28/10/2025
Quando, anni fa, ho scelto di diventare fisioterapista, l'immagine che i miei amici si erano fatti del mio futuro lavoro era piuttosto chiara.
Nella loro testa, e forse anche un poʻ nella mia, ero già lì, con la maglietta attillata, a sistemare contratture a calciatori e modelle con problemi posturali.
E io li lasciavo sognare.
Ma poi è arrivata la realtà.
La realtà fatta di pazienti che non corrono i 100 metri, ma che lottano per riuscire a stare seduti da soli, a portare una forchetta alla bocca o a camminare per qualche metro cercando di non cadere.
Mi occupo di riabilitazione, in ambito neurologico e ortopedico.
Questo significa lavorare con persone colpite da ictus, Parkinson, sclerosi multipla, protesi, fratture, traumi.
Significa sedersi accanto a chi, magari fino a ieri era indipendente e oggi fa fatica anche solo ad alzarsi dal letto.
Altro che palestra e stretching post-partita. Qui si lavora sulla dignità, sulla motivazione, sulla voglia di riprendersi un pezzo di vita.
E sapete una cosa?
È molto più bello così.
Perché ogni progresso, anche minimo, vale quanto se non più di una medaglia.
Un ginocchio che finalmente si piega, una spalla che torna a muoversi, una mano che riesce ad afferrare un bicchiere sono conquiste che si celebrano come trofei.
E dietro ogni miglioramento c'è impegno, fiducia, e quella relazione umana che solo il tempo e il lavoro condiviso possono creare.
È un lavoro fatto di piccole grandi vittorie, di frustrazioni, di pazienza (moltissima), e di una profonda responsabilità.
Non è mai monotono, e non è mai superficiale.
E soprattutto, non è mai come se l’erano immaginato i miei amici.
Quindi no, non lavoro con atleti famosi o modelle da copertina.
Lavoro con persone vere.
Con i loro limiti, le loro paure, la loro forza.
Ed è esattamente così che ho capito di aver scelto il mestiere giusto.