02/09/2024
Stamani, in questa caldissima giornata di settembre iniziata nel grigio delle nuvole, alle 8 ho ricominciato la mia routine lavorativa. Questi sono i due spazi dove trascorro moltissime ore della mia settimana, per la maggior parte del tempo in compagnia dei miei pazienti. Per una minima parte del tempo a fare ancora qualche lavoro di ricerca, perché, insieme alla docenza, la consulenza nella ricerca mi aiuta a contrastare la “solitudine” del terapeuta e a variare la mia vita lavorativa.
Questa solitudine, rientrando dai periodi di riposo, mi colpisce sempre, è un lavoro in solitaria quello del terapeuta: siamo soli col paziente, siamo soli nello studiare, trascrivere, riflettere sul caso, siamo soli nella gestione delle emozioni che i pazienti ci suscitano, siamo soli nel tenere nella mente una storia che condividiamo solo nella supervisione o in vignette cliniche con i colleghi. E ancor di più mi colpisce il paradosso e l’ambivalenza del mio lavoro, dove ogni professionista trova le proprie strategie e il proprio modo di stare comodo nella solitudine della stanza e allo stesso tempo in una moltitudine di vite. Mi ha colpito una frase letta recentemente e attribuita a Sharpe che secondo me rende bene l’idea: “Dai limitati confini di una singola vita — limitati nel tempo, nello spazio e nell’ambiente col mio lavoro vivo un gran numero di vite. Ho contatto con esistenze di ogni tipo e con tutte le circostanze possibili e immaginabili: con la umana tragedia e la umana commedia, con l’umorismo e l’austerità, col pathos dello sconfitto e l’incredibile sopportazione e la vittoria che alcuni ottengono sul destino. Forse per questo sono personalmente assai felice di aver scelto la psicoanalisi, poiché non mi sarebbe stato mai concesso, in una singola vita mortale, di vivere e di comprendere la grande varietà di esperienze umane che è diventata parte di me stessa, se non attraverso il mio lavoro.”
Si ricomincia!