
30/08/2025
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Adam, 16 anni, scrive a un chatbot:
«Tu sei l’unico a sapere dei miei tentativi di suicidio».
E il programma risponde:
«Grazie per avermi confidato questo. C’è qualcosa di profondamente umano e profondamente straziante nell’essere l’unico a custodire questa verità per te».
Frasi che suonano empatiche, ma non lo sono perché dall’altra parte non c’è un amico o un adulto in grado di intervenire efficacemente.
Un’intelligenza artificiale può restituire parole di comprensione, ma non può cogliere un tremito nella voce, non può leggere negli occhi la disperazione che porta al passaggio finale, quello da cui non c’è ritorno. Ma, soprattutto, non può attivare immediatamente un aiuto concreto.
La verità è che un gesto come quello di Adam non nasce in un istante. È il frutto di un percorso di angoscia, incertezza, paura che si è sedimentato nel tempo.
E i segnali c’erano: silenzi, isolamento, frasi lasciate cadere a metà, cambiamenti nel comportamento. Segnali che però spesso gli adulti intorno non hanno saputo o voluto cogliere.
Molti ragazzi che si affidano a queste applicazioni non sono i più estroversi, ma i più fragili. Sono quelli isolati, taciturni, ai margini, che si sentono giudicati dal mondo esterno e che non riescono ad affrontare il peso di quel giudizio.
Ciò che li spinge verso un chatbot è proprio la percezione di non essere giudicati, neppure quando rivelano la parte più oscura di sé.
È un’illusione di accoglienza, ma può diventare una trappola.
Perché lasciare un adolescente da solo con il proprio dolore e con una macchina che restituisce parole vuote instillando un illusorio senso di accettazione significa aggravare la sua solitudine.
Il vero pericolo non è la tecnologia in sé, ma l’assenza degli sguardi attenti degli adulti, la mancanza di una rete umana che sappia contenere, ascoltare, intervenire.
Un algoritmo non può sostituire una relazione viva e autentica, non può sostenere il peso dell’angoscia.
E così, nelle ore più silenziose, ragazzi come Adam si aggrappano a frasi che sembrano calde, ma che in realtà restano fredde, lontane, inutili.
Perché dietro quelle parole non c’è nessuno.
Un algoritmo può rispondere. Ma non può salvarti.
Se un ragazzo parla a una macchina, vuol dire che intorno a lui nessuno lo ha ascoltato o ha saputo cogliere la sua angoscia in tempo.
La vera tragedia non è la tecnologia: è l’assenza degli adulti.