari. Il metabolismo dovuto ai microrganismi intestinali di L-carnitina introdotta per via orale produce TMAO e accelera l'aterosclerosi. Il processo metabolico inizia con la conversione batterica della carnitina in trimetilammina (TMA) a livello intestinale, seguita dalla sua ossidazione epatica a TMAO attraverso l'enzima flavina monoossigenasi 3 (FMO3).

Studi degli ultimi 10 anni suggeriscono che elevati livelli di TMAO nel sangue sono associati ad un aumentato rischio di eventi avversi cardiovascolari maggiori come infarti e ictus. TMAO esercita i suoi effetti pro-aterogeni attraverso molteplici meccanismi: favorisce il legame tra LDL ossidate e cellule schiumose, influenza il metabolismo di colesterolo e acidi biliari e la secrezione di citochine infiammatorie. Questi meccanismi convergono nella promozione della formazione e progressione della placca aterosclerotica.

La ricerca italiana ha confermato che la TMAO, se elevata, aumenta il rischio di eventi cardiovascolari del 60% circa, indipendentemente dai fattori di rischio cardiovascolare tradizionali. Questa evidenza ha importanti implicazioni per l'utilizzo terapeutico della carnitina, richiedendo una valutazione attenta del rapporto rischio-beneficio, particolarmente in pazienti con fattori di rischio cardiovascolare preesistenti.

👨🏻‍⚕️ Pertanto l’utilizzo terapeutico dell'acetil-L-carnitina nelle patologie neurologiche richiede una valutazione individualizzata che consideri il profilo di rischio cardiovascolare del paziente, la composizione del microbiota intestinale e la severità della condizione neurologica. L'uso di L-carnitina dovrebbe essere strettamente supervisionato in caso di patologie cardiovascolari, neurologiche, psichiatriche. La selezione dei pazienti candidati alla terapia dovrebbe includere una valutazione dei livelli basali di TMAO e dei fattori di rischio cardiovascolare.
Le strategie di monitoraggio dovrebbero includere controlli periodici dei livelli plasmatici di TMAO, particolarmente nei primi mesi di terapia, per identificare pazienti ad alto rischio di produzione del metabolita. L'integrazione con approcci nutrizionali mirati, inclusa la riduzione dell'apporto di precursori di TMAO e l'ottimizzazione del microbiota intestinale, rappresenta una componente essenziale del protocollo terapeutico. La durata ottimale del trattamento rimane da definire, ma gli studi clinici suggeriscono benefici con trattamenti prolungati di 6-12 mesi.

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📌 PER APPROFONDIRE:

📚 Hudson S, Tabet N. Acetyl-L-carnitine for dementia. Cochrane Database Syst Rev. 2003;(2):CD003158.

📚 Pettegrew JW, Levine J, McClure RJ. Acetyl-L-carnitine physical-chemical, metabolic, and therapeutic properties: relevance for its mode of action in Alzheimer's disease and geriatric depression. Mol Psychiatry. 2000;5(6):616-632.

📚 Sano M, Bell K, Cote L, et al. Double-blind parallel design pilot study of acetyl levocarnitine in patients with Alzheimer's disease. Arch Neurol. 1992;49(11):1137-1141.

📚 Spagnoli A, Lucca U, Menasce G, et al. Long-term acetyl-L-carnitine treatment in Alzheimer's disease. Neurology. 1991;41(11):1726-1732.

📚 Koeth RA, Wang Z, Levison BS, et al. Intestinal microbiota metabolism of L-carnitine, a nutrient in red meat, promotes atherosclerosis. Nat Med. 2013;19(5):576-585.

📚 Wang Z, Klipfell E, Bennett BJ, et al. Gut flora metabolism of phosphatidylcholine promotes cardiovascular disease. Nature. 2011;472(7341):57-63.

📚 Tang WH, Wang Z, Levison BS, et al. Intestinal microbial metabolism of phosphatidylcholine and cardiovascular risk. N Engl J Med. 2013;368(17):1575-1584.

📚 Senthong V, Li XS, Hudec T, et al. Plasma trimethylamine N-oxide, a gut microbe-generated phosphatidylcholine metabolite, is associated with atherosclerotic burden. J Am Coll Cardiol. 2016;67(22):2620-2628.

