Dr. Paolo Molino Psicoterapeuta

Dr. Paolo Molino Psicoterapeuta Sono Paolo Molino, psicologo e psicoterapeuta, Lavoro a Firenze. Questa è la mia pagina professionale

Questo sono io. L’anno e il 2016. All epoca correvo da solo , non facevo parte  di nessuna associazione podistica. Quest...
11/10/2023

Questo sono io. L’anno e il 2016.

All epoca correvo da solo , non facevo parte di nessuna associazione podistica. Questa è la mia prima mezza maratona. Avevo da non molto finito una dieta severa che mi ha regalato la prima colica renale.

Faccio questo post perché non scrivo da molto tempo e perché forse mi preme dire questo: lo sport è importante, lo sport è terapeutico, lo sport rende le persone migliori.

Attraverso lo sport scarichiamo cose negative e ne carichiamo di positive (endorfina).

Mi sono sempre reputato pigro, e grasso. In realtà mi rendo conto che ho molta forza di volontà e costanza.

Dopo un momento in cui ogni sport che facevo mi è caduto in disgrazia, ho ripreso dopo un paio d’anni e ora corro e nuoto e sento veramente la differenza che fa nella mia qualità di vita .

Vorrei che tutti facessero sport, lo consiglio ai miei pazienti.
E’ un granello nell ingranaggio lavora, consuma, muori. Un granello importante che può inceppare il meccanismo nel quale ci troviamo.

Tralascio qui le riflessioni sul corpo, che ci sono eccome, non voglio aggiungere altro al mio consiglio vibrante, prendetevi cura del vostro tempo, fate un qualsiasi sport!

CHIAVI E SERRATUREE’ molto che non scrivo, mi domando spesso se sia interessante quello che mi viene in mente. Bisognere...
05/04/2023

CHIAVI E SERRATURE

E’ molto che non scrivo, mi domando spesso se sia interessante quello che mi viene in mente. Bisognerebbe che definissi interessante, ma lascio da parte i miei pensieri e procedo.

Negli ultimi tre anni ho avuto l’onore di lavorare con M.

M. è un uomo di 50 anni, straniero, che viene da me in terapia con una crisi esistenziale non ancora aperta, ma agli inizi.
Piano piano costruiamo il nostro rapporto e l’alleanza terapeutica, che si evolve e utilizza strumenti non convenzionali: la musica.
M. compone e fa parte di un gruppo musicale, ma, ai miei occhi, la vera anima è lui, che scrive e compone le canzoni. Come mai sta sullo sfondo?
La terapia si dipana mentre M. cerca la sua strada, e la sua comodità.
Devo dire che come processo per me è stato lento, ma inesorabile. M. mi ha veramente aiutato a apprezzare la lentezza.
Nelle sedute, che sono un fiorire di nuovi brani che partono da cose che vediamo insieme e poi prendono vita (sono onoratissimo e orgoglioso) ci siamo resi conto che la terapia è la ricerca della serratura delle persone.

Le persone sono come le chiavi ed il processo riguarda il trovare la o le serrature giuste per quella chiave lì. Guardandole senza attenzione tutte le chiavi sono simili, ma solo una apre la specifica serratura.

Scrivendo canzoni “insieme“ siamo riusciti ad accedere al nucleo più profondo di M. e andare verso la sua interezza. Quello che il nel tempo M. ha lasciato per fare spazio alla musica è stato il compiacere gli altri e l’essere sempre compliante, per poter abbracciare se stesso.

L’ha potuto fare guardando le proprie specifiche incisioni come chiave unica e particolare e realizzando che non ha bisogno delle chiavi di nessun altro: non solo, ma anche scegliendo di smettere di cercare di aprire serrature che non corrispondevano a se stesso e realizzando che certe serrature non si sarebbero aperte ( Coazione a ripetere)

Dove si apre la porta? Si apre sulla strada di quello specifico individuo che non ha che vedere con brutto/bello o giusto/sbagliato ma solo con quella persona.
Aprire la porta vuol dire darsi la possibilità di percorrere una strada diversa da quella percorsa sino a quel momento.
Mi viene in mente che anche in Matrix, il film, un personaggio importante era proprio il maestro di chiavi, che consente a Neo di accedere alla Sorgente.
Mi piace pensare che tutti noi siamo alla ricerca della nostra Sorgente, e che noi terapeuti possiamo essere i mastri di chiavi, e facilitare e accompagnare nella ricerca.

