Ganesh Yoga e Meditazione

Ganesh Yoga e Meditazione Scuola di Yoga tradizionale. Percorsi di formazione personalizzabili, anche residenziali.

17/11/2025

🏵Il senso profondo del nome spirituale - ULTIMA PARTE
●Il Vincolo Sacro: ciò che realmente lega il Maestro al Discepolo

Nelle tradizioni più antiche dello Yoga, del Vedānta e del Ta**ra, la trasmissione non si fonda su concetti, tecniche o buone intenzioni.
La relazione tra maestro e discepolo è un vincolo sacro, invisibile, sottile, ma più reale del corpo.
È il punto in cui il cuore del discepolo incontra la verità che il maestro incarna.
Il nome spirituale è solo un riflesso di questo legame: un sigillo.
Non lo crea; lo rivela.
Il cuore come luogo della vera iniziazione
In Oriente si insegna che il cuore (hṛdaya) non è sede dei sentimenti, ma del Sé.
È lì che risuona il nome spirituale.
È lì che il maestro “vede”.
Nella tradizione si dice che l’iniziazione avviene quando il cuore del discepolo diventa trasparente, pronto a ricevere il vero.
Non si tratta di emozione, ma di una sincerità così radicale da spezzare ogni difesa dell’ego.
La Muṇḍaka Upaniṣad dice:
“A colui che desidera ardentemente la verità, la verità stessa si rivela.”
Questo desiderio ardente è il ponte verso il maestro.

●Cosa lega realmente il maestro allo studente - in oriente si direbbe discepolo.
Non l’affetto.
Non la simpatia.
Nemmeno la stima.
Il legame è composto da tre forze, riconosciute in tutte le scuole:
a) Saṃskāra condiviso (karma antico)
Un maestro non incontra mai un discepolo per caso.
Il Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad afferma che ognuno nasce portando tracce di vite anteriori che determinano gli incontri essenziali.
Quando due cuori si riconoscono, è un karma che ritorna a compiersi.
b) Risonanza del dharma
Il maestro percepisce se il dharma del discepolo può allinearsi al suo campo.
Non tutti possono camminare nella stessa direzione: è una questione di vibrazione, non di volontà.
c) La visione interiore (darśana) del maestro
Il maestro non vede il carattere del discepolo:
vede la sua forma luminosa, il suo vero volto, il suo potenziale più alto.
Questo è ciò che crea il vincolo.
Il discepolo non vede ancora ciò che il maestro vede, ma viene attirato da quella visione come da una promessa.

●Il ruolo dei siddhi nella trasmissione
Nella tradizione, il vero maestro non esibisce siddhi, ma li impiega silenziosamente.
I testi tantrici dicono che i siddhi del maestro non servono a compiere miracoli esteriori, ma ad aprire la via interiore del discepolo:
• dissolvono ostacoli karmici,
• tagliano nodi psichici,
• proteggono il cammino,
• intensificano la forza del nome spirituale.
Il maestro opera dove l’allievo non potrebbe arrivare da solo.
È per questo che l’iniziazione non può essere auto-prodotta:
la coscienza umana, da sola, non possiede il potere di tagliare i propri legami più antichi.

●L’Oriente non ha bisogno del nome: l’Occidente sì
Nei contesti orientali, il nome è spesso secondario:
ciò che conta è la vicinanza, la presenza, la trasmissione.
In Occidente, invece, la mente è frastagliata, inquieta, piena di identità sovrapposte.
Il nome diventa uno strumento necessario per:
• fissare un punto,
• radicare la direzione,
• ricordare la verità in mezzo al caos,
• tenere il discepolo nel campo del maestro.
Il nome, allora, è un’ancora per un continente che ha perso la capacità di rimanere.

●La serietà necessaria per ricevere un nome
Tutte le tradizioni affermano che l’iniziazione richiede due qualità fondamentali:
Sincerità radicale
Non la sincerità morale, ma la disponibilità a sacrificare ogni identità pur di avvicinarsi alla verità.
Serietà nel cammino
La Gītā parla di tapas: il fuoco della disciplina.
Senza questo fuoco, il nome si spegne.
Con esso, il nome si trasforma in un sentiero.
Un nome dato senza queste due qualità diventa un peso karmico per il discepolo e una perdita per il maestro.

