12/08/2025
L’INCONTRO, LA SOLITUDINE E L'AMORE.
Nel passaggio dall’innamoramento, in cui tutto è dato, all’amore, in cui tutto è da creare, si presenta subito il pericolo che i reciproci fantasmi, dopo aver colluso nell’attirare e unire i due, possono iniziare a collidere. È qui che ciascuno, se non educato al rispetto dell’altro cui chiama l’etica del desiderio, per paura di annullarsi a fronte di ciò che lo trascende, può facilmente ricadere nel dominio dell’io, che si crede illusoriamente di essere il detentore della soggettività, dove “non c’è altro d-io fuori di me”. Anche se questo “dio” può svolgere indifferentemente la parte di incubo o di succubo.
Le conseguenze dell’amore, quello possessivo, di padronanza, sono devastanti: secondo un’ottica post junghiana (Montefoschi) ciascuno espropria l’altro della propria universalità; secondo un’ottica post freudiana (Lacan) ciascuno espropria l’altro della sua specifica singolarità.
L’altro, però, in quanto diverso, non è solo esterno come altro da sé, individuale o sociale, ma anche “interno” come totalmente Altro (“je est un autre”, Rimbaud). È esattamente questo punto di intima estimità, immaginato come dato ontologico, immanente-trascendente, o come centro archetipico non rappresentabile, il luogo estremo della verità dell’essere, l’ombelico del mondo. Così le conseguenze dell’amore possessivo sono ancora più tragiche, perché mirano a minare il fondamento dell’intero universo, brulicante di vita e vibrante d’amore.
C’è un passaggio molto bello nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders del 1987, un’icona assoluta nella cinematografia del novecento, in cui l’angelo nostalgico della natura umana, dopo aver stabilito un ponte tra il sovrasensibile, in cui si dà come pensiero dell’Altro, e l’intrasensibile animico-spirituale della bella trapezista, in cui si dà come desiderio dell’Altro, si presenta a lei in carne e ossa al banco bar di un locale. Stranieri al mondo e l’uno all’altro, i due si guardano, ed è subito incontro. Lui si avvicina a lei con estrema delicatezza, forse l’ha riconosciuta, dopotutto è per lei che si è incarnato, ed anche lei sembra riconoscerlo, come fosse l’improvvisa materializzazione del suo interlocutore interno di cui si era fatta un’immagine, e così gli parla:
“Non sono mai stata solitaria, né da sola, ma mi sarebbe piaciuto in fondo essere solitaria, solitudine significa: finalmente sono tutto, ma adesso posso dirlo, perché oggi finalmente sono davvero sola. Bisognerà finirla prima o poi con il caso, non lo so se ci sia un fine, ma so che ci dev’essere una decisione. È necessario che tu ti decida, deciditi, ora il tempo siamo noi, e noi siamo più che due solamente, noi incarniamo qualcosa, è il mondo intero che prende parte alla nostra decisione. Ed eccoci sulla piazza del popolo, siamo qui noi due e l’intera piazza è piena di gente che si augura la stessa cosa che ci auguriamo noi, decidiamo noi il gioco per tutti. Non c’è storia più grande della nostra, quella mia e tua, dell’uomo e della donna. Sarà una storia di giganti, invisibili, riproducibili, sarà una storia di nuovi progenitori. Guarda i miei occhi, sono l’immagine della necessità, del futuro di tutti sulla piazza. La notte scorsa ho sognato qualcuno, uno sconosciuto, il mio uomo. Soltanto con lui potevo essere sola e aprirmi a lui, aprirmi tutta, avvolgerlo con il labirinto della comune beatitudine. Io lo so, sei tu quello.”
