
24/09/2025
Bellissima riflessione sul tema della salute mentale e suicidio.
𝐎𝐠𝐠𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐨𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐞𝐯𝐞𝐧𝐭𝐨 (𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐞𝐝𝐞𝐭𝐞 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨) 𝐨𝐫𝐠𝐚𝐧𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐨 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐦𝐨𝐝𝐨 𝐢𝐦𝐩𝐞𝐜𝐜𝐚𝐛𝐢𝐥𝐞 𝐝𝐚𝐥 𝐏𝐫𝐨𝐟𝐞𝐬𝐬𝐨𝐫 𝐌𝐚𝐮𝐫𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐏𝐨𝐦𝐩𝐢𝐥𝐢. 𝐌𝐢 𝐯𝐞𝐧𝐠𝐨𝐧𝐨 𝐢𝐧 𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐚𝐥𝐜𝐮𝐧𝐞 𝐫𝐢𝐟𝐥𝐞𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐬𝐮𝐥 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐨𝐫𝐫𝐞𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐯𝐢𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐯𝐨𝐢. 𝐏𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐯𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨 𝐢𝐥 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐨 𝐫𝐢𝐦𝐚𝐧𝐞 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐟𝐨𝐧𝐝𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐥𝐞, 𝐧𝐨𝐧 𝐬𝐦𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫𝐨̀ 𝐦𝐚𝐢 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐩𝐞𝐭𝐞𝐫𝐥𝐨.🆘
💬 𝐅𝐚𝐭𝐞𝐦𝐢 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚𝐭𝐞 𝐬𝐮 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐟𝐞𝐧𝐨𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐭𝐞𝐫𝐫𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞 (𝐬𝐞 𝐩𝐨𝐭𝐫𝐨̀ 𝐩𝐨𝐬𝐭𝐞𝐫𝐨̀ 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐜𝐡𝐞 𝐟𝐨𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐨𝐧𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐨).
Il suicidio non è un sussurro, ma un urlo silenzioso che si propaga nel vuoto lasciato da una vita che si spezza. Per comprenderlo, dobbiamo prima spogliarlo del giudizio e del romanticismo oscuro con cui la cultura lo ha spesso ammantato, e guardarlo per ciò che realmente è: il tragico punto di arrivo di un dolore insopportabile. Non è il desiderio di abbracciare il vuoto, ma la fuga disperata da un incendio che divora l'anima. Immaginiamo una persona intrappolata ai piani alti di un edificio in fiamme: la sua scelta di saltare dalla finestra non nasce da un'attrazione per il volare, ma dalla certezza che le fiamme alle sue spalle rappresentano una sofferenza ancora più grande e ineludibile. Il suicidio è quel salto e il dolore psichico è quell'incendio. Noi tutti non possiamo permetterci di ignorarlo.
𝐍𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐠𝐫𝐚𝐧𝐝𝐞 𝐦𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨𝐫𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐜𝐚𝐬𝐢, 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐝𝐢𝐨 𝐞̀ 𝐚𝐥𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐞 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐧𝐮𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐮𝐧 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐮𝐫𝐛𝐨 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐡𝐢𝐚𝐭𝐫𝐢𝐜𝐨, 𝐝𝐮𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐢𝐥 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐮𝐫𝐛𝐨 𝐬𝐢 𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐚 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨. Patologie come la depressione maggiore, il disturbo bipolare, la schizofrenia, i disturbi d'ansia o di personalità non sono semplici stati d'animo o debolezze caratteriali; sono alterazioni profonde della biochimica e della struttura del cervello. Agiscono come un filtro percettivo che distorce la realtà fino a renderla irriconoscibile. La depressione, ad esempio, non è tristezza: è un ladro che ruba i colori al mondo, lasciando solo sfumature di grigio. Sottrae il sapore al cibo, il piacere alle passioni, il significato alle relazioni. In questo paesaggio desolato e monocromatico, il pensiero della morte può apparire non come una tragedia, ma come l'unica, logica via d'uscita, l'unica promessa di pace. Il disturbo bipolare, con le sue oscillazioni violente tra un'euforia insostenibile e una disperazione abissale, può essere paragonato a un viaggio su una nave senza timone in una tempesta perenne e il suicidio diventa il tentativo estremo di fermare il moto ondoso che sfinisce ogni risorsa. La schizofrenia, con le sue allucinazioni e i suoi deliri, può frantumare il confine tra sé e il mondo, creando una realtà terrificante da cui la morte sembra l'unica liberazione. Queste malattie non convincono la persona a morire, ma la intrappolano in una versione così dolorosa dell'esistenza che l'alternativa terribile e pericolosa diventa, alla loro vista distorta dalla malattia, una soluzione razionale.