●Il nome come atto trascendente
Quando il maestro pronuncia il nome, non sta scegliendo una parola:
sta riconoscendo un archetipo inciso nell’anima del discepolo.
Il nome, allora:
• risveglia memorie anteriori,
• riorienta il prārabdha (karma in maturazione),
• apre un canale attraverso cui la luce può scendere,
• e sigilla il discepolo dentro una via.
Non è psicologia.
Non è motivazione.
È trascendenza operativa.
Un atto che nasce da un luogo dove la volontà personale del maestro è stata dissolta.

●Quando un nome non viene dato
Le tradizioni lo dicono con fermezza:
non tutti nascono nello stesso momento spirituale.
Il maestro non nega: attende.
Attende che:
• il cuore si apra,
• la sincerità diventi matura,
• il karma si allinei,
• l’energia possa essere contenuta.
Non è esclusione.
È precisione: il nome è un fuoco, e il fuoco non si consegna a chi non può ancora portarlo.

●Il nome come ritorno a sé
Il nome spirituale è il punto in cui:
• la verità tocca il cuore,
• il karma si riorienta,
• la relazione tra maestro e discepolo si illumina,
• e il Sé comincia a emergere da sotto la personalità.
Non è un titolo.
Non è un ornamento.
È una chiamata.
Una chiamata che proviene da molto prima di questa vita e che continua molto oltre questa forma.
Il nome non fa diventare qualcun altro.
Ti chiede di diventare Chi sei sempre stato.

16/11/2025

🏵Il senso profondo di un nome spirituale - PARTE UNO

Ricevere un nome spirituale non è un gesto simbolico, né un nuovo personaggio da indossare.
È un atto iniziatico: il momento in cui il maestro riconosce nel discepolo una direzione interiore e la chiama per nome.

Un nome spirituale non descrive ciò che sei già, ma apre la strada di ciò che sei destinato a realizzare. È un suono–mantra che entra nel tuo campo karmico e ne orienta il movimento. Da quel momento, ogni scelta che farai potrà allinearsi – oppure opporsi – a quella vibrazione.

Nella tradizione vedica, nome e forma sono inseparabili: nāma–rūpa.
Quando il maestro pronuncia il tuo nome, non ti sta dando un titolo: sta attivando una possibilità dentro di te, qualcosa che appartiene al tuo cuore ma che forse non hai ancora osato riconoscere.

E qui una cosa va detta con chiarezza:
perché un nome spirituale operi davvero, chi lo dà deve essere un maestro autentico.
Non qualcuno che distribuisce nomi a caso.
Un maestro possiede una visione, una śakti e una autorità interiore che permettono al nome di radicarsi nello studente.
Solo così il nome diventa vivo, e accadono cose: trasformazioni, rotture, intuizioni, direzioni nuove.
Senza questa autenticità, il nome resta un guscio vuoto.

Ma è altrettanto vero che nemmeno il nome più potente vive da solo.
Senza una continuità regolare con il maestro, con gli insegnamenti, con la pratica, con il fuoco interiore, il nome si spegne.
È ciò che accade oggi in molti contesti occidentali: persone che ricevono un nome e poi scompaiono, lo usano come ornamento spirituale, come vezzo identitario.
Un nome senza via, senza disciplina, senza vicinanza, diventa un’etichetta priva di fuoco.
Solo nella relazione viva con il maestro, nella sādhanā e nel lavoro interiore, il nome si accende e lavora veramente.

Questo nome:
interrompe la vecchia identificazione con la storia personale, riordina i tuoi saṁskāra, illumina il percorso del prārabdha, e ti ricorda la tua natura più profonda, oltre la biografia.

Per questo può generare attrazione, ma anche resistenza.
Le parti della mente che vivono di abitudini temono ciò che il nome risveglia: una versione di te più autentica, più centrale, più libera.

Accogliere un nome spirituale significa accettare una promessa:
“Io sono chiamato a diventare trasparente a questo Nome.”

Non devi essere già all’altezza del significato.
Il nome non è il punto d’arrivo: è la direzione del ritorno, la firma interiore che ti accompagna nella sādhanā e ti ricorda, ogni giorno, chi sei sotto le forme e oltre la storia.

È un ponte tra il tuo io e il tuo Sé.
Tra il karma che stai vivendo e la coscienza che stai risvegliando.
Tra la voce del maestro e la tua verità più antica.

Un nome spirituale non si indossa: si diventa.
E nel diventarlo, scopri di essere sempre stato ciò che ora finalmente viene chiamato.

