Dott.ssa Elisa Sartini Psicologa Psicoterapeuta

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26/09/2025

Quando si pensa al trauma, la mente corre subito a esperienze gravi e sconvolgenti: abusi, incidenti, catastrofi, lutti improvvisi. Questo è ciò che viene chiamato “trauma con la T maiuscola”: si tratta di eventi che spezzano la continuità della vita e lasciano ferite evidenti e dolorose.
È molto diffuso anche un trauma molto meno riconoscibile definito “trauma con la t minuscola”.
Si tratta di esperienze ordinarie, spesso ripetute nel tempo, che possono sembrare insignificanti agli occhi degli adulti ma che lasciano un segno profondo nei bambini. Alcuni esempi:

•il bullismo da parte dei coetanei,

•i commenti critici o svalutanti di un genitore

•la mancanza di un legame emotivo stabile e rassicurante con le figure di riferimento.

Queste esperienze non sempre provocano un dolore immediato, incidono però sullo sviluppo della personalità. Soprattutto nei bambini più sensibili, la ferita nasce non solo da ciò che accade di negativo, ma anche da ciò che non accade come il bisogno di sentirsi visti, accolti e compresi che rimane insoddisfatto. D. W. Winnicott parlava di “nulla che accade quando qualcosa avrebbe potuto accadere con beneficio”. In altre parole, non è necessario un evento traumatico eclatante: basta l’assenza di ciò che nutre e sostiene il sé in crescita.
Questo tipo di mancanze genera una disconnessione da sé stessi e dagli altri. Lo psichiatra Mark Epstein scrive che “i traumi della vita quotidiana possono facilmente farci sentire come un bambino senza madre”.
In fondo, come ha sintetizzato Bessel van der Kolk, “il trauma è quando non siamo visti e conosciuti”.
La perdita di connessione non avviene di colpo, ma lentamente, nel tempo. Ci si abitua, ci si adatta, fino a non accorgersi più del cambiamento. Tuttavia, questo adattamento lascia un’impronta: modella il modo in cui guardiamo il mondo e influenza anche i nostri comportamenti abituali.
A volte persino quelle che consideriamo le nostre qualità come la determinazione, la forza, l'indipendenza, possono avere radici in un’esperienza traumatica, piccola o grande che sia.
È importante ricordare che non ha senso confrontare le proprie ferite con quelle degli altri. Il trauma non si misura: ognuno lo vive e lo porta dentro di sé in modo unico.
Non importa se la nostra sofferenza appare più lieve o più grave rispetto a quella altrui. Ciò che conta è riconoscere l’impatto che ha avuto sulla nostra vita, senza sminuirlo e senza usarlo come arma di confronto.
Ognuno di noi porta i propri traumi. E la strada verso la guarigione comincia dal dare valore alla propria esperienza, senza paragoni.

Riassunto dal libro Il mito della normalità di Gabor Maté

25/09/2025


Cadono le foglie, gli alberi si tingono di arancione rosso, c'è aria di cambiamento.
L'autunno ci sussurra che per accogliere il nuovo, dobbiamo prima lasciare andare ciò che non ci serve più.
L'autunno ci insegna che non esiste una fine definitiva, ma solo una continua trasformazione. Questa consapevolezza può alleggerire il peso della perdita, mostrando che ogni ciclo, anche quello della vita, è parte di un movimento più grande e significativo.

24/09/2025
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19/09/2025

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14/09/2025
24/08/2025

LO PSICOLOGO.

Quando pensiamo a uno psicologo, l’immagine che spesso ci viene in mente è quella di una persona sempre pronta ad ascoltare, accogliente, capace di leggere tra le righe e dare spazio alle emozioni. Ma fuori dallo studio, nel quotidiano, lo psicologo è prima di tutto una persona, con i propri bisogni, interessi e limiti.

Il rischio dell’etichetta

Capita spesso che, appena qualcuno scopre che una persona fa lo psicologo, partano battute come: “Allora mi analizzi?” oppure “Perfetto, posso raccontarti tutti i miei problemi!”. Questa reazione è comprensibile: la professione è affascinante e associata all’idea di un ascolto costante. Ma è anche riduttiva, perché porta a confondere il ruolo professionale con la persona.