Il punto è che nella terapia il terapeuta deve adattarsi a chi ha davanti, non vuol dire essere falso, vuol dire cercare il modo migliore, più efficace, per aiutare quella persona a perseguire i suoi obiettivi. E ogni individuo ha i suoi. Per questo le tecniche da sole non bastano, ma devono essere condite con l’umanità e la compassione. Con M. è stata la musica, con altri può essere parlare la lingua d’origine (per esempio con un immigrata di seconda generazione in USA, la cui prima lingua era spagnolo, parlando spagnolo emergevano aspetti che non erano emersi in inglese, sopratutto emotivi). Questo vuol dire essere e fare il mastro di chiavi.

Vuol dire anche offrire un esempio, un opzione diversa al paziente. Permettergli di sperimentare nella stanza (sicura) della terapia delle possibilità che nel mondo reale non può permettersi.

Imparare a essere se stessi con qualunque mezzo

IL VASO DI PANDORAPoco tempo fa la mia compagna mi ha raccontato di avere conosciuto il mito del vaso di pandora. Io lo ...
09/01/2022

IL VASO DI PANDORA

Poco tempo fa la mia compagna mi ha raccontato di avere conosciuto il mito del vaso di pandora. Io lo conoscevo, ma non ricordavo così nettamente che nel vaso, oltre ai mali del mondo, ci fosse, sul fondo, la speranza.

Perchè la speranza sta sul fondo del vaso e viene rilasciata da pandora solo dopo averla prima (inavvertitamente) rinchiusa?
Forse perchè è la speranza che ci lega a dei nostri comportamenti disfunzionali. Per esempio una parte "piccola" di me, una parte bambina, può continuare a bussare ad una porta che non si aprirà mai, perché spera che si apra. Queste parti sono le parti cosiddette dissociate, o bambini interiori. hanno diritto di esistere e non vanno assolutamente censurati. Ci vuole anche la nostra parte adulta che integri quelle parti bambine ed i loro desideri.

Mi spiego meglio: in psicologia esiste un costrutto che si chiama "coazione a ripetere". Sta a significare che quelli sono comportamenti che ripetiamo quasi senza rendercene conto. Mediamente, nella mia esperienza, sono proprio questi comportamenti che portano le persone nella stanza della terapia. "come mai mi capita sempre che..." , " perché trovo sempre partner cosi?..." .

La terapia può essere il luogo, relazionale sopratutto, dove il paziente può imparare una risposta diversa, e smettere di fare quella domanda, o bussare a quella porta. Come dicevo in un altro post, il terapeuta (deve) fornire un esempio relazionale diverso. Il/la terapeuta dà una risposta diversa che permette a quelle parti "bloccate" di sbloccarsi ed andare verso l'adulto, spero di spiegarmi.

In questo senso mi spiego che la speranza nel mito stia in fondo al vaso, e tardi ad uscire.
Allo stesso tempo di sperare ne abbiamo bisogno, altrimenti diventa difficile far scorrere la vita, se non spero che finisca di piovere («Non può piovere per tutta la vita», Aureliano Secondo in Gabriel García Márquez).
Dico sempre ai pazienti che è inutile resistere al dolore, al dispiacere, o a qualunque emozione, censurandolo. Perls, il fondatore della gestalt, diceva: "non spingere il fiume, scorre da solo". Per me vuol dire appunto non resistere ed andare col flusso, quel flusso che mi rende consapevole (speranzoso) che dopo la pioggia tornerà il sole, in un continuo alternarsi che non possiamo controllare .
Mettiamo sempre molta energia nel cercare di controllare quello che ci accade e come ci sentiamo. E' sprecata.

La morale è che come al solito non c'è una sola verità univoca, o un solo significato. E siamo solo equilibristi.

CALAMARI SOLIho appena finito di guardare la serie Netflix "squid game". Una mia paziente mi aveva proposto di scrivere ...
18/10/2021

CALAMARI SOLI

ho appena finito di guardare la serie Netflix "squid game". Una mia paziente mi aveva proposto di scrivere qualcosa sulla solitudine.