16/11/2025

🏵 Il senso profondo del nome spirituale - PARTE DUE
Darsi un nome da soli

Le Scritture non vietano l’auto-nomina, ma ne chiariscono i limiti.
• Il Mahānirvāṇa Ta**ra insegna che l’aspirante senza maestro può adottare un nome sacro come promemoria del proprio ideale.
• Il Bhāgavata Purāṇa indica che, in attesa di incontrare un maestro, alcune forme di disciplina “auto-generate” possono essere un primo passo.
Perciò sì, darsi un nome da soli è un gesto valido, ma rimane psicologico e intenzionale, non iniziatico:
non apre un canale di grazia, non trasmette śakti, non è una consacrazione.
Serve a tenere viva una direzione, non a trasformare la coscienza.

●Perché il nome dato dal maestro è diverso
La Chāndogya Upaniṣad afferma che solo chi ha realizzato il Sé può condurre altri alla stessa realizzazione.
Il nome dato dal maestro non è un’etichetta: è un trasferimento di forza (śakti-pāta).
I Śiva-sūtra dicono: “La Grazia discende attraverso il Maestro.” Senza questa discesa non esiste sigillo: un nome auto-scelto può essere sincero, ma non è consacrato.

●Chi non riceve il nome e si sente escluso
La Guru-Gītā è categorica: il maestro non sceglie in base a merito, intelligenza, simpatia o capacità.
La scelta avviene per risonanza karmica (pūrva-saṁbandha), un legame sottile proveniente da prima di questa vita.
La Śvetāśvatara Upaniṣad aggiunge che la conoscenza appare solo a chi ha devozione reale e maturità interiore, a chi può contenere il fuoco.
Il maestro non dà il nome a chi lo desidera o pensa di meritarlo, ma solo quando vede che il nome non verrà sprecato.

●Perché alcuni lo ricevono e altri no
La Tradizione individua tre criteri chiari:

Pūrvasaṃskāra — tracce precedenti
La Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad insegna che ognuno nasce con impressioni spirituali che determinano verso chi sarà attratto.
Il maestro riconosce queste tracce: il nome cade dove c’è terreno vivo.

Adhikāra — idoneità interiore
La Gītā indica che per ricevere insegnamenti e grazia è necessaria un’idoneità reale:
capacità di ricevere, di sostenere, di non disperdere l’energia del nome.

Śakti-pātra — contenitore dell’energia
Nelle scuole Kaula e Trika si dice: il nome è un fuoco.
Solo chi ha un contenitore stabile può riceverlo senza disperdersi o bruciarsi.
Per questo molti non lo ricevono ancora: non perché “non degni”, ma perché non pronti.

●Perché qualcuno si dà un nome
Secondo lo Yoga Vasiṣṭha, chi non ha un maestro può creare una proiezione ideale e attribuirsi un’identità spirituale.
È un gesto comprensibile, un atto di aspirazione, ma rimane mentale, non trasformante.
In Occidente accade spesso perché:
• manca la via,
• manca la relazione di sottomissione amorosa al maestro,
• c’è solitudine spirituale,
• l’ego cerca un’identità più alta… da solo.
La tradizione lo considera un primo passo, non un’iniziazione.

●Perché il maestro dà il nome: il vero criterio
Il Kularṇava Ta**ra afferma che il maestro dona il nome quando vede la forma sottile del discepolo (sūkṣma-rūpa).
Non lo dona perché uno è simpatico, intelligente o bravo nelle pratiche, ma perché percepisce un archetipo animico che il discepolo ancora non vede.

●Perché molti non lo ricevono
Le scritture indicano tre motivi principali:
• Il canale non è aperto — come dice la Kaṭha Upaniṣad: “Il Sé si rivela solo a chi Egli stesso sceglie.”
• Il nome non metterebbe radici — la tradizione tantrica afferma: “Dove non c’è fuoco, il mantra non prende.”
• Il maestro non forza mai — la Guru-Gītā insegna che il maestro non interviene dove non c’è stabilità: darebbe danno, non grazia.

11/11/2025

🏵Il praticante moderno deve tornare a interrogarsi.
E deve interrogare il proprio insegnante, con rispetto ma con fermezza.
Solo così saprà se davanti a lui c’è un istruttore tecnico o un vero sādhaka, un essere che vive lo Yoga e non lo vende soltanto.

●Domande che ogni praticante dovrebbe porre al proprio insegnante.

1. Qual è, secondo te, lo scopo ultimo dello Yoga?

2. È uno scopo fisico, mentale, o trascende entrambi?