📚 Roberts AB, Gu X, Buffa JA, et al. Development of a gut microbe-targeted nonlethal therapeutic to inhibit thrombosis potential. Nat Med. 2018;24(9):1407-1417.

📚 Malaguarnera M. Acetyl-L-carnitine in hepatic encephalopathy. Metab Brain Dis. 2013;28(2):193-199.

⚠️ SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO: ALIMENTAZIONE E INTEGRAZIONELa sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) rappresenta un...
01/08/2025

⚠️ SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO: ALIMENTAZIONE E INTEGRAZIONE

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) rappresenta una delle patologie endocrine più comuni nelle donne in età riproduttiva, con una prevalenza che varia dal 4% al 20% a seconda dei criteri diagnostici utilizzati.

Caratterizzata da un insieme eterogeneo di sintomi e segni clinici, la PCOS si manifesta attraverso irregolarità mestruali, iperandrogenismo e presenza di ovaie policistiche all’ecografia. Tuttavia, il suo impatto si estende ben oltre la sfera riproduttiva, coinvolgendo alterazioni metaboliche, cardiovascolari e psicologiche che richiedono un approccio terapeutico integrato.

⭕️ La gestione della PCOS si avvale di interventi farmacologici, ma sempre più evidenze sottolineano il ruolo cruciale di un’adeguata alimentazione e di un’integrazione alimentare mirata come pilastri fondamentali per migliorare i sintomi e prevenire le complicanze a lungo termine.

Nonostante anni di ricerca, l’eziologia della PCOS rimane complessa e non completamente chiarita. Si tratta di una condizione multifattoriale, in cui fattori genetici, ambientali e ormonali si intrecciano in un’interazione dinamica. Gli studi più recenti suggeriscono che l’insulino-resistenza (IR) giochi un ruolo centrale nella patogenesi della PCOS. L’IR, presente nel 50-75% delle donne con PCOS, porta a un’iperinsulinemia compensatoria che stimola la produzione di androgeni ovarici e surrenali, contribuendo all’iperandrogenismo, uno dei tratti distintivi della sindrome. Questo fenomeno è amplificato da alterazioni nella segnalazione dell’ormone luteinizzante (LH) e da una disfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, che porta ad un aumento del rapporto LH/FSH (ormone follicolo-stimolante), con conseguenti anomalie nell’ovulazione.

Fattori genetici sono stati identificati attraverso studi di associazione genetica su larga scala (GWAS), che hanno evidenziato varianti in geni coinvolti nella sintesi degli androgeni, nella sensibilità insulinica e nella regolazione del ciclo mestruale. Tuttavia, l’espressione di queste predisposizioni genetiche sembra essere fortemente modulata da fattori ambientali, come uno stile di vita sedentario, diete ricche di carboidrati raffinati e obesità. Quest’ultima, presente in circa l’80% delle donne con PCOS, amplifica l’IR e l’iperandrogenismo, creando un circolo vizioso. Inoltre, recenti ricerche hanno ipotizzato un ruolo delle alterazioni del microbiota intestinale nella genesi della PCOS, suggerendo che uno squilibrio nella flora batterica possa contribuire ad infiammazione cronica e disfunzioni metaboliche. Anche l’esposizione agli interferenti endocrini, come i bisfenoli, è stata associata ad un aumento del rischio di sviluppare la sindrome, evidenziando l’importanza dei fattori ambientali.

⚙️ Le conseguenze della PCOS si estendono ben oltre le irregolarità mestruali e l’infertilità, che pure rappresentano preoccupazioni significative. L’iperandrogenismo si manifesta clinicamente con irsutismo, acne e alopecia androgenetica, che possono avere un impatto devastante sull’autostima e sulla qualità della vita. La disfunzione ovulatoria, spesso caratterizzata da cicli oligo-anovulatori, è una delle principali cause di infertilità nelle donne con PCOS, con un rischio aumentato di complicanze in gravidanza, come il diabete gestazionale.

Sul piano metabolico, la PCOS è strettamente associata ad un aumentato rischio di sindrome metabolica, diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. L’infiammazione cronica di basso grado, un tratto comune nella PCOS, contribuisce a queste complicanze, insieme all’IR e alla dislipidemia, spesso caratterizzata da bassi livelli di colesterolo HDL e alti livelli di trigliceridi.

