Dott.ssa Iolanda Gaeta

Dott.ssa Iolanda Gaeta Psicologa Psicoterapeuta Psicoanalitica La Dottoressa è Psicologa Clinica, Psicoterapeuta Psicoanalitica, Mediatrice Familiare e Formatrice. Massimo Recalcati.

Lavora come Psicoterapeuta Psicoanalitica a Chieri. La pratica psicoanalitica della dottoressa è caratterizzata dal continuo e costante studio personale e dal confronto con la ricerca scientifica più aggiornata. Si dedica a pazienti affetti da Disturbi dell'umore (Disturbi Depressivi, Ansia e Attacchi di panico, Disturbo bipolare), Disturbi del comportamento alimentare (Bulimia, Anoressia Nervosa,

Obesità, Binge Eating); Disturbi di Personalità e Disturbi psicosomatici. Prende in cura pazienti che necessitano di trattamento e cura a causa di Traumi psichici dovuti ad esperienze di violenza domestica, violenza sessuale, aggressione, lutto, incidenti, separazioni traumatiche e/o legati a esperienze traumatiche prolungate come abusi emotivi-fisici e maltrattamenti in età evolutiva e adulta. La sua attività professionale si esplica anche attraverso consulenze e sostegno psicologico alle donne in tutte le fasi della gravidanza e nella fase del puerperio/post-parto e attua interventi di sostegno alla futura coppia genitoriale. Si occupa di Terapia di coppia e Sostegno alla genitorialità. La sua attività professionale si completa attraverso l’erogazione di corsi di formazione rivolti al personale scolastico attraverso metodologia sia di tipo frontale/teorica che laboratoriale. Per le famiglie conduce incontri formativi/informativi su tematiche psicoeducative. Ideatrice e promotrice del progetto Psicologia Condivisa. L’iniziativa pone al centro la diffusione della conoscenza psicologica con particolare attenzione alla psicoanalisi, quale strumento essenziale per il benessere collettivo. Ne sottolinea il valore nella comprensione di sé e dell’altro, nella prevenzione delle problematiche psicologiche individuali e familiari e nel promuovere una maggiore consapevolezza relazionale. Attraverso il sostegno e l’informazione, si intende favorire la creazione di una rete di solidarietà e crescita condivisa, in cui la psicologia occupi un ruolo centrale nella promozione del benessere sociale. L’obiettivo è costruire una comunità più consapevole, in cui il sapere psicologico diventi una risorsa accessibile a tutti, contribuendo al miglioramento della qualità della vita individuale e collettiva. LA PSICOTERAPIA E METODOLOGIA DI TRATTAMENTO
L’orientamento psicologico utilizzato è psicoanalitico

FORMAZIONE ACCADEMICA

La dottoressa si è laureata con Lode in Psicologia Clinica e di Comunità presso l’Università di Torino presentando due tesi (Triennale e Magistrale) dedicate all’analisi e all’approfondimento del tema dell’aggressività e della violenza. Nella tesi triennale l'analisi si è concentrata sulle dinamiche relazionali del sistema familiare e sugli stili educativi adottati dalle figure genitoriali. È stato ipotizzato che all’interno della famiglia possano esistere numerose variabili in grado di influenzare l’insorgenza di atteggiamenti prevaricatori nei figli. In particolare, è stata approfondita la relazione tra lo stile educativo genitoriale e lo sviluppo dello stile di attaccamento. Nella tesi magistrale, invece, ha esaminato la relazione tra il costrutto dell’empatia e il fenomeno del bullismo, con l’obiettivo di indagare se e in che modo l’empatia affettiva e/o cognitiva sia correlata ai comportamenti aggressivi o bullistici nei minori. Si è specializzata in Psicoterapia ad orientamento psicoanalitico presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Torino con un lavoro di Tesi sui Disturbi dell'umore associati al Trauma con particolare attenzione alle forme depressive e suicidarie. Ponendo al centro l'analisi del vissuto traumatico infantile sono state esplorate le possibili ricadute psicologiche nei figli sopravvissuti. Successivamente la sua formazione si è consolidata attraverso un corso annuale di Alta formazione post- universitaria presso la scuola di Specializzazione Cognitiva Comportamentale di Torino dal titolo: “Il trattamento della dissociazione traumatica. I volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico ed intervento” formatrice dott.ssa Dolores Mosquera nota a livello internazionale e specializzata nel trattamento dei Disturbi della Personalità, dei traumi complessi e della dissociazione. Ha frequentato e concluso un Corso di Alta Formazione e Specializzazione post Universitario presso l'I.R.P.A. (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata) di Milano diretta dal prof. Massimo Recalcati sulla Clinica dei Nuovi Sintomi. In specifico i temi approfonditi e studiati sono stati relativi alle nuove patologie: anoressie, bulimie, obesità, attacchi di panico, depressioni, fenomeni psicosomatici, tossicomanie ed il disagio infantile. Nel corso degli anni ha arricchito la sua formazione professionale attraverso numerosi corsi e eventi formativi tra cui:

“Giornate di studio su casi clinici. Documentazione clinica. Percorsi clinico-assistenziali diagnostici riabilitativi, profili di assistenza, profili di cura” condotte dal Prof. Massimo Recalcati presso l'Istituto di Ricerca e Intervento per la Salute sede di Milano. Presso l'Accademia Pons sede di Milano giornate di studio dal titolo: "Come costruire il caso clinico” docente Prof. Presso la Facoltà di Psicologia di Torino, Scienze della Mente, ha completato un corso annuale sui “Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)” con votazione finale di 30 e Lode. Presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca ha acquisito una formazione dal titolo: “La consultazione con l’adolescente nei disturbi di personalità”. Presso la Scuola di Specializzazione COIRAG, sede di Roma, ha partecipato alla formazione condotta dal Prof. Antonello Correale sul tema: “Quale psicoanalisi per i pazienti difficili”. Presso la Scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria Infantile (Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica Pediatriche) è stata acquisita una formazione dal titolo: “Il rischio suicidario in continuità tra adolescente e giovane adulto. Aggiornamento clinico e nuove strategie di prevenzione”. Presso la Società Adleriana Italiana Gruppi e Analisi (S.A.I.G.A) Scuola di Specializzazione in Psicoterapia formazione sul tema : “Psicologia del morire: il lutto e la sua elaborazione”. All'interno del Programma Nazionale per la Formazione continua degli operatori della Sanità ha arricchito la sua formazione attraverso corsi e partecipazione ad eventi alcuni dei quali:

"Il Controtransfert nella clinica Psicoanalitica: riflessioni e aggiornamenti. Percorsi clinico-assistenziali diagnostici e riabilitativi, profili di assistenza e profili di cura"

"Lo psicologo delle cure primarie: le parole dell'esperienza pratica"

“Nuove prospettive nell’elaborazione del lutto”

"I professionisti dell'area perinatale: testimoni di nuove complessità"

"Percorsi oncologici e percorsi psicologici si intrecciano negli adolescenti e giovani adulti"

"Dai BES alle EES e ai DSA: il contributo dello psicologo"

"Il sostegno psicologico nella sclerosi multipla"

"La psicologia scolastica: contribuire nella gestione dei bisogni educativi speciali tra scuola e i servizi sanitari ed educativi"

“Psicologia applicata allo sport: attività fisica e sport per l’educazione e la formazione dei giovani"

Dai Bisogni Educativi Speciali alle Esigenze Educative Speciali ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento: il contributo dello psicologo"

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cell. 339 16 22 917

Nell’ambito delle relazioni affettive, il concetto di tradimento è spesso associato a infedeltà fisica o sessuale. Tutta...
26/07/2025