Ascoltare è lavoro, non vocazione senza confini

Lo psicologo dedica molte energie mentali ed emotive al proprio lavoro: ascoltare in profondità, contenere vissuti dolorosi, restituire senso. È un impegno che richiede attenzione e presenza. Ma, come per qualsiasi altro mestiere, esiste un tempo per lavorare e uno per essere semplicemente sé stessi. Pretendere che lo psicologo sia “sempre in servizio” significa non riconoscere i suoi confini e i suoi bisogni personali.

Fuori dallo studio, una persona come le altre

Fuori dal lavoro, lo psicologo può desiderare leggerezza, svago, conversazioni superficiali, battute o momenti di silenzio. Può avere voglia di parlare di sé, invece che ascoltare sempre gli altri. Non è mancanza di empatia, ma un sano equilibrio: per essere un buon professionista, deve anche prendersi cura della propria dimensione privata.

Un invito alla normalità

Riconoscere lo psicologo come una persona “normale”, con interessi e passioni, aiuta a costruire rapporti autentici e più equilibrati. Non un ascoltatore sempre disponibile, ma un amico, un familiare, un partner o un collega con cui condividere davvero, in entrambe le direzioni.

14/07/2025

Quando si parla di trauma, spesso si pensa a eventi gravi e straordinari. In realtà, molte esperienze comuni ma ripetute — come trascuratezza, rifiuto emotivo, mancanza di protezione o l’aver assistito alla violenza — possono lasciare segni profondi e duraturi.

Questi traumi, soprattutto se vissuti nell’infanzia, non si cancellano facilmente: plasmano il modo in cui percepiamo il mondo, noi stessi e gli altri. Il nostro sistema nervoso impara a riconoscere pericoli ovunque, anche dove non ce ne sono, e ciò che un tempo ci ha aiutati a sopravvivere può oggi limitare la nostra libertà di vivere in modo autentico.

Comprendere come queste ferite si manifestano — nel corpo, nei pensieri, nelle relazioni — è un primo passo fondamentale per dare un significato alle nostre reazioni e, nel tempo, aprirci alla possibilità di una trasformazione profonda.

Esperienze traumatiche come trauma fisico, sessuale, emotivo, trascuratezza o l’aver assistito a violenza possono lasciare un’impronta profonda sul sistema nervoso, sulla percezione di sé e sulle relazioni con il mondo.

1. Il trauma fisico:
(abusi, incidenti, maltrattamenti) insegna al corpo che non è un luogo sicuro. Questo può generare ipervigilanza, tensione muscolare cronica e difficoltà a rilassarsi, con una costante attivazione del sistema di allerta.

2. Il trauma sessuale: mina l’integrità e la fiducia nel proprio corpo e negli altri. Può generare vergogna, dissociazione e una fatica nel vivere l’intimità, anche anni dopo l’evento.

3. Il trauma emotivo: come essere ignorati, svalutati o umiliati, colpisce il senso di valore personale. Chi lo subisce tende a strutturare un’identità fragile, e sviluppa una sensibilità accentuata al rifiuto e alla critica.

4. La trascuratezza: (fisica o affettiva) è un trauma invisibile ma potente. L’assenza di risposte adeguate ai bisogni primari può far nascere la convinzione di “non meritare cura”, portando a difficoltà a chiedere aiuto o a fidarsi.

5. Assistere alla violenza – anche senza esserne direttamente vittime – è destabilizzante: il bambino osserva che il mondo può essere pericoloso e imprevedibile. Questo può condurre all’ipercontrollo, all’ansia anticipatoria e a una forte reattività emotiva.

Queste esperienze portano spesso a sviluppare strategie di sopravvivenza: ipervigilanza, bisogno di controllo, ritiro sociale o adattamento eccessivo. Cercare rifugio nella routine, evitare il rischio e dare priorità alla sicurezza sono modi attraverso cui la psiche tenta di mantenere stabilità in un mondo percepito come minaccioso.

La clinica mostra che riconoscere e dare senso a queste risposte è il primo passo verso il cambiamento: dal sopravvivere al vivere pienamente.

