02/04/2025
"Si, c'è qualcosa che non va.."
La sedia scomoda della sala d'attesa,
la maglietta sudata anche se non fa poi così caldo,
Il "ti prego, fa che non sia niente di grave" che ti ronza nella testa anche se non credi veramente che qualcuno ascolti quella preghiera.
Gli sguardi distratti e la chiacchiere allegre di chi ti passa accanto, mentre vive la sua giornata ignaro della tua. Ti fa quasi rabbia la loro leggerezza, come se fosse un'ingiustizia, anche se infondo è la stessa che avevi tu, quando tutto questo era ancora lontano.
Chi aspetta una diagnosi, per se o per chi ama, vive un'angoscia difficile da spiegare a parole.
È come se quel tempo trascorso tra esami e dottori si dilatasse all'infinito, catapultandoti in una vita fatta solo di attesa.
Entri in un mondo parallelo, come se guardassi da un vetro la tua vita di prima, quella in cui tutti stavamo bene e tutto questo non c'era.
Avevi tutto, e non lo sapevi.
Quando aspetti una diagnosi, per te o per chi ami, di solito sai già cosa ti dirà il medico. Dentro di te lo sai che cosa sta succedendo, quando la malattia c'è quello che ti dirà è quasi sempre una conferma, raramente è una sorpresa.
Eppure la comunicazione della diagnosi è un momento fondamentale per il paziente e per chi lo accompagna. Quel tempo che il medico dedica per aiutarti a capire cosa significa, cosa succederà, cosa puoi fare fa una differenza enorme.
Anche se te lo aspettavi, sentirlo dire ti travolge, ti lascia senza fiato, con una paura addosso che sembra semplicemente troppo grande per uscire a parole.
La lista delle domande che avevi in testa in sala d'attesa si appanna, sbiadisce dietro l'ondata di consapevolezza che ti cade addosso. E rischia di rimanere lì, senza quelle risposte che invece a casa ti serviranno come l'aria.
Alcuni familiari mi hanno raccontato di ricordare meglio la durezza della sedia dove erano seduti delle parole del medico.
Altri ricordavano ancora con sgomento lo sguardo serenamente inconsapevole dei loro cari e il fatto che nella testa avevano solo il pensiero "ma davvero non capisci che parliamo di te?!".
Qualcuno riusciva solo a richiamare alla mente il bisogno di scappare da quella stanza.
Pochissimi ricordavano di essersi sentiti sostenuti, che in quel tempo di comunicazione della diagnosi c'era stato spazio anche per far uscire un po' di quel groviglio di paura e dolore che sovrastava tutto il resto.
Io, di tutto quel momento, ricordo il silenzio della dottoressa davanti alle lacrime e il gesto gentile del suo tirocinante, che timidamente ha allungato i suoi fazzoletti di carta.
Il momento della comunicazione della diagnosi è qualcosa su cui dobbiamo lavorare di più, come sistema sanitario.
Anche se quasi mai coincide con i primi sintomi, il momento in cui finalmente qualcuno da un nome a quello che succede coincide con il suo esistere davvero nella nostra mente. Non si torna più indietro, non puoi più oscillare tra la paura che sia e la speranza che non sia.
È, c'è e va affrontato.
Perché occuperà tutta la tua vita.
E i pochi minuti solitamente a disposizione, anche se gestiti con la miglior umanità possibile, non bastano né al paziente né a chi lo accompagna. Sono a mala pena sufficienti per chiedere "e ora che succederà?".
Quasi mai bastano al medico per rispondere in modo esaustivo alla domanda.
Praticamente mai bastano a chi ascolta per comprendere fino in fondo.
Nemmeno tutto il tempo del mondo può impedire il dolore, la paura, la fatica che ti piomba addosso assieme al nome della malattia.
Ma il tempo che il professionista dedica ad accogliere tutto questo senza liquidarti in poco tempo, lo spazio che lascia al tuo silenzio tanto quando alle tue domande ti fa sentire meno solo. Ti dà la possibilità di allentare un po' il groviglio che ti porterai a casa.
“Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” – Legge 219/17, art. 1, comma 8.
La legge già lo dice. Lavoriamoci su.