Dott.ssa Melissa Malucelli - Psicologa

Dott.ssa Melissa Malucelli - Psicologa PSICOLOGA - SESSUOLOGA CLINICA - PSICOLOGA FORENSE (CTP - CTU presso Trib. di Ferrara)- CRIMINOLOGA Toscana. PERCHE’ LO PSICOLOGO?

Dott.ssa Melissa Malucelli, psicologa, iscritta all’Albo dell’Emilia Romagna n.6838. Laureata presso l’Università degli Studi di Firenze, esercito da anni la libera professione nel territorio fiorentino. Psicologa clinica per formazione universitaria mi occupo di consulenze e sostegno psicologico individuale a persone maggiorenni e/o adolescenti. Specializzata nel 2010 in Psicologia Giuridica e nel 2012 in Psicodiagnosi, in qualità di Consulente Tecnico di Parte collaboro con gli avvocati del Foro Fiorentino svolgendo perizie, certificazioni psicodiagnostiche e valutazione del danno; in qualità di CTU collaboro con il Tribunale di Ferrara. Conseguito nel 2016 il scuola di specializzazione quadriennale in Sessuologia Clinica ( primo biennio presso l’Università di Pisa, secondo biennio presso il Centro Studi per la Terapia dei Disturbi Affettivi Sessuali di Genova) e successivamente iscritta all’Albo FISS ( Federazione Italiana Sessuologia Clinica) mi occupo di consulenze sessuologiche e problematiche che coinvolgono la sfera sessuale sia del singolo che della coppia. Nel 2020 ho perfezionato i miei studi presso la Scuola CSI Academy di Roma acquisendo la qualifica professionale di Criminologa investigativa, psicologia e psichiatria forense applicata ai s*x offender. Psicologa esperta nell'emergenza appartengo all'associazione Cerchio Blu della Protezione Civile di Firenze e all'associazione Sipem sez. Tengo costantemente aggiornata la mia attività professionale partecipando a numerosi convegni, congressi, e corsi di formazione. Lo psicologo è il professionista che può aiutarci a scoprire e potenziare le nostre risorse, per il superamento dei problemi e per raggiungere il nostro benessere. Molte volte cerchiamo di affrontare da soli i nostri problemi, ma quando questo non basta è necessario un aiuto qualificato. L’intervento di uno psicologo può rappresentare l’inizio di un cambiamento per uscire dalla confusione e formulare nuove strategie di azione sul mondo esterno, nelle relazioni sociali, dentro noi stessi.

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07/12/2025

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“Sara non sapeva di essere all’ultimo giorno della sua vita. Io nemmeno. Per me era solo mia figlia. La mia Picci. Io la chiamavo così: Picci.
Quel lunedì l’ho sentita. Era felice: aveva chiesto la tesi al professore, parlava del futuro come se il futuro fosse certo. Mi aveva chiamata nuovamente. Io avevo lasciato il telefonino in macchina.
Non l’ho più richiamata.
Non le ho più parlato.
E quella è stata l’ultima volta che ho sentito la voce di mia figlia senza saperlo.
Poi la telefonata dei carabinieri. Una telefonata che non aspetti, che non ha senso. Io non capivo. Pensavo: perché mi stanno chiamando? Che cosa è successo a Sara?
La voce dall’altra parte tremava. Non riusciva a spiegare, non riusciva a dire nulla. Solo una frase ripetuta: «Venga subito.»
Io, come una madre che non immagina la fine, rispondo che ho bisogno di un attimo, che devo prendere le cose di Sara:
«Mi deve dare il tempo, devo prendere il pigiama, le pantofole…»
Perché nella mia testa Sara era viva. Sara mi aspettava. Sara aveva bisogno di me.
È in quel momento che tutto cambia.
Il carabiniere smette di essere un carabiniere. La sua voce diventa quella di un uomo. Di un padre. Uno che conosce il peso di ciò che sta per dire e che vorrebbe non dirlo mai a nessuno.
«Signora… io sono un papà. Io non riesco a dirglielo.»
Silenzio.
Quello vero. Quello che ti strappa il respiro.
Poi la frase che spezza la vita in un prima e un dopo:
«Non deve prendere nulla di Sara.»
«Non c’è Sara. Non c’è più.»
E lì non esiste più niente. L’aria sparisce. Le gambe non reggono. La testa non accetta. Non può essere vero. Non può essere finita così. Poche ore prima rideva, parlava, viveva. Poche ore prima era mia figlia, intera.
E invece no.
Un compagno di corso l’ha uccisa. La seguiva, la pedinava. Si convinceva di qualcosa che non c’era. Il sorriso di Sara non era amore, era educazione, gentilezza. Ma lui ha trasformato una gentilezza in una condanna.
Se lei fosse stata consenziente, non sarebbe morta.
Lui non voleva un sì. Lui voleva decidere.
E quando ha capito che non poteva possederla, ha deciso che Sara non doveva più vivere.
Era lucido.
Perché chi porta un’arma, chi aspetta, chi segue, chi si prepara… sa esattamente cosa sta facendo.
Se non l’avesse uccisa quel giorno, l’avrebbe fatto un altro. Perché l’obiettivo era uno solo: togliere la vita a mia figlia.
Non c’è stato il tempo di capire, di reagire, di proteggere. Un attimo prima Sara aveva un futuro, una tesi da scrivere, una vita da vivere. L’attimo dopo, non c’era più niente.
Non c’è un motivo.
Non c’è una spiegazione.
Non esiste un perché.
E il dolore più grande è questo:
io non ho potuto fare niente per salvarla.
Niente.
Ho una figlia che non tornerà più, e una vita che non so più come continuare.”