Dr. Maurizio Sgambati
www.psicosgambati.it

14/07/2025

IL POTERE TRASFORMATIVO DELLE PAROLE SUI PENSIERI
I pensieri non sono solo parole o immagini nella mente: hanno un impatto diretto sulla chimica del cervello. Quando generiamo pensieri positivi — di gratitudine, speranza, fiducia o amore — il nostro sistema nervoso risponde attivando neurotrasmettitori legati al benessere.

Uno dei principali è la dopamina, coinvolta nei circuiti della motivazione e della ricompensa: si attiva quando immaginiamo o viviamo qualcosa di piacevole. Poi c’è la serotonina, che regola l’umore e ci aiuta a sentirci più stabili e appagati. Anche l’ossitocina, detta "ormone dell’amore", aumenta con pensieri affettuosi o legami positivi, favorendo connessione e sicurezza. Infine, pensieri rassicuranti aiutano a ridurre il cortisolo, l’ormone dello stress.

Allenare la mente a generare pensieri positivi non significa negare la realtà o forzare l’ottimismo, ma coltivare intenzionalmente ciò che attiva risorse interne e crea equilibrio neurochimico. In altre parole, pensare bene... fa bene. Anche al cervello.

In terapia, la parola ha un potere trasformativo profondo: non è solo uno strumento di comunicazione, ma un mezzo che può letteralmente modificare il modo in cui pensiamo, sentiamo e persino funzioniamo a livello cerebrale.

Quando verbalizziamo emozioni, esperienze e vissuti, attiviamo aree della corteccia pre-frontale legate alla consapevolezza e alla regolazione emotiva. Parlare di sé — in un contesto protetto come quello terapeutico — permette di riformulare la propria storia, dare senso a ciò che è accaduto e, di conseguenza, modificare i circuiti neurali legati a quei vissuti. In questo modo si allenta l’attivazione dell’amigdala (memoria emotiva e reattività) e si potenziano i sistemi di autoregolazione.

Attraverso il dialogo, il terapeuta aiuta il paziente a mettere in discussione schemi mentali disfunzionali, sostituendoli con pensieri più realistici, flessibili e nutrienti. E quando cambiano i pensieri, cambia la chimica del cervello: si abbassano i livelli di cortisolo e si attivano dopamina, serotonina e ossitocina, favorendo un senso di benessere, calma e connessione.

In sintesi: le parole curano, e il modo in cui pensiamo — dentro e fuori dalla terapia — può davvero cambiare il nostro cervello e la nostra vita.

© Dr. Maurizio Sgambati
www.psicosgambati.it

14/07/2025

DISINNESCARE UN ATTACCO DI PANICO COL GROUNDING
Quando ci troviamo di fronte a uno stimolo che ci spaventa, ci manda in ansia o ci fa arrabbiare, il cervello attiva una risposta automatica di allerta. Questo accade perché l’amigdala, una piccola struttura del sistema limbico, percepisce il pericolo (reale o presunto) e invia segnali di emergenza al corpo. Nel giro di pochi secondi — spesso prima che ce ne rendiamo conto — si attivano il sistema nervoso simpatico e il cosiddetto asse dello stress, innescando una cascata di reazioni: aumento del battito cardiaco, respirazione più veloce, tensione muscolare, riduzione dell’attività digestiva. Tutto il corpo si prepara a “fuggire o combattere”.

Contemporaneamente, l’attività della corteccia prefrontale, la parte del cervello che regola il pensiero razionale, si riduce. È per questo che, quando siamo molto attivati emotivamente, tendiamo a perdere lucidità: ragioniamo meno, reagiamo d’impulso, diciamo o facciamo cose che poi non ci rappresentano.

Questo squilibrio tra reattività emotiva e razionalità non dura per sempre, ma può mantenersi per minuti (o più) se non viene interrotto da strategie autoregolative. Ecco perché è così importante imparare tecniche per calmare l’attivazione e riattivare il pensiero consapevole.

Per “disinnescare” questo stato, serve riportare il cervello al presente e riattivare la corteccia prefrontale, responsabile del pensiero razionale. Una delle tecniche più efficaci e semplici per farlo è il grounding 5-4-3-2-1, che sfrutta i sensi per ancorarti al “qui e ora” e ridurre l’intensità del panico o dell’ansia acuta. Ecco una sequenza guidata:

* Respira lentamente una volta, poi inizia a notare:

5) cose che puoi vedere: Guardati intorno. Nomina 5 cose che riesci a vedere: oggetti, luci, colori, persone.