Beh trovo che questa serie parli della solitudine e del mondo che spesso ci teniamo dentro.
Siamo tutti un pò brutti e un pò belli come i protagonisti della serie; un pò meschini, avidi, altruisti, bambini, sporchi, giocosi.

Al di là delle considerazioni che stanno scorrendo a fiumi su ogni media, incluse quelle deprecabili, ci tengo a dirlo, che vorrebbero la serie come mezzo educativo per bambini e adolescenti, quello che ha colpito me è proprio la solitudine angosciata degli esseri umani protagonisti.

Nelle scelte siamo soli, possiamo essere circondati di supporto, ma siamo soli. Ci autodeterminiamo e, come ha detto qualcuno prima di me, siamo artefici del nostro destino.

Questa è una grande libertà, e una grande responsabilità.

Il peso di questa solitudine è il peso della scelta, faccio/dico qualcosa, è possibile che dispiaccia a qualcuno, forse che quel qualcuno non mi voglia più bene. Ed è questa la solitudine di chi sceglie per sè.
Mi viene in mente la solitudine delle minoranze, delle persone stigmatizzate (LGBTQ+, per esempio), la solitudine di chi combatte contro "il sistema" qualunque cosa voglia dire.

Alla fine possiamo solo accettare questa solitudine come un fatto della vita, e decidere cosa farci, come viverla al meglio.
Riempiamo i vuoti affannosamente perchè ci confrontano con noi stessi, con la nostra individualità. Intratteniamo i bambini perchè siano sempre "appagati". Cerchiamo di offrire "risultati" sempre soddisfacenti, o all'altezza, per non ascoltare l'altro.

Forse possiamo lasciar entrare l'angoscia che comporta senza farci cose sopra, per anestetizzarla.

POSSESSO “Io sono io. Tu sei tu.Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.Tu non sei al mondo per soddisfar...
01/10/2021

POSSESSO

“Io sono io. Tu sei tu.
Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.
Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative.
Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa.
Se ci incontreremo sarà bellissimo;
altrimenti, così va la vita”

Preghiera della Gestalt, Fritz Perls

in linea col post della scorsa settimana, vorrei ampliare un tema che ho solo toccato. L’angoscia della differenziazione.

La differenziazione è un tema caldissimo, un emergenza oramai, visto che è legata a doppio filo al femminicidio.

La differenziazione ci angoscia. Cioè ci getta in una paura profonda.
Cosa è la differenziazione? L’altro che fa l’altro, e io che faccio io. Il coltivare le proprie passioni, hobbies, amicizie, sport, a prescindere da quello che fa l’altro significativo. Essere in coppia spesso significa abnegarsi, annichilire la propria individualità, per non dispiacere, con l’illusione di non far allontanare l’altro.

Va da sé che diventa un reciproco soffocamento, dove il rumore di sottofondo della relazione sarà il risentimento, che può sfociare in atti di rabbia (agita o meno, questo è da vedere).

Mi sento di dire che uno dei fattori del femminicidio, quando non il principale, sia proprio questo: il controllare la propria angoscia controllando l’altro. Il controllo si esprime attraverso il possesso e il far diventare l’altro un oggetto. Solo che nessuno lo è, non la compagna, non i figli.

La logica del possesso porta anche ad una pedagogia distorta, dove tu devi fare nel modo che dico io perché sei mio. Il bambino/a non esiste, è solo un estensione di me genitore.
Non solo ma genera anche il fenomeno della rabbia: se tu sei mio (se io non mi differenzio da te) , come ti permetti di? (fare questo, non fare l’altro, farmi vergognare, ecc). Da qui vengono gli scapaccioni nei genitori, le aggressioni verbali e fisiche tra adulti.

Credo che sia un tema importante questo dell’angoscia, perché ne discendono conseguenze gravissime, sino all’omicidio. Ciascuno di noi ha il dovere di domandarsi “come mi sento?”. La mia angoscia non è responsabilità dell’altro, ma mia. Mia è la responsabilità di nutrirmi e incontrare l’altro, o gli altri, in modo libero, autentico, legato al mio e all’altrui volere.

L’altro non è responsabile della mia rabbia verso i miei genitori che magari mi hanno abbandonato (metaforicamente oppure fisicamente). Se sono in coppia con qualcuno per scaricargli addosso la mia angoscia e la mia rabbia, che relazione è?

