Il libro delle 18.03

Il libro delle 18.03 INCONTRI LETTERARI TRA UN AUTOBUS E L'ALTRO.Appuntamenti letterari, in un viaggio nella cultura in cui i cittadini diventano viaggiatori e protagonisti.

Cari amici de Il libro delle 18.03, a ottobre la nostra rassegna compirà diciotto anni: saremo maggiorenni!Si tratta di ...
26/07/2025

Cari amici de Il libro delle 18.03, a ottobre la nostra rassegna compirà diciotto anni: saremo maggiorenni!

Si tratta di un traguardo importante che testimonia la nostra passione, l'impegno e la tenacia nel proseguire ciò che non sarebbe stato possibile senza il sostegno da tutti voi dimostrato nel corso di questi anni.

Stiamo lavorando alla prossima edizione autunnale, che terrà conto proprio anche di questo anniversario. Sveleremo tutti i contenuti durante la conferenza stampa, programmata per il prossimo 20 settembre.
Alcune dettagli, però, li possiamo già anticipare: gli appuntamenti — tredici in tutto — si svolgeranno principalmente a Nova Gorica e Gorizia, Capitale europea della Cultura, ma anche in altre località dell’Isontino che abbiamo già avuto il piacere di toccare nelle edizioni passate.
Il programma si arricchirà di nuove collaborazioni, mantenendo vive quelle che da anni accompagnano la rassegna con professionalità e amicizia.
Vi aspettiamo con tante novità, allora, con la consueta voglia di condividere storie, parole, incontri e con il consueto brindisi finale per festeggiare il nostro diciottesimo compleanno e la nostra lunga e collaudata amicizia.

Nel frattempo, compatibilmente con le preoccupazioni del difficile momento presente, vi auguriamo una buona estate!

Arrivederci a presto!
Lo staff delle 18.03

*********************************
Dragi prijatelji Knjige ob 18.03,
oktobra bo naša prireditev dopolnila osemnajst let: postajamo polnoletni!

Gre za pomemben mejnik, ki priča o naši strasti, zavzetosti in vztrajnosti pri nadaljevanju nečesa, kar brez vaše podpore v vseh teh letih ne bi bilo mogoče.

Pripravljamo se na jesensko izdajo, ki bo upoštevala tudi to obletnico.

Vse vsebine bomo razkrili na tiskovni konferenci, ki bo 20. septembra.
Nekaj podrobnosti pa vam lahko že zdaj razkrijemo: dogodki — skupaj jih bo trinajst — se bodo odvijali predvsem v Novi Gorici in Gorici, Evropski prestolnici kulture, pa tudi v drugih krajih Goriške, ki smo jih z veseljem obiskali že v preteklih letih.
Program bomo obogatili z novimi sodelovanji, hkrati pa bomo ohranili živa tudi tista partnerstva, ki nas že dolga leta spremljajo s strokovnostjo in prijateljstvom.
Pričakujemo vas z mnogimi novostmi in z običajno željo po deljenju zgodb, besed, srečanj — in seveda s tradicionalnim zaključnim nazdravljanjem, s katerim bomo praznovali naš osemnajsti rojstni dan in dolgoletno preizkušeno prijateljstvo.

Medtem pa vam, kolikor nam trenutni zahtevni časi to dopuščajo, želimo lepo poletje!

Se vidimo kmalu!
Ekipa ob 18.03

European Capital of Culture 2025 Nova Gorica - Gorizia

“Essere più forti del dolore, rimanere esseri umani”. FK Guber Srebrenica - Hercegovac Bileća  ФК Херцеговац Билећа  3-0...
09/07/2025

“Essere più forti del dolore, rimanere esseri umani”. FK Guber Srebrenica - Hercegovac Bileća ФК Херцеговац Билећа 3-0

👉 Marzio G. Mian, autore dell’articolo, è stato ospite de "Il libro delle 18.03" nell’edizione primaverile 2025.