3. Se il corpo cambia, ma l’ego resta, posso dire di essere progredito nello Yoga?

4. Cosa resta quando tutte le posture cessano?

5. Cosa significa per te la parola “Unione”? Chi si unisce con chi?

●Domande sulle posture (Āsana)

1. Perché pratichiamo le posture?

2. Che cosa accade realmente durante un āsana: all’energia, alla mente, alla percezione del Sé?

3. Le posture devono servire al corpo o il corpo deve servire alla consapevolezza?

4. Se lo Yoga è unione, come può esserci competizione, performance o giudizio estetico nella pratica?

5. Cosa intendeva Patañjali quando disse: “sthira sukham āsanam” — la postura è stabilità e beatitudine?

●Domande su Hatha Yoga

1. L’Hatha Yoga è ginnastica o è alchimia del corpo?

2. Che cosa unisce veramente ha (sole) e tha (luna)?

3. A cosa servono realmente bandha, mudrā e prāṇāyāma?

4. Quante delle tue pratiche quotidiane mirano alla purificazione dei nāḍī e quante al miglioramento estetico?

5. Se la forza (ha) e la calma (tha) si equilibrano, chi rimane a osservarle?

●Domande su Aṣṭhāṅga Yoga

1. Sai spiegare gli otto stadi dello Yoga secondo Patañjali?

2. In quale di questi ti senti oggi realmente radicato?

3. Se non vi è yama e niyama (disciplina etica e interiore), cosa resta dell’āsana?

4. Che differenza c’è tra la sequenza e la presenza?

5. Se il respiro si ferma ma la mente corre, stai praticando Yoga o ginnastica respiratoria?

●Domande su Kundalinī Yoga

1. Cos’è per te Kundalinī: un’energia o una coscienza?

2. Da dove sorge e dove ritorna?

3. È necessario risvegliare qualcosa o piuttosto rimuovere ciò che la ostacola?

4. Come distingui l’esperienza mistica dalla suggestione mentale?

5. Se l’energia si muove ma il Sé resta non riconosciuto, cosa hai davvero ottenuto?

●Riflessione per il praticante

Ogni risposta che riceverai dal tuo insegnante non servirà a giudicare, ma a discernere.
La chiarezza è amore: se il tuo insegnante non ha ancora compreso, non disprezzarlo, ma sappi che dovrete cercare insieme.
Il vero insegnante non teme le domande, perché è radicato nel silenzio da cui nascono tutte le risposte.

Quando il corpo tace, lo Yoga comincia.
Quando la mente tace, lo Yoga fiorisce.
Quando l’Io tace, lo Yoga è compiuto.

Due vie di conoscenza: Māyā e la Vidyā del SéNella tradizione yogica e tantrica si distinguono chiaramente due vie di co...
19/10/2025

Due vie di conoscenza: Māyā e la Vidyā del Sé

Nella tradizione yogica e tantrica si distinguono chiaramente due vie di conoscenza: la via di Māyā (MayaVidya) – il mondo fenomenico, illusorio, transitorio – e la via della Vidyā (Para Vidya o Maha Vidya) – la Conoscenza Suprema del Sé, il riconoscimento dell’Assoluto in sé e in ogni cosa.

Māyā, nella sua accezione più sottile, non è semplicemente “illusione” come spesso tradotta, ma è "la potenza del velo", la forza creatrice che plasma l’universo apparente e lo rende percepibile alla mente condizionata. Māyā sostiene le scienze, la logica, le opinioni, le costruzioni mentali e sociali. È il mondo delle forme, delle dualità, del divenire. È la via di chi cerca risposte nel molteplice, di chi tenta di controllare il mondo esterno, di chi si affanna ad "abbellire la prigione senza cercare l’uscita".

Nel Vangelo, Gesù si scaglia contro i farisei e i dottori della legge, dicendo:
“Guai a voi che avete tolto la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito.” (Lc 11,52)
Questi sono i falsi maestri che, pur conoscendo le Scritture, non penetrano la Verità. Insegnano ad adornare le celle della mente, ma non a liberarsene. È la stessa denuncia che troviamo nei testi tantrici, nei quali la vera Vidyā è celata agli occhi di chi vive solo nell’esteriorità.