Nell’ambito delle relazioni affettive, il concetto di tradimento è spesso associato a infedeltà fisica o sessuale. Tuttavia, vi è una dimensione meno tangibile ma altrettanto dolorosa: il tradimento emotivo. Questo fenomeno, meno visibile ma profondamente incisivo, riguarda la rottura di un legame di fiducia e intimità che va oltre il corpo, coinvolgendo il cuore e la mente.
Il tradimento emotivo si verifica quando uno dei partner sviluppa un’intimità affettiva significativa, riservata solitamente alla coppia, con un’altra persona esterna alla relazione. Non necessariamente si traduce in un coinvolgimento fisico o sessuale, ma implica una condivisione di sentimenti, confidenze, desideri o attenzioni che dovrebbero essere esclusivi all’interno della coppia. Questa “infedeltà” emotiva può manifestarsi attraverso un eccessivo coinvolgimento affettivo con amici, ex partner o conoscenti, conversazioni private che escludono il compagno, oppure tramite l’uso dei social media per coltivare una relazione parallela di natura sentimentale o intima.
Il dolore generato dal tradimento emotivo risiede nella violazione della fiducia profonda su cui si basa la relazione. La coppia non è solo un vincolo pratico o sessuale, ma soprattutto un luogo di sicurezza emotiva e condivisione esclusiva. Quando questa intimità viene “condivisa” con un’altra persona, si produce un senso di esclusione, abbandono e svalutazione. Dal punto di vista psicologico, il tradimento emotivo mina il senso di sé e il valore personale, generando insicurezza, gelosia, rabbia e confusione. Spesso chi subisce questo tipo di tradimento si sente “meno amato”, “messo da parte” o “sostituibile”, sensazioni che possono sfociare in una crisi profonda della relazione e, talvolta, anche dell’autostima. Sebbene il tradimento fisico possa risultare più evidente e socialmente riconosciuto come lesivo, il tradimento emotivo spesso è altrettanto grave, se non di più, proprio per la sua natura intangibile e meno visibile. Mentre il tradimento fisico colpisce il corpo, quello emotivo colpisce il cuore e la mente, portando a una ferita che può essere più difficile da elaborare. Inoltre, il tradimento emotivo può rappresentare la base su cui si sviluppa un tradimento fisico, fungendo da “avvicinamento” alla rottura della fedeltà. Per questo motivo, riconoscerlo e affrontarlo tempestivamente è fondamentale per la salute della coppia. Il primo passo è la comunicazione aperta e sincera tra i partner, che consenta di esprimere emozioni, paure e bisogni senza giudizio. La terapia di coppia può rappresentare uno spazio protetto in cui lavorare su questi temi, favorendo la ricostruzione della fiducia e la ridefinizione del legame. È importante anche che chi ha commesso il tradimento emotivo riconosca la sofferenza provocata e si impegni a ristabilire trasparenza e rispetto. Al contempo, chi subisce il tradimento deve lavorare sul proprio senso di valore e sulle proprie risorse interiori per non rimanere intrappolato in dinamiche di svalutazione.

Ha abbracciato sua madre in un gesto silenzioso e affettuoso, capace di raccontare molto più delle parole. È l’immagine ...
26/07/2025

Ha abbracciato sua madre in un gesto silenzioso e affettuoso, capace di raccontare molto più delle parole. È l’immagine più potente della settimana: un bambino che si stringe a sua madre, Alice Boselli, 42 anni, neolaureata in Scienze Storiche presso l’Università di Verona. Alice aveva già conseguito una laurea in Scienze Diplomatiche e ha deciso di tornare a studiare, affrontando un nuovo percorso formativo in età adulta, da madre, da donna lavoratrice.
Alla sua proclamazione ha dichiarato: “Le donne possono essere libere di lavorare, di essere mamme, di essere studentesse, se vogliono continuare a studiare e di portare avanti tutto questo senza sentirsi in colpa”.
Il suo messaggio è semplice e al tempo stesso radicale: non si tratta solo di una rivendicazione individuale, ma dell’affermazione di un diritto collettivo, spesso negato o ostacolato, quello delle donne di essere soggetti completi. Non una cosa alla volta, ma tutto ciò che desiderano e possono sostenere, con strumenti adeguati e una rete sociale consapevole.
Nel nostro contesto culturale, la maternità è ancora sovraccaricata di doveri invisibili, di aspettative implicite e sensi di colpa. Il carico del lavoro di cura, nella stragrande maggioranza dei casi, pesa ancora sulle spalle femminili.
Nonostante le conquiste in ambito lavorativo e sociale, la distanza tra uomini e donne in termini di opportunità, riconoscimento e tempo libero rimane significativa.

Il gesto di Alice, la sua tenacia nel continuare a formarsi, è un atto politico. È una richiesta implicita al sistema di sostenere realmente i percorsi di autodeterminazione femminile. Perché una madre che studia o lavora non è una madre “di meno”. È una madre che cresce anche per i propri figli, mostrando con l’esempio cosa significhi non rinunciare a sé stesse. Questa storia parla di fatica, di studio, di cura dei figli, ma soprattutto di un desiderio che non si arrende. È il desiderio di non rinunciare a se stesse, alla propria identità, alla possibilità di restare soggetti pensanti, attivi, agenti nel mondo, anche, e soprattutto, quando si è madri.
Come psicoterapeuta e come donna, non posso che sottolineare la rilevanza simbolica e sociale di esperienze come quella di Alice, io stessa ho scelto di proseguire la mia formazione in età adulta, quando ero già madre di due figli e lavoratrice: amavo il mio lavoro, ma sentivo che dovevo seguire il mio desiderio. Diventare psicoterapeuta ha significato dare forma a una vocazione profonda: ascoltare l’Altro nella sua verità più intima, accoglierne la fragilità, accompagnarlo nel processo trasformativo della cura. È stata una scelta complessa e faticosa: so cosa significhi ritagliarsi lo spazio mentale necessario in mezzo alle esigenze familiari, sentire il peso del doppio sguardo: uno rivolto all’interno, verso la propria ambizione e sete di conoscenza, e uno rivolto all’esterno, verso il bisogno di essere presenti, accudenti, sufficientemente buone.
Non è un caso se Massimo Recalcati ha detto e scritto parole che ogni madre dovrebbe poter ascoltare senza paura di essere giudicata:
"I bambini hanno bisogno che le loro madri restino donne, che abbiano interessi e passioni nel mondo. Che il mondo non si esaurisca nella vita del figlio, che ci sia un desiderio che trascende l'orizzonte della maternità. I nostri figli hanno bisogno anche dell'assenza della madre, altrimenti non c'è libertà."
Questa citazione non è un invito all’abbandono, ma una riflessione profonda sulla necessità di preservare l’identità femminile anche nella maternità. Essere madre non significa dissolversi nel ruolo, né annullare i propri desideri. Significa, piuttosto, tenere insieme le molteplici parti di sé, integrando l’amore per i figli con la cura della propria crescita personale.