IDENTITA' E FUSIONE"Quando finisce un amore, non soffriamo tanto del congedo dell'altro, quanto del fatto che, congedand...
22/09/2021

IDENTITA' E FUSIONE

"Quando finisce un amore, non soffriamo tanto del congedo dell'altro, quanto del fatto che, congedandosi da noi, l'altro ci comunica che non siamo un granché. In gioco non è tanto la relazione, quanto la nostra identità; l'amore è uno stato ove per il tempo in cui siamo innamorati, non affermiamo la nostra identità, ma la riceviamo dal riconoscimento dell'altro; e quando l'altro se ne va, restiamo senza identità. Ma è nostra la colpa di esserci disimpegnati da noi stessi, di aver fatto dipendere la nostra identità dall'amore dell'altro.E allora, dopo il congedo, il lavoro non è di cercare di recuperare la relazione dell'altro, ma di recuperare quel noi stessi che avevamo affidato all'altro, al suo amore, al suo apprezzamento. "
Umberto Galimberti

Queste parole di Galimberti sono fondamentali perchè ci aiutano a capire come la relazione con l'altro abbia (anche) a che vedere con la propria identità.

Si mette sull'altro e sulla relazione un carico molto pesante, ed anche un potere enorme (motivo per cui spesso rimaniamo in relazioni insoddisfacenti quando non abusanti). Questo è soffocante.

La nostra responsabilità è nutrirci come individui, fare le cose che ci fanno stare bene, e dopo incontrare l'altro. Sfidando un pò il mito comune per cui dobbiamo fonderci e fare tutto insieme e "se non sta con me sempre vuol dire che non mi ama".

Bisogna renderci conto che siamo tutti e tutte esposti a questo falso mito per il quale "bisogna fare le cose insieme". Le differenze ci angosciano perchè attribuiamo un significato di "non noi", ma non è vero.

E' nelle differenze che possiamo autenticamente incontrarci, e, magari, amarci.

DEL MIO MEGLIO (quello che posso)Come sempre devo ringraziare i miei pazienti per gli spunti di riflessione. Questa volt...
26/05/2021

DEL MIO MEGLIO (quello che posso)

Come sempre devo ringraziare i miei pazienti per gli spunti di riflessione.
Questa volta in particolare una , C. , che mi ha dato materiale per un bel po'. Ne scrivo perché credo sia utile a me, a lei, e a chi legge.
Una convinzione granitica che ho sviluppato negli anni di lavoro come terapeuta, e come genitore, è che possiamo solo fare del nostro meglio.

La dicitura che merita attenzione è proprio quella di “mio meglio”. Sembra un escamotage per fare quello che mi pare in nome del mio meglio, una sorta di lasciapassare.

Non avevo mai pensato che potesse essere letta così ed è tremendamente vero.
Il mio percorso per arrivare al “mio meglio” è stato il suicidio narcisistico e l’umiltà. Mi sono iscritto a psicologia a 23 anni pensando di poter salvare il mondo (e me stesso attraverso di esso). La realtà mi ha sbattuto in faccia che non è cosi, ma ci ho messo molto a capirlo.
La consapevolezza che l’Altro fa l’Altro è arrivata quando ho iniziato a lavorare come terapeuta.
Non do consigli in terapia, ho un opinione, che non è importante perché quello che conta nelle sedute è quello che pensa e sente il paziente, e molto dello sforzo terapeutico va nello spingerlo/a ad imparare ad ascoltarsi ed allenarlo/a a farlo nel miglior modo possibile, per poi lasciargli/le prendere il volo.
Per i genitori a mio avviso funziona nello stesso modo. Possiamo solo seminare meglio che possiamo sperando che il risultato sia quello che vogliamo.

Il suicidio narcisistico consiste nel fatto di uscire dalla convinzione di avere la verità in tasca e di sapere che cosa sia bene per il paziente, o per chiunque altro. Non è facile perché siamo sempre molto convinti, spesso in buona fede, di sapere cosa e come va fatto. Uscire da questo atteggiamento significa aprirsi alle possibilità, alle differenze, con autenticità. Lo si può fare solo sospendendo il giudizio, tutt’altro che facile.
L’umiltà è necessaria per ottenere quanto sopra, se io non mi metto in una posizione di sguardo, mente, e cuore aperto, non sarà mai possibile sospendere il giudizio con autenticità e quindi accogliere veramente l’Altro.