La Vidyā, al contrario, è la *Conoscenza liberante". Non è un accumulo di dati, ma un "processo di dissolvimento": sciogliere le identificazioni, superare i veli, attraversare la mente fino al Cuore. È il sentiero dell’intuizione, della resa, della visione unitaria.
Nello Yoga è il riconoscimento di Puruṣa, il Sé eterno. Nel Ta**ra, è il risveglio di Śakti che si ricongiunge a Śiva nel Sahasrāra.
Nel Vangelo è “il Regno che è dentro di voi” (Lc 17,21), ma che pochi vedono, perché accecati dalla luce esterna.

- Māyā attira chi cerca potere, prestigio, sicurezza, accumulo, dominio delle apparenze.
- Vidyā attrae chi cerca libertà, silenzio, verità, unione. È la via dei Rishi, degli Yogin, dei Santi.

I Maestri non condannano la via di Māyā, anzi, ma indicano che è incompleta. La utilizzano come ponte, ma invitano ad attraversarlo.
Come dice la Gītā:
“Molti sono coloro che cercano la conoscenza, ma pochi vedono Me, colui che risiede in tutti gli esseri.”
A chi è pronto, viene data la chiave. Ma sta al discepolo scegliere: abbellire la prigione o cercare la porta.
La Vidyā è questa porta.

Un abbraccio e buona domenica
A. 🙏🔱🌸

16/10/2025

● SEVA – Il Servizio Disinteressato

Nel linguaggio sanscrito, Seva significa “servizio offerto con devozione”. È un termine antico, che nei testi vedici e nelle Upaniṣad indica l’azione compiuta senza desiderio di frutto, come offerta al Divino.
Non è un’azione sociale o filantropica: è una sādhanā, una disciplina interiore che purifica l’ego e dissolve l’illusione della separazione tra “chi serve” e “chi riceve”.
Nei templi e negli āśram, Seva è parte integrante del cammino spirituale: pulire un pavimento, cucinare per la comunità, accogliere gli ospiti o semplicemente mantenere il silenzio con presenza e amore sono forme di servizio sacro, se l’intenzione è pura.

Nel mondo contemporaneo, soprattutto in Occidente, il concetto di servizio è stato spesso travisato.
Molti compiono “buone azioni”, organizzano eventi, raccolte fondi, scrivono libri, fanno volontariato — ma non per dissolvere l’ego, bensì per nutrirlo.
Il servizio diventa un palcoscenico: si vuole mostrare di essere buoni, di essere utili, di “fare qualcosa per gli altri”.
È un servizio mascherato da generosità, ma in realtà radicato nel bisogno di riconoscimento.
Il come diventa più importante del perché: si progettano attività, programmi e iniziative, ma si perde di vista la sorgente interiore da cui dovrebbe nascere l’atto.

Quando c’è l’idea di “io servo”, “io faccio del bene”, “io aiuto gli altri”, l’ego è già entrato in scena.
L’ego vuole essere il protagonista, anche della spiritualità.
Così, l’azione che dovrebbe dissolverlo lo rafforza.
Si crea un’identità sottile di “colui che serve”, un io spirituale che ha bisogno di conferme, di applausi interiori, di sentirsi nobile.
Ma finché c’è un agente che serve, non c’è Seva.
Il vero Seva accade quando non c’è più nessuno che dice “io sto servendo”.
Quando l’azione si compie da sé, come flusso naturale della Presenza, senza attesa, senza calcolo, senza ritorno.

Il vero Seva è un atto segreto.
Non ha spettatori, non cerca testimoni.
È un gesto invisibile che si dissolve nell’atto stesso.
Può essere un pensiero d’amore, un gesto silenzioso, una preghiera, una cura, una parola pronunciata nel momento giusto o un’azione che nessuno vedrà mai.
È il servizio reso al Divino che abita in ogni essere, non all’immagine dell’altro, né alla propria.
È un atto d’amore che non lascia tracce.

L’essenza del Seva non è il gesto, ma la motivazione.
Il gesto può essere identico — cucinare, parlare, scrivere, pulire — ma ciò che lo rende Seva o egoismo è da dove nasce.
Se nasce dal desiderio di apparire, di controllare, di essere ricordato o di sentirsi utile, allora non è Seva.
Se nasce dal silenzio, dalla gratitudine, dalla devozione, allora ogni piccolo atto diventa sacro.
La purezza del cuore è la misura di ogni servizio.

Nell’Aśram o nel percorso interiore, il Seva non è un dovere, ma un metodo di liberazione.
Mentre la mente serve, osserva se stessa: nota la resistenza, l’orgoglio, la ricerca di approvazione.
Attraverso il servizio, l’ego viene lentamente dissolto.
Ogni volta che si agisce senza desiderio personale, un velo cade.
Il Seva autentico non cambia il mondo esterno cambia la coscienza di chi lo vive.
Da qui inizia la vera trasformazione.