Per questo ritengo che l’immagine di Alice e le sue parole siano simboliche. Parlano del bisogno urgente di un cambiamento strutturale: asili nido gratuiti o con rette calmierate, orari di lavoro flessibili, congedi parentali estesi e condivisi, una cultura che non veda nella maternità un ostacolo, ma una dimensione della soggettività femminile da valorizzare e sostenere e soprattutto una società che comprenda che anche i padri hanno il diritto e il dovere di esserci, realmente, nella cura e nell’educazione dei figli.
La vera parità non consiste nel chiedere alle donne di fare tutto da sole, ma nel costruire un sistema che riconosca, distribuisca e sostenga il lavoro di cura come responsabilità collettiva. La cura, infatti, non è un compito “naturale” delle donne: è una funzione relazionale, affettiva, educativa, che deve essere condivisa, tutelata e resa compatibile con la vita lavorativa e sociale di entrambi i genitori.
Occorre anche una trasformazione culturale che restituisca dignità e valore alla complessità delle vite femminili. Una donna può essere madre, lavoratrice, studentessa, cittadina attiva, compagna di viaggio dei propri figli e tutto ciò senza sentirsi colpevole o inadeguata. Allo stesso modo un uomo può e deve poter esercitare pienamente la propria funzione paterna, senza che questo comprometta la sua realizzazione lavorativa o sociale.
Il sogno di una società più equa non può prescindere da questo equilibrio: sostenere le donne nelle loro scelte, qualunque esse siano, e liberare gli uomini dalla rigidità di ruoli che ancora oggi li allontanano dalla tenerezza e dalla responsabilità quotidiana. Solo così sarà possibile generare un mondo dove la libertà di essere, e diventare, si estenda a tutte e tutti, senza esclusioni.

26/07/2025

Psicologia Condivisa è uno spazio aperto a chi desidera avvicinarsi alla psicologia e alla psicoanalisi come strumenti di comprensione di sé e degli altri. Promuove la diffusione di conoscenze psicologiche fondate sul rigore scientifico e il confronto su temi legati a relazioni, identità e benessere emotivo. Il gruppo favorisce un dialogo rispettoso, aperto e inclusivo. Chiunque voglia partecipare con domande e riflessioni è il benvenuto: per unirsi, basta seguire il link e richiedere l’iscrizione.

La libertà di scegliere: riflessioni sul caso di Laura Santi.Ogni giorno nella mia pratica clinica incontro individui ch...
24/07/2025

La libertà di scegliere: riflessioni sul caso di Laura Santi.

Ogni giorno nella mia pratica clinica incontro individui che si confrontano con il dolore, non solo quello fisico, tangibile, ma anche quello psichico, spesso silente, e quello esistenziale, che si insinua nei momenti in cui la vita perde significato. In quei luoghi interiori, dove la sofferenza interroga le fondamenta dell’identità, si gioca la possibilità di rimanere soggetti del proprio destino, oppure di divenire oggetti della propria storia.

La vicenda di Laura Santi interpella profondamente queste domande. Una donna di 48 anni, con una mente lucida e un pensiero profondo, costretta da oltre vent’anni a un’immobilità assoluta, inchiodata a un letto, privata di ogni possibilità di movimento, ma non della capacità di sentire, amare, riflettere. Laura non chiedeva di morire: chiedeva di poter scegliere, di preservare la propria dignità nel momento in cui la vita, spogliata da ogni autonomia, si era trasformata in mera sopravvivenza.
Potersi rappresentare come agenti del proprio vivere, anche e soprattutto nei momenti più estremi, significa riconoscersi come soggetti desideranti, capaci di attribuire senso a ciò che si attraversa.
Laura ha scelto, lo ha fatto con lucidità e con amore per sé stessa. Ha deciso di recarsi in Svizzera, dove l’eutanasia è legalmente regolamentata, per porre fine alla sua sofferenza in modo consapevole e dignitoso. La sua non è stata una fuga dalla vita, ma un atto estremo di affermazione di sé. Un ultimo gesto di libertà, nel rispetto della propria storia, della propria identità, della propria umanità.