4) cose che puoi toccare: Porta attenzione al corpo. Tocca 4 cose: la sedia su cui sei seduto, i tuoi vestiti, il pavimento sotto i piedi, un oggetto vicino.

3) cose che puoi udire: Ascolta. Quali suoni riesci a percepire? Il rumore del traffico, un ticchettio, il tuo respiro?

2) cose che puoi annusare: Annusa l’aria. C’è un profumo? Un odore di caffè, sapone, o semplicemente l’aria stessa? Se non senti nulla, prova a ricordare un profumo che ti calma.

1) cosa che puoi gustare: Nota il gusto in bocca ora. O pensa a un sapore che ti piace: menta, cioccolato, limone...

* Concludi con un respiro profondo e ricorda: sei al sicuro, questo momento passerà, hai strumenti per affrontarlo.

© Dr. Maurizio Sgambati
www.psicosgambati.it

28/06/2025

18/06/2025

AUGURIO PER UN FIGLIO CHE FA L’ESAME DI MATURITA’

“Ciao Pietro, avanti tutta”. E’ la terza volta che vedo uno dei miei figli uscire di casa per andare a fare l’esame di maturità. Se con il primo figlio l’ansia sua era anche ansia mia, stamattina dentro me percepivo soprattutto la bellezza che la paternità ha regalato alla mia vita di uomo. Accompagnare i figli nelle tappe della loro crescita, stare loro accanto, constatare che giorno dopo giorno prendono in mano il bandolo della matassa della propria vita e diventano autonomi è una gioia grandissima. Mentre pensi a tutto questo, ti arriva dentro anche una miscela di altre emozioni. La nostalgia di un tempo piccolo, in cui le sfide del quotidiano erano molto meno imponenti di un esame di maturità: il primo giorno di asilo, la prima gita con tuo figlio che ti saluta agitando la manina dal finestrino di un pullman, la sua prima vacanza con l’oratorio, il saggio di fine anno a scuola di musica. C’è una storia enorme che compare all’improvviso nel cuore e nella mente di un papà quando pronuncia ad un figlio la frase “avanti tutta”, detta per fargli sentire che mentre lui farà il suo esame di maturità, io – il suo papà – lo terrò nel cuore. In quell’”avanti tutta” c’è la sua vita che avanza e la mia vita che arriva ad un nuovo capolinea, dove – quasi senza accorgercene – sta avvenendo un progressivo passaggio di testimone tra me e lui. E’ in questi passaggi, che ritrovo il senso che ho dato, che sto dando e che darò alla mia vita. Un senso che non sarebbe esistito se non fossi stato genitori di Jacopo, Alice, Pietro e Caterina. Alle cui esistenze sento di appartenere, profondamente. Appartengo alle loro vite, ma non le possiedo. Per questo, loro ora spiccano il volo. E io dalla finestra della vita, mi godo lo spettacolo. Con una enorme gioia. E – non posso non ammetterlo – con una tremenda nostalgia.
Buona maturità! A Pietro! A tutti i maturandi! E a noi, mamme e papà, che come giardinieri prepariamo e aspettiamo il raccolto, gettando un seme nel terreno della vita e – giorno dopo giorno – prendendoci cura di quel terreno. E anche di quel seme.

Ogni giorno, non solo come professionista, ma anche come padre, rifletto profondamente sul concetto di "allenare alla vita" che ho messo al centro del mio ultimo libro sulla genitorialità ("Allenare alla vita" di A.Pellai, Mondadori ed). Sento che - oggi più che mai - noi genitori - e in particolare noi padri - dobbiamo dare parola alla nostra esperienza di vita, a ciò che sperimentiamo nel tempo in cui aiutiamo un figlio a crescere, ovvero, lo alleniamo alla vita. Se pensate che questo messaggio sia utile (o semplicemente bello) anche per altri genitori - magari proprio quei genitori il cui figlio sta facendo l'esame di maturità - condividete questo post.

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Cecina

Orario di apertura

Martedì 10:00 - 20:00
Mercoledì 10:00 - 20:00
Giovedì 10:00 - 20:00
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