Le conseguenze psicologiche non sono meno rilevanti. Studi recenti hanno dimostrato che le donne con PCOS hanno un rischio significativamente più alto di sviluppare ansia, depressione e disturbi dell’umore, spesso esacerbati dalla stigmatizzazione legata ai sintomi fisici come l’irsutismo o l’obesità. Inoltre, la PCOS è associata ad un aumento del rischio di steatosi epatica non alcolica (NAFLD), una condizione che può evolvere verso forme più gravi di danno epatico. La complessità di queste conseguenze evidenzia la necessità di un approccio olistico, che non si limiti alla gestione dei sintomi riproduttivi, ma affronti anche le implicazioni metaboliche e psicologiche.

Gli effetti fisiologici e biochimici della PCOS sono il risultato di un’interazione complessa tra disregolazione ormonale, infiammazione e alterazioni metaboliche. L’iperandrogenismo, sia clinico che biochimico, è spesso il risultato di un’aumentata produzione di testosterone e androstenedione da parte delle cellule della teca ovarica, stimolate dall’iperinsulinemia e dall’LH. Questo squilibrio ormonale porta ad un arresto dello sviluppo follicolare, con la formazione di cisti ovariche multiple, visibili all’ecografia.

L’IR, un elemento centrale, è associata ad una ridotta sensibilità dei tessuti periferici all’insulina, che porta ad un aumento compensatorio dei livelli circolanti di insulina. Questo fenomeno non solo amplifica la produzione di androgeni, ma contribuisce anche ad un’alterazione del metabolismo del glucosio, con un rischio aumentato di intolleranza al glucosio e diabete di tipo 2.

Dal punto di vista biochimico, le donne con PCOS mostrano spesso un profilo lipidico alterato, con elevati livelli di trigliceridi e colesterolo LDL, e una riduzione del colesterolo HDL. L’infiammazione cronica è un altro aspetto cruciale, con livelli elevati di marcatori infiammatori come la proteina C-reattiva (PCR) e il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α). Questi marcatori contribuiscono al danno endoteliale e al rischio cardiovascolare. Inoltre, lo stress ossidativo, causato da uno squilibrio tra specie reattive dell’ossigeno (ROS) e antiossidanti, è stato identificato come un fattore chiave nella patogenesi della PCOS, esacerbando l’IR e l’iperandrogenismo.

Alterazioni nel microbiota intestinale, come una riduzione della diversità batterica, sono state correlate ad un aumento dell’infiammazione sistemica e a una maggiore gravità dei sintomi.

La gestione della PCOS richiede un approccio integrato, in cui l’alimentazione riveste un ruolo di primaria importanza. Numerose evidenze scientifiche sottolineano che interventi dietetici mirati possono migliorare l’IR, ridurre l’iperandrogenismo, normalizzare il ciclo mestruale e prevenire le complicanze metaboliche a lungo termine.

🍛 La dieta ideale per le donne con PCOS non si limita alla perdita di peso, ma si concentra sulla qualità nutrizionale, sull’indice glicemico (GI) e sul potenziale antinfiammatorio degli alimenti. Le diete a basso indice glicemico si sono dimostrate particolarmente efficaci. Una alimentazione caratterizzata da un’alta assunzione di frutta, verdura, pesce ricco di omega-3 e olio d’oliva, riduce l’infiammazione sistemica e migliora la sensibilità insulinica, come dimostrato da studi pubblicati su Nutrients e Nature Communications.

Le diete a basso contenuto di carboidrati raffinati e ricche di fibre sono particolarmente indicate per le donne con PCOS, poiché riducono i picchi glicemici postprandiali, migliorando la gestione del glucosio e riducono i livelli di insulina circolante. Uno studio pubblicato su Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism ha dimostrato che una dieta ipocalorica a basso indice glicemico, combinata con un’adeguata assunzione di fibre, può migliorare la regolarità mestruale e ridurre i livelli di testosterone libero.

Inoltre, diete ricche di acidi grassi polinsaturi (PUFA), come gli omega-3 presenti in pesce grasso, noci e semi di lino, hanno proprietà antinfiammatorie che possono attenuare l’infiammazione cronica associata alla PCOS. Una revisione sistematica pubblicata su Cochrane Database of Systematic Reviews ha evidenziato che diete ricche di PUFA migliorano il profilo lipidico e riducono i livelli di androgeni, offrendo benefici sia metabolici che riproduttivi.