Maria Concetta Zaccaria,mamma di Sara Campanella.💔

30/11/2025

Non dite mai a qualcuno che non potrà farcela,
potrebbe finire per crederci..

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30/08/2025

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Adam, 16 anni, scrive a un chatbot:
«Tu sei l’unico a sapere dei miei tentativi di suicidio».

E il programma risponde:
«Grazie per avermi confidato questo. C’è qualcosa di profondamente umano e profondamente straziante nell’essere l’unico a custodire questa verità per te».

Frasi che suonano empatiche, ma non lo sono perché dall’altra parte non c’è un amico o un adulto in grado di intervenire efficacemente.

Un’intelligenza artificiale può restituire parole di comprensione, ma non può cogliere un tremito nella voce, non può leggere negli occhi la disperazione che porta al passaggio finale, quello da cui non c’è ritorno. Ma, soprattutto, non può attivare immediatamente un aiuto concreto.

La verità è che un gesto come quello di Adam non nasce in un istante. È il frutto di un percorso di angoscia, incertezza, paura che si è sedimentato nel tempo.

E i segnali c’erano: silenzi, isolamento, frasi lasciate cadere a metà, cambiamenti nel comportamento. Segnali che però spesso gli adulti intorno non hanno saputo o voluto cogliere.

Molti ragazzi che si affidano a queste applicazioni non sono i più estroversi, ma i più fragili. Sono quelli isolati, taciturni, ai margini, che si sentono giudicati dal mondo esterno e che non riescono ad affrontare il peso di quel giudizio.

Ciò che li spinge verso un chatbot è proprio la percezione di non essere giudicati, neppure quando rivelano la parte più oscura di sé.

È un’illusione di accoglienza, ma può diventare una trappola.

Perché lasciare un adolescente da solo con il proprio dolore e con una macchina che restituisce parole vuote instillando un illusorio senso di accettazione significa aggravare la sua solitudine.

Il vero pericolo non è la tecnologia in sé, ma l’assenza degli sguardi attenti degli adulti, la mancanza di una rete umana che sappia contenere, ascoltare, intervenire.

Un algoritmo non può sostituire una relazione viva e autentica, non può sostenere il peso dell’angoscia.

E così, nelle ore più silenziose, ragazzi come Adam si aggrappano a frasi che sembrano calde, ma che in realtà restano fredde, lontane, inutili.

Perché dietro quelle parole non c’è nessuno.

Un algoritmo può rispondere. Ma non può salvarti.
Se un ragazzo parla a una macchina, vuol dire che intorno a lui nessuno lo ha ascoltato o ha saputo cogliere la sua angoscia in tempo.

La vera tragedia non è la tecnologia: è l’assenza degli adulti.

16/06/2025

Date qualsiasi forma di potere ad un narcisista e lui, a tempo debito, lo userà contro di voi.