------
"Bisogna dire che quest’ultima di campionato l’FK Guber l’ha vinta piuttosto in scioltezza. Un secco 3 a 0 su quelli dell’Hercegovac Bileća che sono parsi nettamente inferiori nel gioco e forse meno motivati - vista la garanzia di salvezza. Per i ragazzi del Guber di Srebrenica era tutt’altra storia. Si giocavano il futuro. Retrocedere nel girone della terza divisione della Republika Srbska – l’entità serba dello stato bosniaco – significava finire nel girone infernale dei paesini e dei villaggi dove gli uomini indossano ancora le vecchie mimetiche di trenta e passa anni fa, dove ti può arrivare uno sputo sulla schiena mentre batti un fallo laterale, dove a chi porta sulla maglietta un cognome musulmano urlano “turco di merda” e al suo compagno di squadra serbo “puttana traditrice”. Che è quello che accadeva al Guber in trasferta anche in seconda divisione fino a pochi anni fa nei centri più grandi affacciati sulla Drina tipo Visegrad, Bijelina, Zvornik, quando dalle tribune partiva come una granata il classico “noz, zica, Srebrenica” - coltello, filo spinato, Srebrenica – oppure il più guerriero “Mladic-Mladic-Mladic”, efficace quanto una sventagliata nel mucchio, in onore del boia di Srebrenica, il generale che esattamente trent’anni fa ordinava l’eliminazione di oltre ottomila bosniaci musulmani, in parte radunati anche su questo campo di calcio prima di essere trasferiti per il massacro in luoghi appena più appartati e quindi sepolti con la ruspa nelle fosse comuni. Alcuni ragazzi più anziani, come il capitano e regista dal sinistro di velluto, Aljo Smajlovic, ci sono passati per quelle trasferte grondanti odio dagli spalti: “Ora è molto meglio, siamo visti quasi come un club normale”, mi dice prima dell’incontro, “ma se retrocediamo vuol dire rivivere quell’incubo. E non so quanti di noi rimarrebbero, anche se il Guber è il nostro unico grande amore, per tutti, serbi e musulmani. È l’unica ragione per non scappare da Srebrenica. Senza il Guber me ne andrei in Austria”. E Safet Merdzić, 39 anni, ex calciatore e ora responsabile delle giovanili, nella saletta dei trofei e delle riunioni che serve pure da deposito per i palloni e la calce, mi confessa che la questione è anche economica. Le casse sono pressoché vuote e in caso di retrocessione servirebbe un minimo d’investimento per aspirare al vertice e risalire nell’attuale categoria regionale (corrispondente alla nostra Lega Pro). Soldi necessari, si scopre, oltre che per ti**re avanti con rimborsi spese, divise eccetera, anche per non inimicarsi le terne arbitrali serbe. “Una delle umiliazioni che bisogna mettere in conto”, commenta amaro un dirigente. Mi mostrano video di fan celebri: i ricchi campioni bosniaci che giocano nelle grandi società europee si dicono vicini alla squadra della città martire – soprattutto al club che si ostina a rimanere il solo multietnico nell’intera Bosnia nonostante quel macigno irremovibile del genocidio. Ci sono Edin Dzeko, Miralem Pjanić, Anel Hadzić, generosi di bellissime parole e di promesse. Ma nessuno che faccia mai un bonifico, dice Safet con un