Nel profondo del dolore esiste sempre una dimensione narrativa: ogni essere umano cerca di raccontarsi una storia che tenga insieme le esperienze, i traumi, le perdite, gli affetti.
Quando quella narrazione non è più possibile, quando ogni tentativo di dare senso si scontra con l’impossibilità di immaginare un futuro, allora può emergere la domanda di morire non come rinuncia, ma come scelta estrema di coerenza e integrità.
Laura non ha chiesto pietà.
Ha chiesto ascolto.
Ha chiesto che la sua volontà fosse accolta come espressione di una soggettività piena, non compromessa dalla sua condizione clinica.
Il suo desiderio non era dettato da una fuga, ma da un’esigenza profonda di non lasciarsi definire dalla malattia, di non essere ridotta a un corpo sofferente, di non essere espropriata della propria capacità simbolica e affettiva di decidere.
Particolarmente toccanti, in questo senso, sono le parole del marito di Laura che racconta: «Mi ha chiesto: vuoi che rimanga un altro po’? Ma io l’ho lasciata andare». In quella domanda c’è tutta la delicatezza del legame, la potenza di un amore che si fa silenzioso compagno di un ultimo gesto di libertà, e in quella risposta c’è il riconoscimento più profondo della soggettività dell’Altro: non trattenere, ma lasciare andare…

Dopo la sua morte, il marito ha dichiarato: «Ho lasciato in sala i suoi vestiti e i suoi libri. Anche se non c’è più, c’è come non mai. Sono contento di questo risultato, ora so che voglio continuare a impegnarmi su questo fronte, in suo nome e in suo onore».

È una frase che ci conduce al cuore dell’elaborazione del lutto: i morti non sono davvero morti, se continuano a vivere nel nostro ricordo, nei nostri gesti, nella trama invisibile delle nostre scelte. Il legame con l’oggetto perduto si trasforma, ma non si spezza: si fa interno, psichico, generativo. Continuare a vivere anche per l’Altro, portandolo dentro di sé è uno dei modi più profondi con cui l’amore si declina oltre la soglia della morte.
Il morire, nella nostra società, è spesso negato e spinto ai margini. Eppure si tratta di una fase della vita che richiede presenza psichica, possibilità di scelta, contenimento e riconoscimento. Morire con dignità non è solo un tema giuridico o medico è prima di tutto una questione relazionale, psicologica, profondamente umana. Significa permettere a chi sta andando via di mantenere il timone della propria storia anche nel momento finale.
Il dolore di Laura, come quello di molte persone che si trovano in condizioni simili, ci interroga non soltanto sul senso della morte, ma anche sul significato della vita. Cosa significa vivere, se non poter scegliere, sentire, agire, amare secondo ciò che ci è più autentico? E cosa significa morire, se non potersi congedare dal mondo in modo coerente con la propria identità?
Difendere il diritto all’eutanasia, nei casi in cui la sofferenza è irreversibile e la qualità della vita è gravemente compromessa, non significa negare il valore della vita, ma onorarlo fino in fondo. Significa riconoscere che la dignità non risiede nel tempo che si sopravvive, ma nella qualità con cui si vive e si sceglie.
Laura Santi ci lascia un’eredità preziosa: una testimonianza autentica di libertà, di coraggio, di soggettività piena. Sta a noi, come clinici, cittadini, esseri umani, fare in modo che la sua voce non venga spenta, che il diritto di scegliere per sé, anche nella morte, possa trovare uno spazio di ascolto, di rispetto, di riconoscimento.