🔷 Un aspetto cruciale è la personalizzazione della dieta. Sebbene la perdita di peso del 5-10% sia raccomandata per le donne con PCOS in sovrappeso o obese, anche le donne normopeso con PCOS (“lean PCOS”) traggono beneficio da diete che migliorano la sensibilità insulinica e riducono l’infiammazione. Ad esempio, uno studio su Reproductive Medicine Biology ha dimostrato che diete ipocaloriche, associate ad un aumento dell’attività fisica, migliorano i parametri antropometrici e ormonali anche in assenza di una significativa perdita di peso. È importante sottolineare che diete troppo restrittive, come il digiuno intermittente, potrebbero non essere ideali per tutte le pazienti con PCOS, poiché possono portare ad un consumo calorico eccessivo durante le finestre di alimentazione, come evidenziato da un articolo su Johns Hopkins Medicine.

L’integrazione alimentare rappresenta un complemento essenziale alla dieta nella gestione della PCOS, con numerosi studi che ne evidenziano i benefici. Tra gli integratori più studiati troviamo l’inositolo, in particolare il myo-inositolo (MI) e il D-chiro-inositolo (DCI), che svolgono un ruolo chiave nella segnalazione insulinica e nella sintesi degli androgeni. Una revisione su BMC Endocrine Disorders ha dimostrato che una combinazione di MI e DCI in un rapporto di 40:1 migliora la regolarità mestruale, l’ovulazione e la fertilità, riducendo al contempo l’IR e l’iperandrogenismo. La supplementazione con inositolo è particolarmente efficace nelle donne con PCOS che presentano una carenza di questi composti, spesso associata a un’alterata epimerizzazione dovuta all’iperinsulinemia.

💊 La vitamina D è un altro integratore di grande rilevanza, data l’alta prevalenza di carenza di vitamina D nelle donne con PCOS. Studi pubblicati su European Journal of Nutrition hanno dimostrato che la supplementazione di vitamina D per 4-12 settimane migliora i parametri di omeostasi del glucosio, riduce i livelli di PCR e malondialdeide (MDA), un marcatore di stress ossidativo, e migliora la sensibilità insulinica. Inoltre, la vitamina D ha un ruolo antinfiammatorio e può contribuire a ridurre l’iperandrogenismo, anche se sono necessari ulteriori studi per confermarne l’efficacia su questo aspetto.

Gli antiossidanti, come la N-acetilcisteina (NAC), il coenzima Q10 e il selenio, hanno mostrato promettenti risultati nel ridurre lo stress ossidativo e l’infiammazione. Una revisione su Preventive Nutrition and Food Science ha evidenziato che la supplementazione con selenio migliora i marcatori biochimici, come i livelli di glucosio e insulina a digiuno, nelle donne con PCOS. Il coenzima Q10, combinato con la vitamina E, ha dimostrato effetti benefici sul metabolismo lipidico e sulla funzione ovarica, come riportato in uno studio su Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

I probiotici e i simbiotici, che combinano probiotici e prebiotici, stanno emergendo come una strategia promettente per migliorare il microbiota intestinale, che è spesso alterato nelle donne con PCOS. Una meta-analisi su Journal of International Medical Research ha dimostrato che la supplementazione con probiotici e simbiotici riduce significativamente i livelli di glucosio a digiuno, insulina, HOMA-IR e trigliceridi, migliorando anche i parametri antropometrici come il BMI. Questi effetti sono mediati dalla modulazione dell’infiammazione sistemica e dall’ottimizzazione del metabolismo energetico.

Infine la curcumina, un composto antinfiammatorio derivato dalla curcuma, ha mostrato benefici significativi nella gestione della PCOS. Una revisione sistematica su Nutrients ha evidenziato che la curcumina migliora il controllo glicemico, riducendo i livelli di glucosio e insulina a digiuno, e ha un impatto positivo sul profilo lipidico. Tuttavia, la sua efficacia clinica richiede ulteriori conferme attraverso studi di alta qualità.

