18/03/2025
Questa frase ha una duplice lettura. Una che appartiene a tutti, uomini e donne.
La società con le sue pressioni, con i suoi giudizi, ci prova costantemente a farci vergognare di chi siamo: del nostro corpo (imponendoci una forma), dei nostri tempi (intimando un percorso a tappe prestabilito), dei nostri salari (equiparando il reddito al valore), dei nostri gusti, di ciò che proviamo, del colore della nostra pelle, dell’alopecia, dell’acne, delle rughe… Insomma, di qualsiasi cosa che devia lo standard. La cosa assurda è che questa visione sociale entra a far parte di noi ma non è nostra, non ci appartiene e con essa non è nostra neanche la vergogna che ne deriva! È indotta, viziata, condizionata: non portarla perché non ti appartiene. Appartiene al mondo esterno, a chi giudica. Non è la tua.
Tu hai la libertà di esistere con i tuoi tempi, il tuo aspetto non conforme, il tuo impiego, le tue preferenze e le tue preziose unicità. Non siamo macchine prodotte in serie. La collettività ha bisogno di spostare il focus sull’accettazione e abbassare la foga degli standard. Possiamo iniziare a farlo anche noi, anche tu, partendo da te stesso :)
L’altra chiave di lettura è intima. Parla di una vergogna più subdola e oscura, ne sa qualcosa chi si porta sulle spalle il peso di colpe che non ha. È la vergogna di chi si sente responsabile per qualcosa che gli è stato fatto ma non avendo le risorse per comprenderlo, ha finito per condannarsi ogni giorno e trattarsi come se fosse il carnefice e non la vittima. Anche qui, quella vergogna non appartiene a chi ha subito, anche se non ha parlato, anche se non ha saputo proteggersi. La vergogna non appartiene a chi semplicemente ha lottato per sopravvivere.
Qualsiasi sia la tua vergogna, rifletti bene: è davvero tua o è negli occhi di un osservatore invisibile?
Anna De Simone