sorriso amaro. È quello più teso prima della partita. Pensa ai suoi ragazzini. “Perdere potrebbe significare la fine del Guber dopo cent’anni”, dice. “Ciò che lo ha reso speciale è certo il nostro passato, quel tornado di disumanità che ha travolto Srebrenica nel 1995, ma anche essere l’unica occasione per i ragazzi di qui di credere nella vita, diventare amici. Il football qui serve a dimenticare la realtà, indipendentemente da quale famiglia provieni”. Racconta che quando giocava, l’allenatore era serbo. A Bijelina si metteva male, qualcuno urlava “uccidi il turco”. Il mister s’avventò verso le gradinate, solo contro decine di scalmanati. “Cominciate da me”, li sfidò. “Essere una squadra multietnica vuol dire convivere con un tabù, resistere grazie a un tabù. Che male c’è? È calcio, non politica. Calcio e basta, zero passato, storie, colpe, rancori… Quando i ragazzini si sentono urlare cose tremende hanno imparato a non ascoltare. E sai chi sono i più sordi? I serbi. Mai una reazione quando gli danno dei traditori. Sono così orgogliosi del loro Guber”.
E si guarda intorno, il coach dei pulcini e degli allievi. Le polaroid coi colori bianco celeste sbiaditi, le formazioni incorniciate in bianco e nero. La squadra di uno degli ultimi campionati prima del macello: il secondo da destra sui calcagni con la mano aperta alla fronte per farsi ombra è Muharem Mujcic, detto Muke, il cui corpo non è mai stato trovato; al suo fianco c’è Salko Hublić, detto Hegel, ragazzone dal sorriso beffardo, identificato in una fossa comune. “Con la guerra abbiamo perso i vecchi trofei e gagliardetti, spaccarono e bruciarono tutto”, dice Faruk Smajlović, la colonna della società, quello che segna il campo, prepara il tè, elemosina fondi e parla ai ragazzi nello spogliatoio. Con la sua rock band, gli Afera, ha composto l’inno, sparato a manetta nel riscaldamento pre partita: “Che si canti e che si pianga mentre il nostro Guber sta combattendo la sua battaglia…”
Pallonate e fantasmi, un’aquila gioca con le correnti in alto sopra il campo. Il cemento delle gradinate è marcio, spuntano i ferri come tendini scoperti, le poche case affacciate sul lato della strada che fende la vallata portano i segni delle granate, i rattoppi con la malta sembrano gigantesche margherite grigie. Sullo sfondo a Est, dietro la porta degli ospiti, si staglia esile e bianchissimo un minareto, sentinella sul memoriale e il cimitero che dilaga oltre qualche curva, 44 mila metri quadrati con 6.671 steli di marmo piantate nell’erba, quelle con i nomi delle vittime identificate. Non cambiano invece il mese, l’anno, la summa coranica: “Non dite che sono morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Allah, ché invece sono vivi e non ve ne accorgete”. La collina si sporge quasi a invadere gli spalti pencolanti, il verde è tetro, nonostante la luce smagliante di giugno; più che un bosco è una giungla pluviale. Eppure la risalivano aggrappati alle radici i disgraziati in fuga dalle belve, poi braccati tra i faggi, gli ontani e i carpini.
Eppure qui - sulle due metà campo - s’è sempre seminata la pace.