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📌 PER APPROFONDIRE:

📚 Barrea, L., et al. (2023). Pathophysiology and Nutritional Approaches in Polycystic O***y Syndrome (PCOS): A Comprehensive Review. *Current Nutrition Reports*

📚 Sanchez-Garrido, M. A., & Tena-Sempere, M. (2020). Metabolic dysfunction in polycystic o***y syndrome: Pathogenic role of androgen excess and potential therapeutic strategies. *Molecular Metabolism*

📚 Yang, J., et al. (2024). The impact of dietary interventions on polycystic o***y syndrome patients with a BMI ≥25 kg/m²: A systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials. *Reproductive Medicine Biology*.

📚 Miao, C., et al. (2021). Effects of probiotic and synbiotic supplementation on insulin resistance in women with polycystic o***y syndrome: a meta-analysis. *Journal of International Medical Research*.

📚 Chien, Y. J., et al. (2021). Effects of Curcumin on Glycemic Control and Lipid Profile in Polycystic O***y Syndrome: Systematic Review with Meta-Analysis and Trial Sequential Analysis. *Nutrients*

📚 Calcaterra, V., et al. (2021). Polycystic O***y Syndrome in Insulin-Resistant Adolescents with Obesity: The Role of Nutrition Therapy and Food Supplements as a Strategy to Protect Fertility. *Nutrients*

📚 Kohlhoff, G., et al. (2024). The effect of vitamin D supplementation on markers of insulin resistance in women with polycystic ovarian syndrome: a systematic review. *European Journal of Nutrition*.

📚 Lim, S. S., et al. (2019). Lifestyle changes in women with polycystic o***y syndrome. *Cochrane Database of Systematic Reviews*

🛑 CATECOLAMINE E LIPOLISILa lipolisi rappresenta uno dei processi metabolici fondamentali attraverso cui l’organismo mob...
21/07/2025

🛑 CATECOLAMINE E LIPOLISI

La lipolisi rappresenta uno dei processi metabolici fondamentali attraverso cui l’organismo mobilita le riserve energetiche accumulate nel tessuto adiposo sotto forma di trigliceridi. Questo processo catabolico, che consiste nella scissione idrolitica dei trigliceridi in glicerolo e acidi grassi liberi, è finemente regolato da complessi meccanismi neuroendocrini che rispondono alle variazioni delle richieste energetiche dell’organismo. Tra i principali modulatori della lipolisi, le catecolamine - noradrenalina, adrenalina e dopamina - rivestono un ruolo cruciale, fungendo da mediatori primari dell’attivazione simpatica del tessuto adiposo e orchestrando la mobilizzazione lipidica in risposta a stimoli fisiologici e patologici.

🔴 Il sistema nervoso simpatico, attraverso il rilascio di catecolamine, rappresenta il principale meccanismo di controllo della lipolisi, particolarmente attivo durante situazioni di stress, digiuno, esercizio fisico ed esposizione al freddo. La comprensione dei meccanismi molecolari attraverso cui le catecolamine modulano la lipolisi è fondamentale non solo per la fisiologia del metabolismo lipidico, ma anche per lo sviluppo di strategie terapeutiche per il trattamento dell’obesità e delle malattie metaboliche correlate.

Il rilascio delle catecolamine avviene attraverso due principali vie: la via neuronale simpatica e la via endocrina mediante le ghiandole surrenali. La noradrenalina viene rilasciata dalle terminazioni nervose simpatiche che innervano direttamente il tessuto adiposo, mentre l’adrenalina è principalmente secreta dalla midollare surrenale in risposta all’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Questo rilascio è finemente regolato dal sistema nervoso centrale, in particolare dall’ipotalamo, che integra segnali provenienti da diversi distretti corporei per modulare l’attivazione simpatica in base alle necessità metaboliche.

Durante il digiuno, i livelli di glucosio ematico diminuiscono, attivando i neuroni ipotalamici che controllano il sistema simpatico. Questo porta ad un aumento del rilascio di noradrenalina dalle terminazioni nervose simpatiche nel tessuto adiposo e di adrenalina dalla midollare surrenale. Similmente, l’esercizio fisico intenso stimola il rilascio di catecolamine attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-simpatico-surrenale, preparando l’organismo alla mobilizzazione rapida delle riserve energetiche. L’esposizione al freddo rappresenta un altro potente stimolo per il rilascio di catecolamine, particolarmente importante per la termogenesi adattiva e la mobilizzazione lipidica necessaria per il mantenimento della temperatura corporea.