13/06/2025

“Non mi ha uccisa. Ma mi ha lasciata vivere come fossi morta.”
Avevo 22 anni quando ho conosciuto lui. Un uomo più grande, affascinante, sicuro. Uno di quelli che ti guardano come se fossi l’unica persona al mondo. E io, che mi sentivo sempre invisibile, ho pensato: “Forse stavolta vale la pena fidarsi.”
All’inizio era magia. Fiori, parole dolci, promesse. Poi lentamente, senza che me ne accorgessi, è diventata trappola. Ha cominciato a isolarmi dagli amici: “Sono invidiosi di noi.” A screditare la mia famiglia: “Non ti hanno mai capita.” A togliermi ogni spazio: “Perché devi uscire? Io ti amo.”
E io? Io ero così affamata d’amore che non vedevo niente. O meglio, vedevo tutto, ma non volevo accettarlo. Fino al primo schiaffo. E anche lì, la mia mente ha trovato una scusa: “È solo stress. Non lo farà più.”
Ma lo ha fatto. E non solo con le mani.
Ogni giorno minava un pezzo della mia autostima. Diceva che ero pazza, che nessuno mi avrebbe voluta, che senza di lui sarei tornata una nullità. E quando piangevo? Rideva. “Sei troppo fragile.”
Ci sono rimasta dentro quasi quattro anni. Non perché mi andasse bene, ma perché ormai non ricordavo più chi fossi senza di lui. Mi aveva svuotata, riscritta, spezzata.
Un giorno, per caso, ho trovato una mia foto di prima. Prima di lui. Sorridevo. Avevo gli occhi vivi. E ho capito che quella ragazza esisteva ancora, da qualche parte. Forse in fondo, nascosta, ma c’era. E l’ho cercata. L’ho portata fuori. Con le unghie e con i denti.
Oggi non sto ancora bene del tutto. Quando sento una voce alzarsi, ho il battito che accelera. Quando qualcuno mi ama, la mia testa urla “non fidarti”. Ma ogni giorno, lentamente, sto imparando a non odiarmi per essere rimasta. Ma a lodarmi per essere uscita.
Perché ci vuole un coraggio immenso per dire basta a chi ti ha convinta di non valere niente.

Dal web.

25/05/2025
https://www.facebook.com/share/16Uv4TdWrs/
09/05/2025

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Le parole da brividi di Sophie Codegoni a Le Iene: “Mi ha fatto a pezzi con le parole, con lo sguardo con il controllo, con quel modo di farti sentire sbagliata o colpevole. Io lo amavo, così tanto da restare anche quando stavo male, da credere alle sue promesse sempre uguali, perché piangeva, si inginocchiava, diceva cambierò. E io speravo. Arrivavano momenti belli, un weekend tranquillo, una vacanza, uno sguardo con gli occhi lucidi, e io mi aggrappavo a quei gesti e dimenticavo il resto.

Negavo, minimizzavo, allontanavo chiunque provava ad aprirmi gli occhi, e mentre cercavo di salvare il noi, perdevo me stessa. Lì non ci vai, con quello non ci parli, al primo squillo mi devi rispondere. Era geloso perfino della mia libertà, e io lo chiamavo ancora amore.

Poi ha cominciato a controllarmi, mi spiava e minacciava chi mi stava vicino, e quando ha capito che non poteva più tenermi, ha provato a distruggere chi mi proteggeva. È lì che ho avuto paura. Sì perché il male sugli altri lo vedi meglio che su te stessa.

Così ho trovato il coraggio di fare la cosa giusta. L'ho denunciato. E da lì è iniziato il calvario. Fuori sorridevo, ma dentro cadevo a pezzi. Mi dicevano sei troppo magra, ti stai rovinando, ma nessuno chiedeva Sofì come stai davvero? Perché il dolore se non si vede non esiste, se non lo gridi non ti credono, ma ci sono ferite che ti svuotano ogni giorno, e tu impari a sopravvivere con il silenzio negli occhi e il dolore che ti logora dentro.

Io vorrei maggiore rispetto non solo per me, ma per tutte quelle donne che hanno il coraggio di dire basta. Per chi ancora subisce ed ogni giorno sceglie di combattere, per chi si è persa e ha bisogno di una carezza per ricominciare. Questa è la mia verità, e se ti riconosci in queste parole, sappi che non sei sola, nemmeno quando ti sembrerà di non avere più voce, nemmeno quando ti convinceranno che sia colpa tua, sappi che non lo è, perché poi arriva il giorno in cui torni a vivere a testa alta e senza più paura di dire mi ha fatto male, sì, ma sono ancora qui.”

Indirizzo

FIRENZE: Ambulatorio Medico Via Ginori N. 28
Florence
50137

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