13/07/2025
L’estate dimenticata del carcere, tra il caldo torrido e la solitudine.
Torna il caldo torrido e il carcere si trasforma in un’agonia: i detenuti vivono in celle asfissianti, con temperature interne che raggiungono anche 40 gradi e gli strumenti per contrastarle restano un miraggio. Il tutto nell’indifferenza della società, un’indifferenza che ci sta rendendo complici.
Quando un Paese accetta che in una cella pensata per una sola persona ne vivano tre, quando accetta che un detenuto si tolga la vita ogni cinque giorni, quando ignora il grido silenzioso che sale da quelle mura… quella società ha smarrito la propria umanità.
Il carcere, lo dico da uomo che ha conosciuto l’odore della sconfitta e la dignità del dolore, non è il luogo della vendetta. È, o dovrebbe essere, un luogo di recupero, un laboratorio di coscienze, uno spazio in cui l’errore incontra l’occasione del riscatto. Se invece lo trasformiamo in un inferno dove si muore di abbandono, che idea di giustizia stiamo offrendo ai nostri figli?
Spesso sento dire: “Chi ha sbagliato deve pagare”. Ed è vero. Ma la pena, per essere giusta, deve contenere in sé un seme di speranza. Non può ridursi a un parcheggio di carne umana, non può diventare una condanna all’asfissia, alla solitudine, alla malattia, alla follia.
I dati che riguardano l’emergenza carceri sono impietosi, ma dietro quei numeri ci sono volti. E dietro quei volti, storie. Madri che non vedranno crescere i figli, giovani caduti troppo presto, uomini che forse avrebbero potuto cambiare. Sì, perché nessuno è mai solo ciò che ha fatto.
Ci chiediamo spesso dove sia finita la civiltà. Io credo che la risposta sia dentro le nostre carceri. La misura dell’evoluzione morale di uno Stato si vede da come tratta i suoi detenuti, diceva Dostoevskij. E noi, oggi, possiamo davvero guardarci allo specchio?
Serve una riforma, certo. Servono investimenti, nuove strutture, più educatori, psicologi, personale sanitario. Ma serve soprattutto una nuova cultura della pena. Una cultura che veda la persona prima del reato. Che riconosca la fragilità. Che creda nella possibilità di cambiare.
Lì, in quella cella rovente sovraffollata, c’è un pezzo della nostra responsabilità collettiva. E se non ci decidiamo a guardarla in faccia, a portarla nel cuore e nell’agenda politica, continueremo a costruire carceri che non rieducano, ma producono solo dolore, morte e silenzio.
Io credo, con tutta la forza dell’esperienza e della fede, che l’uomo non si esaurisce nei suoi errori. E che ogni pena che dimentica l’umanità è già una forma di ingiustizia.