“Non bisogna dimenticare che il rapporto tra analista e paziente si fonda sull’amore per la verità”: questa affermazione...
24/07/2025

“Non bisogna dimenticare che il rapporto tra analista e paziente si fonda sull’amore per la verità”: questa affermazione di Kancyper ci restituisce con profondità l’essenza del lavoro analitico che non è orientato alla ricerca di un sollievo momentaneo o alla costruzione di illusioni consolatorie, ma al disvelamento della verità soggettiva, anche quando questa è dolorosa, frammentata, disorganizzante. L’amore per la verità, in psicoanalisi, è un movimento interno che implica la disponibilità a tollerare la realtà così com’è, con le sue perdite, le sue ambivalenze e le sue mancanze. È un processo che richiede da parte del paziente, ma anche dell’analista, una progressiva rinuncia alle illusioni narcisistiche, al desiderio di onnipotenza, all’idealizzazione dell’Altro e di sé. Il dolore psichico che emerge da questo confronto non è un ostacolo, ma un passaggio necessario. È proprio attraverso la possibilità di sostare in ciò che fa male, senza agire, senza negare, senza fuggire che può attivarsi una trasformazione interna, profonda e duratura. In questa prospettiva, il compito dell’analista è quello di offrire uno spazio mentale che accolga il dolore e lo renda pensabile, tollerabile, narrabile. La verità analitica non coincide con un fatto oggettivo, ma è ciò che il soggetto riesce a riconoscere come proprio a partire da una rilettura del suo mondo interno. È un atto creativo, sempre in divenire, che può essere raggiunto solo in una relazione in cui ci si senta visti, ascoltati, accolti senza giudizio. Dunque, verità e tolleranza al dolore psichico sono gli scopi più autentici dell’analisi: non la guarigione rapida, non l’adattamento sterile, ma la possibilità di vivere una vita più vera, più coerente con la propria storia e con il proprio desiderio.

L’arte di perdere un figlio (per amore).                                                                                ...
23/07/2025

L’arte di perdere un figlio (per amore).
C’è una soglia silenziosa che ogni genitore, prima o poi, è chiamato ad attraversare: la soglia del ritrarsi.
Non è un abbandono, né una resa.
È un atto di fede.
È quell’istante in cui, per amore, lasci che tuo figlio vada dove tu non puoi accompagnarlo.
Massimo Recalcati lo dice con chiarezza disarmante: “Il dono più grande che possiamo fare ai nostri figli non è spiegare la vita, ma dimostrare, con il nostro esempio, che la vita ha un senso.”

Ma quanti, oggi, ci riescono davvero?

Viviamo in un’epoca in cui essere genitori spesso si confonde con il mestiere di manovrare, correggere, prevedere tutto.
E invece amare, davvero amare, significa donare spazio, non completare il puzzle per loro, ma lasciargli i pezzi in mano.
E magari, mentre inciampano, offrire solo lo sguardo, non la soluzione.
Offrire il dubbio, non il manuale.
Amare è perdere la pretesa di “saperne di più”.
Amare è dire: “Non ti capisco, ma ti rispetto.”
Amare è non aggiustare la vite storta, ma credere che proprio lì, in quella curva, possa nascere qualcosa di irripetibile.
I figli non sono da educare alla normalità.
Sono da amare nella loro diversità incomprensibile.

L’arte di perdere un figlio (per amore)C’è una soglia silenziosa che ogni genitore, prima o poi, è chiamato ad attravers...
23/07/2025

L’arte di perdere un figlio (per amore)

C’è una soglia silenziosa che ogni genitore, prima o poi, è chiamato ad attraversare: la soglia del ritrarsi.
Non è un abbandono, né una resa.
È un atto di fede.
È quell’istante in cui, per amore, lasci che tuo figlio vada dove tu non puoi accompagnarlo.
Massimo Recalcati lo dice con chiarezza disarmante: “Il dono più grande che possiamo fare ai nostri figli non è spiegare la vita, ma dimostrare, con il nostro esempio, che la vita ha un senso.”
Ma quanti, oggi, ci riescono davvero?
Viviamo in un’epoca in cui essere genitori spesso si confonde con il mestiere di manovrare, correggere, prevedere tutto.
E invece amare, davvero amare, significa donare spazio,
non completare il puzzle per loro, ma lasciargli i pezzi in mano.
E magari, mentre inciampano, offrire solo lo sguardo, non la soluzione.
Offrire il dubbio, non il manuale.
Amare è perdere la pretesa di “saperne di più”.
Amare è dire: “Non ti capisco, ma ti rispetto.”
Amare è non aggiustare la vite storta, ma credere che proprio lì, in quella curva, possa nascere qualcosa di irripetibile.
I figli non sono da educare alla normalità.
Sono da amare nella loro diversità incomprensibile.

L’arte di perdere un figlio (per amore)

InFame: la fame dell’anima e il silenzio del corpo.Ambra Angiolini, attrice, conduttrice e figura pubblica molto amata, ...
21/07/2025

InFame: la fame dell’anima e il silenzio del corpo.