Ancora rimbombava nelle gole l’eco della Grande Guerra, scoppiata poco distante, a Sarajevo, appena oltre l’altopiano di Romanjia, quando due contadini, uno ortodosso e uno musulmano, nel 1924 donarono i loro contigui poderi di patate ai minatori di bauxite perché si straviassero con la pelota nei giorni di riposo. Per decenni fu un club di provincia come tanti in Jugoslavia, terra di football epico, piena di talenti anarchici, chiamata il “Brasile d’Europa”. Ai tempi di Tito si veniva qui con le corriere per curarsi con le acque Guber. C’è ancora una romantica stradina in acciottolato che dalla vecchia moschea di Srebrenica penetra nel fitto del bosco: quattordici fonti sgorgano dalla roccia, acque amare e ferruginose contro le malattie della pelle, l’anemia, l’ulcera. È la colonna sonora di Srebrenica: da ogni parte ti giri gorgoglia qualche torrentello color aranciata. Si dice che anche Gina Lollobrigida – su suggerimento del suo amico Tito – fosse passata da Srebrenica a ba****si il viso alla fonte che, stando all’iscrizione, promette eterna bellezza. L’FK Guber solo nel 1989 compare nei titoli dei giornali, scontati i calambour sulle proprietà miracolose di una squadra che si chiama come le bottiglie dell’acqua curativa esposta sugli scaffali di ogni farmacia della Federazione. Macina vittorie nella coppa Maresciallo Tito, elimina il Borač di Banja Luka detentrice il trofeo. Il 2 agosto 1989 trasferta a Podgorica, Montenegro, contro il Budućnost. Ottavi di finale. Manca poco al crollo del Muro, ma le scosse fanno già tremare le repubbliche e le etnie. Solo un mese prima Slobodan Milosevic ha pronunciato l’incendiario discorso per i 600 anni dal mitico e mitologico scontro coi turchi sulla Piana dei Merli, in Kosovo: “Siamo ancora in battaglia e altre battaglie abbiamo di fronte. Non sono armate, ma non possiamo escludere che lo siano”.
La partiva termina 1-1, si va subito ai rigori. In porta per il Guber c’è Jusuf Maladzic, il giocatore più anziano; il penalty decisivo per la squadra di casa lo tira - e se lo fa parare - il più giovane in campo, Pedrag Mijatovic, fresco di vittoria ai mondiali juniores, futura stella del Partizan, del Real Madrid e della Fiorentina. Solo un paio di giorni dopo, durante i festeggiamenti a Srebrenica, piomba la notizia dell’errore arbitrale: bisognava mandare le squadre ai supplementari. “Davano per scontata la nostra sconfitta questa è la verità, avevano iniziato la partita in serata, stava calando il buio e non funzionava l’illuminazione”, mi dice Nermin Pasalić, 58 anni, vecchia gloria di quell’incontro. “E poi l’aria era già avvelenata, non bisognava favorire i bosgnacchi”. Due settimane dopo si ripete la partita a Srebrenica, il Guber vende cara la pelle, ma cede proprio nei minuti finali.
Al campo i ragazzi accolgono Nermin con una certa soggezione, qualcuno arrossisce nell’abbraccio. E chi s’aspettava che oggi arrivasse anche lui, il “giaguaro”, l’ala da leggenda a dare la carica in spogliatoio? Così in tuta, nonostante la sigaretta tra le labbra e la pelata, sembra ancora capace di balzi felini, del suo celebre doppio passo. Era diventato professionista col Tuzla dopo quella cavalcata del Guber nella coppa Tito. Ma per poco, perché nella primavera del ’92 nessuno tagliava più l’erba dei campi da calcio in Bosnia. I serbi aprivano invece quelli di prigionia, proprio qui lungo la Drina, il mattatoio del tagliagole Arkan e dei suoi volontari reclutati tra gli ultras degli stadi di Belgrado. Col vecchio bomber Nermin – promessa azzoppata dalla guerra - constatiamo come il calcio abbia funzionato da detonatore nella disgregazione jugoslava, come il contagio nazionalista sia partito dalle curve. A partire dalla guerriglia scoppiata il 13 maggio 1990 a Zagabria durante Dinamo-Stella Rossa, gli scontri dilagati anche in campo, col capitano croato Zvonimir Boban che prende a pedate un poliziotto. Viene in mente lo psichiatra Radovan Karadzic, leader dei serbo-bosniaci, già medico sportivo della Stella Rossa e così ossessionato dal pallone che durante la latitanza di criminale di guerra riesce ad andare a San Siro. Oppure la partita tra Serbia-Montenegro e Bosnia nel 2005 a Belgrado, quando mezzo stadio parte a scandire “hvala Ratko”, grazie Ratko Mladic. E lui, il macellaio di Srebrenica, dov’era? Esattamente lì, allo stadio a tifare contro i “turchi”. Lo avevano scoperto – troppo tardi – gli agenti al servizio della procuratrice del tribunale dell’Aia, Carla Del Ponte. “Però vi siete dimenticati che c’è anche il nostro calcio, il nostro Guber, la nostra resistenza attiva”, interviene Faruk, malinconico e ottimista, mentre fa ripartire l’inno dall’amplificatore. Ok Faruk, però che cosa accadde allora? Com’è che finì la meravigliosa eresia del Guber multietnico? Gli sguardi si fanno vaghi, le risposte sono forse indicibili. Nessuno vuole parlare di come in poche ore si separarono i destini di quei compagni di squadra, musulmani e serbi, quando su Srebrenica calò dalle valli come un gas nervino l’odio fratricida. Quando il campo divenne il bivacco dei paramilitari di Arkan.

