
12/05/2025
"E se un domani al posto suo ci fossi io?"
Ci dicono di mettere la giusta distanza professionale per mantenere obiettività, per non farsi travolgere, per poter essere realmente di aiuto.
Mantenere una giusta distanza aiuta te e il paziente.
Giusto, vero. Serve.
Ma qual'è la distanza giusta? O meglio, come si misura la giusta distanza?
È un concetto universale? È uguale per tutti?
È la stessa nel tempo o lavorando cambia assieme a te?
Se all'inizio pensavo che la distanza professionale fosse la capacità di chiudere il paziente che esce nel "suo" cassettino della mia mente per poter aprire quello del paziente successivo, dopo 10 anni la penso in modo diverso.
Non ci sono cassettini nella mente. O almeno, non ci rispondono così bene!
Alcuni hanno cerniere buone, quando li apri ci trovi dentro qualcosa che in qualche modo riuscite a maneggiare. Li chiudi con il cuore ancora leggero, quasi come i passi del paziente che se ne va.
Altri sono così pieni che ad ogni apertura tutto esce, e vi trovate assieme a riordinare, recuperare pezzi, cercare la combinazione per farci stare tutto un'altra volta alla fine.
Lo richiudi piano, tenendo giù tutto con una mano, cercando di stropicciare meno fogli possibili, mentre il tuo paziente se ne va, stropicciato anche lui.
Sono quei cassetti pieni, stracolmi, che apri e chiudi con fatica, che ogni tanto sussultano e richiamano la tua attenzione, che ti fanno riflettere a lungo nel tentativo di capire come aiutare quelle cerniere a tenere, ma che una volta chiusi, restano chiusi.
Tutti i pazienti ti toccano dentro, guai se non fosse così. Però ad un certo punto arriva una situazione, un "caso" che ti scuote, un cassetto che non si chiude.
Non importa se è quasi vuoto o strapieno, non è una questione di "gravità della situazione".
Il punto è che quella storia ti risuona dentro, si aggancia a qualcosa di tuo, della tua storia personale.
Ti smuove. A volte poco, altre così forte che stare in piedi diventa faticoso.
È qui che la questione della distanza si fa impegnativa, è qui che si gioca la partita della professionalità, è qui che occorre prendersi cura. Di noi, prima che del paziente.
Perché quando una storia ti risuona dentro può darti gli strumenti per capire meglio il paziente e i suoi cari.
Ma può anche farti male, riportare a galla sofferenze che hai seppellito per non sentirla più, può confondere le acque del presente. E farti attribuire ad altri qualcosa che invece è dentro di te.
Nessuno è in grado di prendersi cura della sofferenza altrui se è impegnato a difendersi dalla propria.
È una br**ta favola quella del professionista della cura impermeabile, imperturbabile, inattaccabile. Quello che sa mantenere la distanza, sempre e comunque.
Chi lo diventa, purtroppo, si trasforma in un professionista che non cura più.
Lavorare a contatto con le persone che soffrono ti espone alla sofferenza, te la fa toccare con mano. Devi starci a contatto, perché il lavoro di cura è proprio lì, nel contatto con loro.
E più ci stai, più passano gli anni, più arricchisci il tuo bagaglio di parole, di strategie, di modi per leggere i bisogni e stare accanto.
Ma anche più rischi di logorarti, più si accumulano quei cassettini ostinati, che restano aperti nella mente nonostante tutti i tuoi sforzi di chiuderli.
E così c'è chi da tutto fino ad esaurire se stesso, chi finisce per non riuscire a dare più nulla, chi si indurisce per sopravvivere, chi si allontana perché diventa troppo, chi resiste e continua a dare. La fatica però si accumula.
La distanza professionale è uno strumento che il professionista impara ad usare, per sentire l'altro senza farsi travolgere, per mettersi nei panni senza immedesimarsi, per comprendere la sua esperienza senza sostituirla con la tua.
E questa non è mica una capacità innata, non la trovi nei libri di teoria assieme ai dosaggi dei farmaci. Va appresa e soprattutto curata.
Nel senso che dobbiamo imparare a prenderci cura di noi finché curiamo gli altri!
Ognuno ha la "sua" distanza, quella che gli serve per riuscire a lavorare bene nonostante i cassetti che non si chiudono.
Riconoscerla, capire perché quel cassetto si è aperto a tradimento, vedere ciò che è tuo, comprenderlo e separarlo da ciò che ti porta il paziente significa trovare la propria giusta distanza.
Capire qual'è la nostra distanza giusta è una parte fondamentale del lavoro di cura. Un punto chiave.
È qualcosa che si impara con l'esperienza, con l'ascolto di se, ma soprattutto con il confronto, attraverso la condivisione con i colleghi, che possono essere specchio e sostegno nei momenti difficili, quando abbiamo gli occhi aperti ma non riusciamo a vedere.
È un processo in continuo divenire, che una buona supervisione di équipe aiuta moltissimo.
Il lavoro di cura è un lavoro di prossimità.
La distanza professionale è un movimento interno che ognuno di noi impara a maturare.
Un'équipe di professionisti della cura che riesce ad essere accanto al paziente senza esserne travolta richiede prima di tutto la cura della squadra.
Anche e soprattutto attraverso la di .
Se ne fa ancora troppo poca, soprattutto nelle RSA. E dove c'è, non sempre è gestita nel modo corretto, da personale competente.
Una buona supervisione, fatta bene, aiuta a trovare la giusta distanza.
È uno strumento prezioso, per tutti.