01/07/2025
Nel panorama della cultura occidentale del secondo Novecento, la figura di Carlos Castaneda occupa uno spazio singolare e difficilmente classificabile. La sua opera – dodici libri pubblicati tra il 1968 e il 1999 – si muove lungo una faglia complessa, a cavallo tra l’etnografia, la narrativa filosofica, il racconto iniziatico e la testimonianza di una frattura percettiva radicale. A partire dalla pubblicazione de «Gli insegnamenti di Don Juan» (1968), destinato a diventare in breve un best seller mondiale, Castaneda cattura l’attenzione di un pubblico vasto e trasversale: dagli ambienti accademici statunitensi, inizialmente incuriositi dalla sua proposta di «antropologia vissuta», fino alle aree della controcultura, attratte dalla componente visionaria, sciamanica e antistituzionale delle sue esperienze.
Il dato che segna l’intera opera castanediana è la trasformazione profonda – personale e cognitiva – che investe lo stesso autore nel corso della sua ricerca. Partito con l’intento dichiarato di raccogliere dati sull’uso delle piante psicoattive presso le popolazioni indigene dell’area yaqui, Castaneda si ritrova ben presto travolto da un processo che lo vede diventare egli stesso oggetto e soggetto di iniziazione. L’incontro con Don Juan Matus, sciamano yaqui (o presunto tale), si configura come la soglia di accesso a un universo simbolico estraneo al paradigma razionale occidentale: un cosmo in cui il sapere è inseparabile dalla trasformazione interiore, la conoscenza implica perdita di sé, e la realtà si manifesta come pluralità di stati percettivi.
In questo contesto, il ricorso all’uso rituale di sostanze come il pe**te o la datura non risponde tanto a una logica di esplorazione psichedelica, quanto piuttosto a una sistematica opera di decostruzione del senso comune, volta a incrinare il «dialogo interiore» dell’uomo moderno, cioè quella narrazione continua e autocentrata che lo imprigiona in una sola descrizione del mondo. La distinzione proposta da Don Juan tra «realtà ordinaria» e «realtà non ordinaria» non è quindi una opposizione tra vero e falso, ma tra forme diverse di accesso al reale. La messa in discussione dell’ontologia lineare e logocentrica diventa, in questo orizzonte, un esercizio etico ed esistenziale: una pratica dell’attenzione, del distacco, dell’uso consapevole della morte come consigliera, della sospensione del giudizio.
Non è un caso che Castaneda – oggetto di critiche feroci da parte di molti accademici per l’inaffidabilità dei dati e la natura «ibrida» delle sue testimonianze – sia invece stato valorizzato da autori come Deleuze e Guattari, che hanno riconosciuto nel suo lavoro una riflessione potente sulla deterritorializzazione del soggetto. In effetti, che si scelga di leggere l’opera di Castaneda come documento etnografico, allegoria filosofica o narrazione esistenziale, resta ineludibile la forza del suo dispositivo discorsivo: una scrittura che interroga i fondamenti stessi della percezione e del sapere, e che mette in scena – con rigore e con smarrimento – il passaggio oltre le «colonne d’Ercole» della soggettività occidentale.
Il suo itinerario, disseminato di immagini indelebili e dialoghi fulminanti, conserva un tratto di ambiguità e di sfida che lo rende ancora oggi materia viva per chiunque voglia interrogarsi sul rapporto tra cultura e coscienza, tra visione e realtà. In un tempo segnato dal ritorno di rigide ortodossie epistemologiche, l’eredità castanediana rilancia la questione fondamentale del molteplice: quanti mondi esistono, oltre il nostro? E con quali strumenti possiamo entrare in rapporto con essi, senza ridurli a ciò che già conosciamo?