30/09/2023
Una testimonianza davvero potente e piena di verità
Il mio primo contatto diretto con la malattia mentale l'ho avuto a due anni e mezzo, quando mio padre mi ha accompagnato all'asilo e non è più tornato. Ci ho messo 20 anni per capire il perché e altri venti per sapere cosa lo avesse spinto, un pomeriggio di aprile del 1986, a salire su un ponte e a lanciarsi nel vuoto.
Sindrome maniaco-depressiva, così l'avevano definita i medici. Per anni ho vissuto con l'ansia costante che quella malattia invisibile mi venisse a cercare in virtù di una presunta predisposizione genetica al seme della follia. Avevo anche una data precisa - o, meglio, una scadenza - segnata sul calendario: 33 anni, l'età cristologica in cui mio padre aveva incominciato a ripiegarsi su sé stesso fino a rompersi.
A lungo ho aspettato quel momento. A 16 anni sono stato colpito da quella che qualcuno cominciò a chiamare depressione: avevo chiuso i libri, smesso di uscire, mangiavo troppo o nulla. Mia madre era così terrorizzata da chiedere un parere alla zia genetista, a caccia di possibili tracce di ereditarietà, sempre escluse. Poi la crisi è passata, sono arrivati i fatidici 33 e non è successo niente. Nessuna psicosi, nessuna forma depressiva apparente, nessuno stato d'ansia o disturbo mentale.
Ero - e sono tutt'ora, credo - quello che le statistiche definirebbero un maschio sano, in salute, privo di patologie rilevanti e portatore nella media di traumi e ferite dell'io che solo alle soglie dei quaranta mi sono deciso sul serio ad affrontare. Ma sono anche la vittima secondaria di uno degli stigmi più solidi e resistenti della società contemporanea e, in particolare, cattolica: il tabù della malattia mentale e di ogni sua fatale conseguenza e implicazione.
È quello stesso stigma che oggi impedisce a centinaia di migliaia di ragazzi di riconoscere il problema e accettare il supporto psicologico di un esperto. Un giovane su cinque in Italia soffre di disturbi d'ansia, addirittura uno su quattro di depressione, di cui circa un terzo prima dei 14 anni. Eppure sono molti meno quelli che hanno avviato un percorso di psicoterapia, per rifiuto, per vergogna, ma anche per carenza di risorse destinate ai servizi di salute mentale.
«Il primo passo per affrontare il disturbo mentale è riconoscerlo» mi ha detto un amico psichiatra. Ma ciò significa, soprattutto, accettarlo, normalizzarlo, e vale anche per chi vive o ha vissuto accanto alla malattia psichica. Eppure, ancora fino a qualche anno fa, mi si abbassava la voce quando raccontavo com'è morto mio padre.
Ora non più. A 40 anni ho fatto pace con lui e coi miei sensi di colpa. Ho smesso di sentirmi sbagliato.
(La mia “Ultima parola” su Style Magazine Italia di ottobre, in occasione della Giornata mondiale della Salute mentale)