🔎 La regolazione del rilascio di catecolamine è influenzata anche da fattori ormonali e metabolici. L’insulina, ad esempio, esercita un effetto inibitorio sull’attivazione simpatica del tessuto adiposo, mentre il cortisolo e gli ormoni tiroidei possono modulare la sensibilità del tessuto adiposo alle catecolamine. Inoltre, la leptina, prodotta dagli adipociti, agisce a livello ipotalamico per modulare l’attivazione simpatica, creando un meccanismo di feedback che consente al tessuto adiposo di comunicare il proprio stato energetico al sistema nervoso centrale.

Le catecolamine esercitano i loro effetti attraverso l’interazione con recettori adrenergici, appartenenti alla famiglia dei recettori accoppiati a proteine G (GPCR). Nel tessuto adiposo sono presenti principalmente tre tipi di recettori adrenergici: i recettori β1, β2, β3 e i recettori α2. Ciascuno di questi sottotipi presenta caratteristiche farmacologiche distinte e media effetti diversi sulla lipolisi.

I recettori β-adrenergici, particolarmente β1 e β2, sono ampiamente distribuiti nel tessuto adiposo umano e rappresentano i principali mediatori dell’effetto lipolitico delle catecolamine. Il recettore β3, sebbene meno abbondante nell’uomo rispetto ai roditori, è comunque presente e riveste un ruolo importante nella regolazione della lipolisi e della termogenesi. Questi recettori sono accoppiati alla proteina Gs, che, una volta attivata, stimola l’adenilato ciclasi portando ad un aumento dei livelli intracellulari di adenosina 3’,5’-monofosfato ciclico (cAMP).

⭕️ I recettori α2-adrenergici, al contrario, sono accoppiati alla proteina Gi/o e mediano effetti inibitori sulla lipolisi. Questi recettori sono particolarmente abbondanti nel tessuto adiposo viscerale e la loro attivazione porta ad una diminuzione dei livelli di cAMP, contrastando l’azione lipolitica mediata dai recettori β-adrenergici. Questa duplice innervazione adrenergica del tessuto adiposo consente una fine regolazione della lipolisi, permettendo sia la stimolazione che l’inibizione del processo in base alle necessità metaboliche specifiche.

L’attivazione dei recettori β-adrenergici da parte delle catecolamine innesca una cascata di eventi intracellulari che culmina nell’attivazione della lipolisi. Il legame delle catecolamine ai recettori β-adrenergici provoca un cambiamento conformazionale che attiva la proteina Gs, la quale a sua volta stimola l’adenilato ciclasi. Questo enzima catalizza la conversione dell’adenosina trifosfato (ATP) in cAMP, che funge da secondo messaggero intracellulare.

L’aumento dei livelli di cAMP attiva la proteina chinasi A (PKA), un enzima tetramerico composto da due subunità regolatorie e due subunità catalitiche. Il cAMP si lega alle subunità regolatorie, causando la dissociazione e l’attivazione delle subunità catalitiche. Le subunità catalitiche attive della PKA fosforilano diversi substrati proteici, tra cui la lipasi ormone-sensibile (HSL) e la perilipina, una proteina che circonda le gocce lipidiche negli adipociti.

❇️ La fosforilazione della HSL sulla serina 563 (nell’uomo) ne aumenta l’attività catalitica e ne promuove la traslocazione dalle frazioni citoplasmatiche alla superficie delle gocce lipidiche, dove può accedere al suo substrato. Contemporaneamente, la fosforilazione della perilipina modifica la sua conformazione, permettendo l’accesso della HSL ai trigliceridi immagazzinati nelle gocce lipidiche. Questo processo è facilitato anche dall’attivazione della lipasi dei trigliceridi degli adipociti (ATGL), che è responsabile del primo step della lipolisi, catalizzando la conversione dei trigliceridi in digliceridi.

La PKA fosforila anche l’acetil-CoA carbossilasi (ACC), inattivandola e riducendo così la sintesi di malonil-CoA, un potente inibitore della β-ossidazione degli acidi grassi. Questo meccanismo assicura che, durante la lipolisi, gli acidi grassi liberati siano preferenzialmente ossidati per la produzione di energia piuttosto che riesterificati.