Posto a conclusione di tutto il film, questo discorso stupefacente, in cui è la parola all’altro che parla di sé attraverso la donna, racchiude una ricchezza di contenuti mistico-erotico-spirituali che meriterebbero un intero volume. Qui mi limito a toccare brevemente il tema della solitudine nella relazione d’amore. Che può sembrare una contraddizione, ma non lo è se la intendiamo con l’intelligenza del cuore. Come ha fatto Wenders, che si è ispirato a Rilke per comprendere gli angeli in chiave moderna; come ho fatto io nel 2010 con diversi altri autori in Angelicamente. Il senso dell’angelo nel nostro tempo; e come hanno fatto due grandi interpreti della psicoanalisi contemporanea: Hillman e Recalcati. Per Hillman, la solitudine non è soltanto una condizione negativa o un segno di isolamento, ma un'esperienza esistenziale profonda, di abbandono fiducioso, di religio, potenzialmente creativa. Anche per Recalcati la solitudine è una deep experience, perché legata al vuoto costitutivo dell’essere umano, che può manifestarsi come mancanza dolorosa o come risorsa preziosa, capace di aprire alla crescita, al desiderio e alla connessione autentica. È questa seconda modalità di vivere il vuoto interiore che predispone all’incontro.
L’incontro, per lo psicoanalista italiano, è sempre qualcosa di straordinario che dà forma alla vita, la trasforma e le dà senso. Per questo si presenta come uno spartiacque tra un prima e un poi, che non può avvenire con il simile, ma solo con il diverso. “L’incontro - dice l’autore - è nell’ordine dell’evento e l’evento è nell’ordine dell’imprevisto, dell’impossibile che diventa miracolosamente possibile”. Condivido pienamente questa visione, ma aggiungo un elemento che ritengo importante, anche per averne fatto esperienza con gli incontri che hanno cambiato la mia vita. Richiamandomi a Jung, l’incontro autentico è sempre un caso che non viene a caso, perché rientra nelle trame delle corrispondenze sincronistiche di nessi acausali, a forti valenze affettive, che costellano l’esistenza umana di coincidenze cariche di significato.
Da questa prospettiva discende un’immagine della solitudine molto diversa da quella radicata nella sua più comune modalità di esperirla, che comunque non va negata, né evitata. Si tratta di collocare il dolore della perdita e della separazione non nell’esserne oggetto passivo, ma soggetto consapevole: soggetto della propria ferita e della propria solitudine. In questo caso può accadere qualcosa di sorprendente: salta il sigillo che teneva chiuso lo scrigno dell’identificazione monadica, e l’uno scopre di essere due. Non solo perché diviso, ma perché porta in sé la memoria del suo contrario gettato insieme (symballein): “Che cosa simboleggia la ferita se non la condizione di alterità con se stesso che mantiene l’uomo perennemente aperto a quell’altro da sé che è a lui consustanziale?” (Montefoschi).
Aprendosi maggiormente, il taglio diventa beanza e ferita che guarisce l'anima. È In questa accezione che va compreso il “labirinto della comune beatitudine” evocato dalla protagonista del film all’ex angelo. Beatitudine e beanza sono correlate dalla stessa radice etimologica, ma con sfumature diverse riguardo alla felicità, più spirituale la prima, più terrena la seconda. Lacan l’ha chiamata jouissance e l’ha rubricata nel Reale, in quanto eccesso di godimento mai completamente appagabile, né simbolizzabile. Anche Hillman ha percepito la potenza travolgente della jouissance, ma l’ha attribuita a Venere come pienezza estetico-immaginale, che non può che essere di natura erotica, potenzialmente patologica solo se viene letteralizzata.
Come raccoglimento devoto intorno alla propria mancanza, la solitudine non è solo l’unico bene che abbiamo, fatto di "assenza", sostanza divina di prim’ordine, ma è il fondamento del desiderio dell’Altro che ci trascende e ci differenzia, e quindi dell’amore nella sua interezza. D’accordo che il desiderio dell’Altro, come ci ricorda Lacan, è anche desiderio del suo desiderio, cioè di essere desiderati, che è considerato il piacere più grande, ma bisogna stare attenti a non restare fissati a questo piacere, altrimenti si vanifica il progetto rivoluzionario, erotico-conoscitivo e destinale, insito nella freccia di Eros: quello del cambiamento radicale di vita. L’amore non sta nell’essere amati, per quanto piacere ci possa procurare, ma nell’amare. Come ci ricorda ancora Silvia Montefoschi: “L’amore è l’amare infinito del soggetto amante”.