19/06/2023
𝐋𝐚 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐭𝐞𝐫𝐚𝐩𝐢𝐚 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐜𝐞𝐫𝐯𝐞𝐥𝐥𝐨? 𝐈𝐧 𝐚𝐠𝐠𝐢𝐮𝐧𝐭𝐚 𝐨 𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐭𝐞𝐫𝐚𝐩𝐢𝐚 𝐟𝐚𝐫𝐦𝐚𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐚 𝐢𝐧 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐮𝐫𝐛𝐢 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐡𝐢𝐚𝐭𝐫𝐢𝐜𝐢 𝐠𝐫𝐚𝐯𝐢? 𝐕𝐞𝐝𝐢𝐚𝐦𝐨𝐥𝐨 𝐢𝐧𝐬𝐢𝐞𝐦𝐞.
Il cosiddetto “errore di Cartesio” (suggerito in un saggio omonimo di Antonio Damasio, cioè la separazione drastica fra emozione e intelletto) non è mai così evidente come quando ci si trova di fronte a spiegazioni su come esattamente le psicoterapie portino a cambiamenti spesso profondi nelle convinzioni, nei modi di pensare, negli stati affettivi o nel comportamento di un paziente. Se vogliamo superare il divario mente-cervello, è fondamentale una comprensione neurobiologica dei meccanismi con cui le psicoterapie esercitano la loro azione. Ciò non solo fornirebbe una solida base teorica per questi approcci, ma aiuterebbe anche il miglioramento degli interventi psicoterapeutici, aprendo la possibilità di misurare oggettivamente i potenziali benefici e di confrontare un approccio con un altro.
La psicoterapia è stata spesso oggetto di accuse di non scientificità. Persino Freud ebbe il buon senso di abbandonare il suo “Progetto di Psicologia Scientifica”, iniziato nel 1895: infatti, ai tempi, non aveva gli strumenti necessari per rilevare i cambiamenti funzionali nel cervello vivente. Tuttavia, i primi esperimenti di Freud con la cocaina - soprattutto su sé stesso - lo convinsero che la sua libido putativa doveva avere una base neurochimica specifica. Ora che abbiamo la capacità di rilevare in modo affidabile i cambiamenti legati all'allenamento e all'apprendimento nei modelli di attivazione cerebrale utilizzando l'imaging funzionale non invasivo, il progetto incompiuto di Freud potrebbe essere finalmente realizzabile. La ricerca in questo settore non potrà mai attirare i finanziamenti che le grandi aziende farmaceutiche possono investire nella ricerca neurobiologica. Tuttavia, stanno emergendo prove di alterazioni del metabolismo cerebrale o del flusso sanguigno che sono correlate agli effetti terapeutici. Un articolo piuttosto recente ha identificato una serie di studi che valutano gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale nei disturbi ossessivo-compulsivi e fobici e della terapia cognitivo-comportamentale e della terapia interpersonale nella depressione.
Nel disturbo ossessivo-compulsivo, l'intervento psicologico determina una riduzione del metabolismo nel caudato e una minore connessione funzionale della corteccia orbitofrontale destra con il caudato e il talamo omolaterali. È interessante notare che cambiamenti simili si osservano nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo con il farmaco fluoxetina, suggerendo meccanismi comuni o almeno convergenti nei benefici terapeutici delle psicoterapie e delle farmacoterapie. Nella fobia, l'effetto più consistente della terapia cognitivo-comportamentale è la riduzione dell'attivazione nelle aree limbiche e paralimbiche. La riduzione dell'attivazione dell'amigdala sembra essere una via finale comune per la psicofarmacoterapia dei disturbi fobici. Resta da stabilire se reti funzionali diverse siano responsabili di questo punto finale comune, anche se la ricerca sugli animali suggerisce che questo potrebbe essere il caso.
Gli studi sulla depressione sono più difficili da interpretare e mostrano sia aumenti che diminuzioni del metabolismo prefrontale associati a un trattamento efficace. Sembra che la depressione sia un disturbo molto più eterogeneo e le reti funzionali implicate negli effetti delle diverse terapie non sono così semplici come nel caso dei disturbi d'ansia.
Insomma, una buona psicoterapia produce cambiamenti fisici sia strutturali che nelle connessioni del cervello che permettono un migliore funzionamento, integrazione e regolazione dei sistemi neurali, alla base di una migliore salute mentale, soprattutto quando si è sotto stress. In particolare, i cambiamenti nella corteccia frontale e temporale che mediano la regolazione delle emozioni, del pensiero e della memoria sembrano essere i più importanti.
Dunque, è chiaro che la modulazione dell'attività cerebrale attraverso gli interventi psicoterapeutici non solo si verifica, ma può anche spiegare i benefici che i pazienti sperimentano. Potrebbe essere giunto il momento di mettere da parte i vecchi pregiudizi e studiare adeguatamente gli interventi non farmacologici.
Come ha detto il neurobiologo Jaak Panksepp sulla ricerca moderna sulle cause dei disturbi delle emozioni e del comportamento "non si tratta di dimostrare che Freud abbia ragione o torto, ma di finire il lavoro".
Voci bibliografiche.
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