𝐓𝐮𝐭𝐭𝐚𝐯𝐢𝐚, 𝐬𝐚𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐮𝐧 𝐞𝐫𝐫𝐨𝐫𝐞 𝐫𝐢𝐝𝐮𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐥𝐞𝐠𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐧𝐝𝐢𝐬𝐬𝐨𝐥𝐮𝐛𝐢𝐥𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨 𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐝𝐢𝐚𝐠𝐧𝐨𝐬𝐢 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐡𝐢𝐚𝐭𝐫𝐢𝐜𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐧𝐭𝐞. La resilienza umana, per quanto straordinaria, ha un punto di rottura. Possiamo pensare alla psiche come a un ponte. Un disturbo psichiatrico è come una crepa strutturale che rende il ponte vulnerabile anche al traffico ordinario. Ma anche il ponte più solido e meglio costruito del mondo può crollare se sottoposto a un cataclisma imprevisto e di magnitudo soverchiante: un terremoto, un'alluvione. Allo stesso modo, un individuo senza alcuna chiara patologia pregressa può essere spinto oltre il limite da eventi della vita catastrofici: un lutto devastante e improvviso, un tracollo finanziario che annienta un progetto di vita, una diagnosi medica terminale, un trauma violento. In questi casi, il dolore non è filtrato da una percezione malata, ma è una risposta diretta e proporzionata a una realtà divenuta oggettivamente intollerabile. È il collasso di ogni speranza, la disintegrazione del senso stesso del proprio futuro. L'incendio, qui, non è divampato lentamente dall'interno, ma è stato appiccato dall'esterno con una violenza inaudita, consumando in fretta ogni via di fuga.
Ed è proprio qui, nel punto di massima fragilità, sia essa cronica o acuta, che si svela il paradosso più grande e la verità più importante: 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐨.
In una società che esalta l'autosufficienza, ammettere di non farcela è a volte visto (erroneamente) come un fallimento.
Ma nel contesto del dolore psichico, 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐨 𝐞̀ 𝐥’𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐜𝐨𝐫𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨𝐬𝐨 𝐞 𝐥𝐮𝐜𝐢𝐝𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐮𝐧 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐦𝐚𝐧𝐨 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐢𝐞𝐫𝐞.
È l'equivalente di chi, nell'edificio in fiamme, invece di saltare, usa le sue ultime energie per gridare, per segnalare la sua presenza, per aggrapparsi alla speranza che qualcuno possa sentire e tendere una scala.
𝐂𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐚𝐫𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐬𝐢 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐨𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚, 𝐦𝐚 𝐝𝐢𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚𝐫𝐥𝐞 𝐠𝐮𝐞𝐫𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐥’𝐮𝐧𝐢𝐜𝐚 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐞𝐠𝐢𝐚 𝐯𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐭𝐞: 𝐥’𝐚𝐥𝐥𝐞𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐭𝐞𝐫𝐚𝐩𝐞𝐮𝐭𝐢𝐜𝐚. È permettere a un'altra persona – un amico, un familiare, un terapeuta, un medico, meglio ancora tutti e quattro – di vedere l'incendio che noi non riusciamo più a dominare e di aiutarci a trovare gli estintori, le uscite di sicurezza, o semplicemente di versare un po' d'acqua sulle fiamme per darci il tempo di respirare.
È la mano tesa che può fermare la caduta, la voce che può guidare fuori dal buio, la prova che nessun urlo, per quanto silenzioso, è destinato a perdersi per sempre nel vuoto.
Vi rimando a questo articolo molto interessante (per chi lo vuole leggere posso mandarlo in pdf)
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Pompili M, De Berardis D, Dell'osso B, Forte A, Innamorati M, Rogante E, Sarli G, Serafini G, Amore M. Su***de and suicidal behaviors: insight into clinical challenges and preventive measures. Expert Rev Neurother. 2025;25(9):1011-1026.