Ambra Angiolini, attrice, conduttrice e figura pubblica molto amata, ha scelto di raccontare nel suo libro InFame l’esperienza della bulimia vissuta in giovanissima età.
È una storia che parla di corpo, di fame e di invisibilità, ma soprattutto di quel tentativo disperato di esistere e di farsi sentire attraverso il cibo, o meglio, attraverso il suo abuso.
Ambra, oggi impegnata in campagne di sensibilizzazione, offre così uno spazio prezioso: un luogo simbolico nel quale il dolore può trovare una parola, e dove il sintomo, per anni vissuto come vergogna, diventa un ponte tra Sé e l’Altro
Ma che cos'è davvero la bulimia?
Non è semplicemente un disturbo legato al cibo, né un problema di forza di volontà.
La bulimia è un sintomo. È una risposta che il corpo fornisce quando la mente non riesce a elaborare una sofferenza più profonda; una sofferenza che spesso non ha nome, che non trova parole, ma che insiste, si agita, preme, e quando non trova un luogo mentale in cui depositarsi, scivola nel corpo: il corpo allora diventa il teatro muto di un conflitto psichico, ciò che non può essere pensato, viene agito.
In questo senso la bulimia non parla solo di fame di cibo, ma di fame d’amore, di riconoscimento, di senso. Il soggetto bulimico si muove in una relazione ambivalente con il cibo: lo desidera, lo ingurgita, poi lo rigetta. È un movimento che riflette la difficoltà a contenere emozioni troppo intense, desideri confusi, angosce profonde. Il cibo come oggetto transitorio, illusoriamente capace di colmare un vuoto interno che però è incolmabile con ciò che è materiale.
Dal punto di vista psicoanalitico il sintomo alimentare si inserisce laddove manca una funzione simbolica: il soggetto non riesce a trasformare l’esperienza emotiva in rappresentazione e quindi in pensiero.
Il dolore psichico, non potendo essere mentalizzato, viene evacuato nel corpo. Ed è in questa dinamica che il cibo assume un ruolo paradossale: è insieme nutrimento e veleno, carezza e punizione, compagnia e minaccia. È un oggetto “che non tradisce” ma che allo stesso tempo, distrugge.
Il vuoto che si tenta di riempire con il cibo non è un semplice buco nello stomaco, ma è un’assenza che si avverte nell’identità, nel valore personale, nella possibilità di esistere per l’Altro.
Il soggetto bulimico spesso ha vissuto esperienze in cui la propria soggettività non è stata riconosciuta o contenuta, non è stato visto, ascoltato, pensato.
Di fronte a questa carenza originaria si costruisce una modalità di sopravvivenza che passa attraverso il corpo: un corpo che si ingozza per anestetizzare, riempire, sentire qualcosa e che poi si svuota, come a ripetere il gesto originario dell’essere lasciati soli.
La bulimia, allora, può essere letta come un tentativo disperato di sopravvivere a una “mancanza-vuoto” che il soggetto non riesce a sostenere. È una risposta primitiva che chiede ascolto e che può trovare una via di trasformazione solo quando incontra un Altro capace di accogliere, contenere e dare senso.
La guarigione non è mai immediata, né lineare, passa dalla possibilità di dare senso alla propria storia, di trasformare il sintomo in parola, di non restare soli nel dolore.
In un mondo che spinge alla performance e all’immagine, il corpo diventa l’ultimo rifugio dove urlare ciò che non può essere detto, ma laddove c’è parola, comprensione e spazio psichico, il sintomo può cedere il passo a una nuova costruzione di sé ed è lì che può iniziare la vera libertà.
https://www.iolandagaeta.it/riflessioni

Dal suo libro “InFame” una storia per il cinema. I disturbi alimentari quando era giovanissima, e adesso le campagne di sensibilizzazione. La carriera, le batt…

A.Byron, ex amministratore delegato della società tecnologica statunitense Astronomer, si è dimesso dopo essere stato ri...
20/07/2025