L’attivazione dei recettori β-adrenergici promuove la lipolisi attraverso i meccanismi precedentemente descritti, ma esistono differenze sottili tra i diversi sottotipi. I recettori β1 e β2 presentano affinità simili per la noradrenalina e l’adrenalina, mentre il recettore β3 mostra una maggiore selettività per la noradrenalina. Inoltre, i recettori β3 sono meno suscettibili alla desensitizzazione rispetto ai recettori β1 e β2, rendendoli particolarmente importanti per la regolazione a lungo termine della lipolisi.

⚠️ Al contrario, l’attivazione dei recettori α2-adrenergici esercita un effetto antilipolitico. Questi recettori, accoppiati alla proteina Gi/o, inibiscono l’adenilato ciclasi, riducendo i livelli di cAMP e, di conseguenza, l’attivazione della PKA. Questo meccanismo inibitorio è particolarmente importante per la fine regolazione della lipolisi e per prevenire un’eccessiva mobilizzazione lipidica in condizioni di stress metabolico.

L’equilibrio tra l’attivazione dei recettori β e α2 determina l’entità netta della lipolisi. In condizioni fisiologiche normali, prevale l’effetto dei recettori β-adrenergici, ma l’attivazione dei recettori α2 può modulare significativamente la risposta lipolitica. Questa regolazione differenziale è particolarmente evidente in diversi depositi adiposi, dove il rapporto tra recettori β e α2 varia, contribuendo alle differenze regionali nella sensibilità alla lipolisi.

La risposta degli adipociti alle catecolamine non è statica ma è soggetta a complessi meccanismi di regolazione che possono modificare la sensibilità e l’efficacia della lipolisi. La densità e la sensibilità dei recettori adrenergici possono essere modulate da diversi fattori, inclusi lo stato nutrizionale, l’età, il sesso e condizioni patologiche come l’obesità e il diabete.

L’esposizione cronica alle catecolamine può portare alla desensitizzazione dei recettori β-adrenergici attraverso meccanismi di fosforilazione mediati dalle chinasi dei recettori accoppiati a proteine G (GRK) e successiva internalizzazione dei recettori. Questo fenomeno può contribuire alla ridotta sensibilità alla lipolisi osservata in condizioni di stress cronico o nell’obesità.

🔹 La regolazione della lipolisi è anche influenzata da altri ormoni e mediatori. L’insulina, oltre a inibire direttamente la lipolisi attraverso l’attivazione della fosfodiesterasi 3B (che degrada il cAMP), può anche modulare l’espressione e la sensibilità dei recettori adrenergici. Gli ormoni tiroidei, invece, possono aumentare l’espressione dei recettori β-adrenergici e potenziare la risposta lipolitica alle catecolamine.

La comprensione dei meccanismi attraverso cui le catecolamine regolano la lipolisi ha importanti implicazioni cliniche. Nell’obesità, spesso si osserva una ridotta sensibilità del tessuto adiposo alle catecolamine, che può contribuire alla difficoltà nel mobilizzare le riserve lipidiche. Questa resistenza può essere dovuta a alterazioni nell’espressione dei recettori adrenergici, modificazioni nella trasduzione del segnale o alterazioni nell’attività delle lipasi.

Il tessuto adiposo viscerale, che presenta un’alta densità di recettori α2-adrenergici, mostra una maggiore resistenza alla lipolisi rispetto al tessuto adiposo sottocutaneo. Questa differenza può contribuire all’accumulo preferenziale di grasso viscerale, associato a un maggior rischio di complicanze metaboliche e cardiovascolari.

La modulazione farmacologica dei recettori adrenergici rappresenta una strategia terapeutica promettente per il trattamento dell’obesità. Agonisti selettivi dei recettori β3-adrenergici sono stati sviluppati e testati come potenziali farmaci anti-obesità, sebbene i risultati clinici siano stati finora modesti. Analogamente, gli antagonisti dei recettori α2-adrenergici potrebbero teoricamente potenziare la lipolisi, ma il loro utilizzo clinico è limitato dagli effetti collaterali cardiovascolari.

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📌 PER APPROFONDIRE:

📚 Arner, P. (2005). Human fat cell lipolysis: biochemistry, regulation and clinical role. Best Practice & Research Clinical Endocrinology & Metabolism, 19(4), 471-482.

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