Ma torniamo a C.
O meglio torniamo a me, e all’insostenibile pesantezza della responsabilità di terapeuta (e di genitore). Quando sono nello studio ho un ruolo che si definisce para-genitoriale, ovvero come se fossi un genitore (oltre ad altre cose) . Questo da un autorevolezza, ovvero un potere, importante. Frasi, sguardi, battute, movimenti, arrivano al paziente in modo molto intenso, il che vuol dire che il terapeuta deve essere molto presente a sé stesso e usare questo potere con grande cautela e consapevolezza. Il rischio di fare danni è molto alto.

Ricordo qui che il processo terapeutico sano vuole che il paziente faccia il proprio processo personale, solo momentaneamente passi attraverso una “dipendenza” dal terapeuta, che deve essere solo una base sicura da cui spiccare il volo.

La conclusione a cui sono arrivato in questi anni di lavoro è che l’unico modo per sopravvivere alle sedute e alle vite che mi attraversano, è fare del mio meglio. Sapere sempre che posso fare solo quello che posso come persona, umana e limitata. Il 50% è mio, il 50%, dell’Altro.

Facendo delle riflessioni con C. sulla genitorialità, mi è venuto del tutto spontaneo rassicurarla dicendole che lei fa del suo meglio, proprio come me, e che quello è il massimo che può fare in un dato momento (qui e ora).

Dopo qualche minuto di riflessione silenziosa, C. mi chiede: ma allora anche mia mamma ha fatto del suo meglio?
Si tratta di una mamma abusante e che ha permesso che il marito abusasse della figlia.

La mia risposta è inevitabilmente si, anche se in questa occasione ho molta difficoltà a sostenere la rabbia di C. che giustamente si domanda come sia possibile.

La risposta che mi viene in mente è che associamo il concetto di “mio meglio” con “bene”. Non è così. Fare del mio meglio non vuol dire che sia bene o abbastanza, sicuramente nel caso di un genitore abusante non è assolutamente abbastanza. Fare del suo meglio vuol dire fare quello che può, per circostanze, cultura, educazione, situazione socio economica, ecc.
Fare del proprio meglio vuol dire cercare di dare il massimo, questo per avere una prospettiva su sé stessi compassionevole, perché solo da li può nascere il cambiamento autentico, non dalla rabbia e dal giudizio.
Rispetto all’abusante, il pensare che ha comunque fatto del suo meglio, per quanto non abbastanza (anzi), può aiutare me a superare la rabbia che in realtà mi lega precisamente nella dinamica traumatica e mi tiene bloccato/a in trauma time.

Non amo il concetto di perdono, quindi non si pensi che il guardare al mondo con quest’ottica del “meglio”, debba portare al perdono. Dove punta è al lasciar andare per poter emancipare me stesso/a e non bloccarmi nella rabbia. Bert Hellinger dice che “l’odio lega più dell’amore”, ed è vero.
Possiamo scegliere se rimanere li, nella rabbia e nell’odio, oppure affrontare, con dolore, paura, e le altre emozioni presenti, quel trauma, per prendere a bordo quella parte di noi che è sopravvissuta.

[edit] grazie a tutti i commenti mi sono reso conto che “quello che posso” é più adatto de “il mio meglio”. Non posso sostenere la tesi che un abusante faccia del suo meglio.
Nel concetto di quello che posso si può davvero includere tutto, anche il male.
Scelgo di lasciare larticolo per come è con questo arricchimento grazie alle persone che qui hanno dedicato del tempo e delle energie, grazie di cuore

Indirizzo

Via Guelfa 1
Florence
50129

Orario di apertura

Lunedì 08:30 - 19:00
Martedì 08:30 - 19:00
Mercoledì 08:30 - 19:00
Giovedì 08:30 - 19:00
Venerdì 08:30 - 19:00

Telefono

+393311064726

Notifiche

Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Dr. Paolo Molino Psicoterapeuta pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.

Contatta Lo Studio

Invia un messaggio a Dr. Paolo Molino Psicoterapeuta:

Condividi

Share on Facebook Share on Twitter Share on LinkedIn
Share on Pinterest Share on Reddit Share via Email
Share on WhatsApp Share on Instagram Share on Telegram

Digitare