Com’era andata nel dopoguerra me l’ha invece raccontato Damir Bektić, l’imam di Srebrenica. “Quando le prime famiglie di musulmani cominciarono a rientrare, intorno al 2002, ricordo che i bimbi serbi giocavano in una metà del campo e i bosgnacchi nell’altra, e sai come funziona fra ragazzini… la palla finiva spesso dall’altra parte, all’inizio veniva restituita malamente, poi passata meglio, qualche accenno di dribblig, finché finirono per giocare la prima partitella… A una squadra mancava il portiere, l’altra aveva bisogno di una punta. E per vincere bisogna scambiarsi la palla, quando si segna ci si abbraccia”. Rientrarono anche gli ex biancocelesti degli anni Ottanta. Il vecchio portiere Jusuf Maladzic, l’eroe di Podgorica, un giorno lo videro che sistemava le reti delle porte. Da Tuzla tornò anche Nermin, il Giaguaro, per seppellire il padre, identificato tra le vittime del luglio ‘95. E prese una decisione storica. Insieme a un ex calciatore serbo nel 2005 rifondò il FK Guber 1924, mettendo nero su bianco nello statuto l’impegno a continuare ad essere un club per tutti, nonostante a Dayton avessero di fatto accettato la pulizia etnica imposta dalle milizie di Karadzic e Mladic col sangue e incluso Srebrenica nella componente serba della Bosnia, nonostante le fosse comuni nel circondario non smettessero di restituire migliaia di resti umani, nonostante e i musulmani fossero diventati minoranza etnica a casa loro. Per i primi fondi andarono a bussare in Olanda, il paese messo alla gogna internazionale per le gravi responsabilità dei suoi caschi blu negli eventi che portarono al genocidio. Si scoprì che il governo olandese aveva addirittura risarcito il Dutchbat Onu “per lo stress post traumatico”. Pagassero quindi almeno le docce e quel che serviva all’iscrizione al campionato.
“Sono certo che il babbo sarebbe stato anche lui tra i rifondatori al fianco di Nermin, così come mi raccontano che erano stati una coppia micidiale all’attacco prima della guerra, negli anni del grande Guber”, mi dice Irvin, 38 anni, figlio di Muharem Mujcic, detto Muke, quello che nella foto si protegge gli occhi dal sole con la mano e mai più ritrovato dopo il piombo del luglio ‘95. Il Guber abita i suoi primi ricordi, lui che va alla partita col nonno, dotato di sgabellino pieghevole per il nipote, il papà che lucida gli scarpini o che allena amorevolmente i pulcini. Irvin vive oggi nella foresta. Per incontrarlo bisogna salire da Srebrenica fino alla groppa del monte Kak, e poi al villaggio di Kasapic, una ventina di case abbandonate, divorate dall’edera e dai rovi, i tetti sfondati. Restano i buchi delle granate e il nero degl’incendi. I ruderi sembrano vasi giganti di pietra da cui spuntano le chiome degli alberi nati dopo la guerra. Sparse sui poggi di Kasapic vivevano duecento persone, i loro nomi sono scritti nel marmo all’ingresso dell’abitato. Irvin dice che stanno fuori dal conteggio degli ottomila del genocidio. “Prima che partissimo nel 1992, Srebrenica contava trentottomila persone, ora ufficialmente sarebbero undicimila, ma di abitanti veri nel distretto saremo non più di cinquemila. Nessuno vuole vivere in un cimitero”. Ma Irvin, come i reduci e sopravvissuti del Guber, ha deciso di sfidare i fantasmi. Nel mezzo della foresta ha costruito con le sue mani un villaggio in legno e pietra, ospita soprattutto studenti che arrivano da tutta Europa, per offrire loro un’idea nuova di Srebrenica, combinando il culto della memoria con l’immersione nella spropositata bellezza della natura in questo angolo di Bosnia. “L’unico modo di chiudere una guerra è quello di ricostruire, è questo il compito della mia generazione. Come hanno fatto quelli del Guber, trasformare il dolore in azione. Questa ultima partita di campionato rappresenta proprio questo, mantenere una promessa di speranza”. Irvin è tornato per riprendere il filo dell’esistenza ed elaborare un lutto che, da esule, lo ingolfava di dolore. Con la madre, il fratello e la sorella erano riparati in Italia nei primi giorni di guerra, aprile 92. Aveva cinque anni. “Quando salutammo papà, eravamo sicuri che ci saremmo rivisti dopo qualche settimana, la guerra in Bosnia non poteva durare, figurarsi a Srebrenica poi, dove non c’era mai stato un problema, pensa che deteneva il record dei matrimoni misti. Papà era rimasto a presidiare la casa. Era tutto quel che avevamo”. Racconta che si tenevano in contatto utilizzando le frequenze dei radioamatori: “Si parlava di calcio, mi chiedeva degli allenamenti nella squadra dove giocavo nel Bresciano. Ai mondiali del 1994 tifava Italia, pensando a noi. Con un paio di amici seguiva le partite importanti trasportando un televisore in spalla in cima al monte dove c’era un ripetitore, rischiavano la morte”. Il Guber non c’era più, ma a Srebrenica si palleggiava e si crossava lo stesso. Una delle peggiori stragi prima del genocidio avvenne al campetto di cemento davanti alle scuole, all’ingresso del centro abitato. “Era l’aprile del 1993, Srebrenica era stata dichiarata zona sicura, ma mancava ancora la risoluzione dell’Onu. I ragazzi si sentivano appunto già al sicuro, e avevano organizzato un torneo. C’erano cinquecento studenti. I serbi esplosero due granate e fecero oltre 60 morti”.