Il Seva non è un fare, è un essere.
Quando l’essere è puro, l’azione diventa spontanea, necessaria, perfettamente in armonia col tutto.
Il vero servitore non sa di servire.
Il suo cuore è aperto e la sua mano agisce, senza che la mente calcoli.
Allora il Seva non è più un atto di volontariato, ma un’estensione del Divino che opera attraverso l’essere umano.
È il servizio reso da Dio a Dio.

Quando l’ego si ritira, l’Amore comincia a servire.
Allora il gesto più piccolo diventa preghiera,
e il servizio più silenzioso diventa adorazione.

Sri Pranidhana

Dal 29 settembre. Om Gam Ganapataye Namaha 🙏🌸🔱
15/09/2025

Dal 29 settembre.
Om Gam Ganapataye Namaha 🙏🌸🔱

È ufficiale, da quest'anno si pratica anche a Bernezzo🧘🏻‍♀️

🗓️Dal 29 settembre

Presso le Opere Parrocchiali
📌Via Regina Margherita, 30 Bernezzo

QUANDO hai iniziato a preoccuparti per il denaro? Da bambino avevi quel pensiero? Quando fai l'amore hai quel pensiero? ...
12/09/2025

QUANDO hai iniziato a preoccuparti per il denaro? Da bambino avevi quel pensiero? Quando fai l'amore hai quel pensiero? Quando ridi a crepapelle, dove si trova quel pensiero?

Quando hai iniziato a provare orgoglio o senso di colpa per come appare il tuo corpo?
Quando canti spensieratamente la tua canzone preferita, quel pensiero è lì con te?
Senti la sua presenza quando sei immerso nella lettura di qualcosa che ti appassiona? O della tua serie TV preferita?

Quando hai iniziato a desiderare maggiore potere? Quando hai accolto il primo conflitto? Quando hai provato per la prima volta invidia, o gelosia?
Quando sprofondi in un abbraccio sincero, o ti imbarchi per la vacanza dei tuoi sogni, dove sono questi demoni?

Quando hai iniziato ad associare la vergogna all'inciampo, alla caduta, o al cambiamento?
Quando hai rinunciato alla curiosità barattandola con la "sicurezza"?

Quando, quando ,... Quando.... Lo vedi?

Ad un certo punto queste cose appaiono, poi scompaiono,... In un ciclo infinito... Come giorno e notte, come inspiro ed espiro, come le nuvole, come le folate di vento, come la fame,... Come tutto ciò che Tu sperimenti... Rifletti....Ma cosa rimane se togli tutto per un istante?

Eccoti fratello caro, eccoti!

Un abbraccio
A. 🙏🔱🌸

Tutto ciò che vedi, tutto ciò che tocchi, tutto ciò che credi di essere… è un’onda.Un’onda nell’oceano dell’Essere.  Nul...
06/09/2025

Tutto ciò che vedi, tutto ciò che tocchi, tutto ciò che credi di essere… è un’onda.
Un’onda nell’oceano dell’Essere.

Nulla è separato. Nulla è stabile. Nulla è tuo.

Il corpo cambia, i pensieri passano, le emozioni si dissolvono.
La gioia, il dolore, la paura, l’amore… sorgono, vibrano e svaniscono.
Come nuvole nel cielo, non lasciano traccia nell’azzurro eterno.

Ma l’oceano non scompare con l’onda.
Tu non sei l’onda.
Tu sei il Mare.

Quando comprendi l’interrelazione di ogni forma, smetti di aggrapparti.
Quando comprendi l’impermanenza, smetti di temere.
E nasce un’altra qualità: la libertà.
La libertà di vivere intensamente ogni attimo,
senza possederlo, senza imprigionarlo.

Osserva. Lascia che tutto appaia. Lascia che tutto passi.
Rimani come il Sé: silenzioso, testimone, immutabile.

In questo riconoscimento, la Vita si rivela per ciò che è:
un Lila, un gioco divino…
in cui nulla è separato da Te.

Un abbraccio
A. 🙏🔱🌸

Indirizzo

Via Della Battaglia 186
Cuneo
12100

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Ganesh - Scuola di yoga e meditazione. Anche on-line

Dal 5 aprile 2020 il centro Ganesh offre la possibilità di seguire un percorso di pratica quotidiana, anche online.

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