A.Byron, ex amministratore delegato della società tecnologica statunitense Astronomer, si è dimesso dopo essere stato ripreso dalla kiss cam durante un concerto dei Coldplay. Accanto a lui, K. Cabot, dipendente della stessa azienda. Nessun gesto eclatante, solo un abbraccio, un atteggiamento affettuoso tra due adulti, nel loro tempo privato. Eppure, è bastato per dare inizio a un ciclone mediatico che ha travolto le loro vite.
Non entriamo nel merito morale della vicenda, né giudichiamo le dinamiche affettive nate in ambito lavorativo. Ognuno ha diritto a vivere la propria affettività nel rispetto dei propri confini interiori. Ciò che ci interroga, come psicologi e cittadini, è come un gesto intimo, non destinato alla scena pubblica, possa trasformarsi in una gogna collettiva.
Un abbraccio è diventato “notizia” rilanciato sui social, commentato, analizzato. Viviamo in una società in cui la spettacolarizzazione della vita sembra annullare il diritto all’intimità. Eppure, la psiche ha bisogno di uno spazio protetto, dove potersi mostrare senza timore, amare, desiderare, essere vulnerabili.
Quando questo spazio viene violato, la persona subisce una ferita invisibile, ma profonda. Si parla spesso di privacy, ma troppo poco di pudore psichico, di libertà affettiva, di dignità.
Byron e Cabot hanno perso il lavoro, ma soprattutto il controllo sul proprio vissuto. Non è l’abbraccio il problema, ma lo sguardo che invade, pretende, giudica. È la deriva di una società che consuma immagini, dimenticando che dietro ogni volto ci sono vite, emozioni, storie complesse.
Ed è proprio per coerenza con quanto qui espresso che ho scelto di non utilizzare la foto resa pubblica di quel momento: perché non è mostrando quei volti che possiamo tutelare la dignità di chi è stato esposto senza volerlo.

Andy Byron, ex amministratore delegato della società tecnologica statunitense Astronomer, si è dimesso dopo essere stato...
20/07/2025

Andy Byron, ex amministratore delegato della società tecnologica statunitense Astronomer, si è dimesso dopo essere stato ripreso dalla kiss cam durante un concerto dei Coldplay. Accanto a lui, Kristin Stanek Cabot, dipendente della stessa azienda. Non un gesto eclatante, non un’azione sconveniente: solo un abbraccio, un atteggiamento affettuoso e tenero tra due adulti, nel loro tempo privato. Eppure, è bastato questo per dare inizio a un ciclone mediatico che ha travolto le loro vite.
Non entriamo nel merito morale della vicenda, né ci interessa formulare giudizi su relazioni sentimentali nate in contesti professionali. Ognuno ha il diritto di vivere la propria affettività nel rispetto della propria libertà e dei propri confini interiori. Ciò che invece ci interroga, come psicologi e come cittadini, è il modo in cui un gesto intimo, non inteso per la scena pubblica, possa diventare l’innesco per una gogna mediatica.
Un abbraccio tra due persone è diventato “notizia”, è stato rilanciato sui social, commentato, analizzato, discusso. In un tempo in cui la spettacolarizzazione della vita è diventata la norma, la possibilità di vivere momenti propri, personali, liberi dallo sguardo altrui, sembra sempre più compromessa.
La psiche umana ha bisogno di uno spazio interno protetto, in cui l’individuo possa sentirsi libero di desiderare, esprimere affetto, mostrarsi vulnerabile. Quando questo spazio viene violato, la persona viene privata di una parte essenziale della propria libertà interiore. Non si tratta di un semplice “imbarazzo”, ma di un vero e proprio trauma da esposizione forzata, in cui l’individuo viene costretto a vedersi dall’esterno, giudicato, frainteso.
Andy Byron e Kristin Stanek Cabot hanno visto crollare le loro posizioni lavorative e, con esse, la propria reputazione. Ma ciò che colpisce più profondamente è la violenza invisibile ma devastante dell’essere trasformati in oggetto di osservazione pubblica senza consenso, in un contesto che nulla aveva a che vedere con la sfera professionale.
Non è l’abbraccio il problema. È lo sguardo che invade, che non si ferma davanti a nulla, che pretende di vedere e sapere tutto. È l’assenza di uno spazio inviolabile, di un limite tra la persona e la scena pubblica. È la deriva di una società che si nutre di immagini, e che troppo spesso dimentica che dietro ogni immagine ci sono vite, emozioni, storie complesse.
Il diritto all’intimità non dovrebbe mai essere negoziabile. E nessuno, per quanto visibile o influente, dovrebbe essere costretto a pagare il prezzo di un momento umano vissuto in uno spazio che credeva sicuro.

Ascoltare il dolore, coltivare la speranza: la storia di Achille Costacurta

20/07/2025

Immagina se i social chiudessero ogni giorno alle 18, come un negozio. 😱

Niente più scroll infinito o notifiche continue... Saremmo “costretti” a incontrarci dal vivo, a parlare davvero con chi abbiamo accanto, a leggere un libro, a cucinare in silenzio, a creare arte o semplicemente… a sentire il tempo che passa.

Forse torneremmo a capire cosa ci manca davvero, o cosa ci stiamo perdendo mentre siamo sempre “connessi”. 🫠

Quanto tempo della tua giornata è davvero tuo? Salva questo post se anche tu, ogni tanto, senti il bisogno di una chiusura anticipata. ❤️

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