La città era stata sin dal ’92 un intralcio nei piani di Karadzic e Mladic, un’isola di terra nemica nel cuore della Republika Srbska: ogni tentativo di prenderla era stato respinto dalla milizia musulmana al comando di un uomo coraggioso quanto spietato, Naser Orić, ex guardia del corpo preferita da Milosevic. Il 7 gennaio ’93, Natale ortodosso, Orić e i suoi compiono un’incursione a sorpresa nelle valli sterminando molte centinaia di civili serbi e bruciando interi villaggi. La ritorsione è devastante, Srebrenica già allo stremo si riempie di rifugiati dall’intera regione orientale. Mladic impone il blocco di ogni aiuto umanitario. L’area dovrebbe essere una save zone Onu. Mese dopo mese, anno dopo anno aumenta il numero dei rifugiati, nel ’95 sono forse quarantamila. Fuggiti a Srebrenica per salvarsi la pelle. Invece Srebrenica diventa la loro trappola. Un lager. L’Europa era al mare quel luglio di 30 anni fa, la Bosnia non faceva più notizia, la guerra stava finendo. Bruxelles, le Nazioni Unite, la Nato? Solamente anni dopo hanno parlato le inchieste, sappiamo che si è lasciato che il massacro avvenisse. Ci sono i filmati dove il generale francese Philip Morillon, capo dei caschi blu, dice ai disperati: “Tranquilli, sarete protetti”. Fu la cronaca di uno sterminio annunciato. Gli olandesi stanno a guardare. Abusano delle donne, bevono grappa coi paramilitari serbi della Skorpion. Quando l’11 luglio ‘95 le truppe di Mladic occupano l’enclave, la gente terrorizzata si riversa nella sede dei Caschi blu. “Difendeteci”, implorano, “voi ci avete preso le armi, dunque voi ci difendete ora”. Ma i soldati Onu dichiarano la loro impotenza. Non hanno l’autorizzazione a sparare. E il panico si diffonde. Mladic convoca in un albergo due ufficiali olandesi, per intimidirli fa sgozzare un maiale nel cortile appena fuori la sala. Ha tutto ciò che vuole: la consegna dei maschi validi, persino la benzina per evacuarli. La gente è ammassata attorno alla sede dell’Onu a Potocari, periferia di Srebrenica, dove oggi sorge il memoriale. Gli uomini vengono portati via, caricati sui camion. A Irvin hanno raccontato che il papà era partito per i boschi insieme al fratello, poi ha cambiato idea: “Quel che succederà agli altri, che succeda anche a me”, avrebbe detto. Forse poteva salvarsi, chissà. “Ho saputo pure che stava con un gruppo di compaesani, poi uno dei paramilitari lo riconobbe, era uno con cui aveva giocato contro col Guber. ‘Ehei, Muke, come te la passi? Dai, alla svelta, sali sul camion’ – e lui è salito. Questo è quel che mi è stato riferito”.
Srebrenica continua ad essere un’isola di terra nemica in Republika Srbska. Ci sono quattro moschee, ma nessuno sa spiegarmi perché non si ascolta mai, nemmeno il venerdì, la chiamata alla preghiera del muezzin, mentre risuonano le campane della chiesa ortodossa. La convivenza sembra reggersi su equilibri insondabili. A differenza di altri centri lungo la statale che costeggia la Drina, le strade di Srebrenica sono presidiate dal tricolore serbo che sventola sui lampioni. Meno del 10 per cento dei poliziotti sono musulmani, e così alle poste e nelle scuole. “Siamo ospiti sgraditi, questa è la realtà”, mi dice un dirigente del Guber. “Srebrenica è stata consegnata nelle mani di gente che ha commesso crimini, molti ex miliziani sono ora ufficiali di polizia o funzionari pubblici. D’altronde i numeri parlano chiaro: ci furono circa ventimila persone nella regione che presero parte in vario modo al genocidio. L’esperienza del Guber insegna: qui viviamo insieme solo grazie a noi persone comuni, musulmani e ortodossi”. L’ex sindaco fino all’ultimo giorno di mandato ha negato il genocidio, che è il mantra di Banja Luka, la capitale della Republika Srbska, a partire dal leader Milorad Dodik, fantoccio di Belgrado e anche di Vladimir Putin, usato come un timer per far saltare gli equilibri di Dayton al momento opportuno: “Ma quale genocidio, è un mito fabbricato, non ne avevano uno e l’hanno fabbricato”, dice.
I ragazzi del Guber hanno fatto una gran partita, la stagione è salva, l’aquila gioca ancora con le correnti d’aria, altissima sopra il campo. Per festeggiare ci si muove solo di poche centinaia di metri, al motoraduno organizzato ogni fine primavera dall’Argentum, il club dei centauri di Srebrenica - che i romani chiamavano Argentaria per via delle miniere. Anche loro sono rinati nel 2005 come il Guber, e con lo stesso spirito “della resistenza attiva” di cui mi ha parlato Faruk. Sul grande prato ci saranno un migliaio di moto, targhe croate, slovene, bosniache, e molte sono serbe. Rock durissimo, odore di griglia, di grappa e di vecchia federazione jugoslava. Azra e Mustafa Husejnović arrivano dall’Olanda dove si sono ricostruiti una vita, hanno due figli e mestieri importanti. Ritornano a Srebrenica più volte l’anno “per caricare le batterie e per sentirci vivi”, mi dicono. “Solo qui proviamo davvero che cosa vuol dire la pace”. Mustafa ha perso quasi cento parenti nel ’95, stanno tutti al sacrario, incluso lo zio Salko Hublić, detto Hegel, il terzino del Guber che sorride seduto sui calcagni nella foto accanto al babbo di Irvin. Salta fuori che in Olanda hanno un amico biker che era nel Dutchbat 30 anni fa nello scannatoio di Potocari. “Non è stato facile condividere le nostre storie, ma ora siamo legatissimi. Non vuole ve**re al raduno, però quando ritorniamo gli facciamo vedere le foto e si commuove, anche a lui piangere dà energia”, dice Azra. “In fondo quei soldati olandesi erano impotenti, non potevano fare molto di più, no?. Chi non ha agito stava nelle grandi capitali con un cocktail in mano”.
Chiedo qual è la ricetta per essere ciò che sono. Azra guarda Mustafa negli occhi per trovare la risposta: “Essere più forti del dolore, rimanere esseri umani”.

-------------------
𝑴𝒂𝒓𝒛𝒊𝒐 𝑮. 𝑴𝒊𝒂𝒏 𝘩𝘢 𝘴𝘷𝘰𝘭𝘵𝘰 𝘪𝘯𝘤𝘩𝘪𝘦𝘴𝘵𝘦 𝘦 𝘳𝘦𝘱𝘰𝘳𝘵𝘢𝘨𝘦 𝘪𝘯 58 𝘱𝘢𝘦𝘴𝘪 𝘥𝘦𝘭 𝘮𝘰𝘯𝘥𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘪 𝘮𝘦𝘥𝘪𝘢 𝘪𝘵𝘢𝘭𝘪𝘢𝘯𝘪 𝘦 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘪. 𝘕𝘦𝘭 2023 𝘩𝘢 𝘰𝘵𝘵𝘦𝘯𝘶𝘵𝘰 𝘢 𝘉𝘦𝘳𝘯𝘢 𝘪𝘭 𝘛𝘳𝘶𝘦 𝘚𝘵𝘰𝘳𝘺 𝘈𝘸𝘢𝘳𝘥, 𝘱𝘳𝘦𝘮𝘪𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘪𝘭 𝘮𝘪𝘨𝘭𝘪𝘰𝘳 𝘳𝘦𝘱𝘰𝘳𝘵𝘢𝘨𝘦 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘦.
𝘊𝘰𝘭𝘭𝘢𝘣𝘰𝘳𝘢 𝘤𝘰𝘯 “𝘐𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘦”, “𝘓’𝘌𝘴𝘱𝘳𝘦𝘴𝘴𝘰”, 𝘙𝘢𝘪, 𝘚𝘬𝘺 𝘐𝘵𝘢𝘭𝘪𝘢, “𝘏𝘢𝘳𝘱𝘦𝘳’𝘴 𝘔𝘢𝘨𝘢𝘻𝘪𝘯𝘦”, “𝘙𝘦𝘱𝘰𝘳𝘵𝘢𝘨𝘦𝘯”, “𝘙𝘦𝘷𝘶𝘦 𝘟𝘟𝘐”, “𝘓𝘦 𝘛𝘦𝘮𝘱𝘴”, “𝘕𝘦𝘶𝘦 𝘡𝘶̈𝘳𝘤𝘩𝘦𝘳 𝘡𝘦𝘪𝘵𝘶𝘯𝘨”. 𝘌̀ 𝘵𝘳𝘢 𝘪 𝘨𝘪𝘰𝘳𝘯𝘢𝘭𝘪𝘴𝘵𝘪 𝘢𝘧𝘧𝘪𝘭𝘪𝘢𝘵𝘪 𝘢𝘭 𝘗𝘶𝘭𝘪𝘵𝘻𝘦𝘳 𝘊𝘦𝘯𝘵𝘦𝘳 𝘥𝘪 𝘞𝘢𝘴𝘩𝘪𝘯𝘨𝘵𝘰𝘯. 𝘈𝘱𝘦𝘳𝘵𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘩𝘢 𝘱𝘶𝘣𝘣𝘭𝘪𝘤𝘢𝘵𝘰 𝘥𝘪 𝘳𝘦𝘤𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘐 𝘴𝘰𝘨𝘯𝘪 𝘥𝘪 𝘐𝘳𝘷𝘪𝘯, 𝘴𝘤𝘳𝘪𝘵𝘵𝘰 𝘢𝘴𝘴𝘪𝘦𝘮𝘦 𝘢 𝘍𝘳𝘢𝘯𝘤𝘦𝘴𝘤𝘰 𝘉𝘢𝘵𝘵𝘪𝘴𝘵𝘪𝘯𝘪 𝘥𝘢𝘭 𝘭𝘪𝘣𝘳𝘰 𝘔𝘢𝘭𝘦𝘥𝘦𝘵𝘵𝘢 𝘚𝘢𝘳𝘢𝘫𝘦𝘷𝘰

https://www.illibrodelle1803.it/index.php/242-essere-piu-forti-del-dolore-rimanere-esseri-umani-fk-guber-srebrenica-hercegovac-bileca-3-1

In ricordo di Pierluigi Di Piazza.Venerdì 11 luglio, alle ore 21, nello straordinario scenario di piazza Capitolo in Aqu...
06/07/2025

In ricordo di Pierluigi Di Piazza.

Venerdì 11 luglio, alle ore 21, nello straordinario scenario di piazza Capitolo in Aquileia, si terrà l’atteso concerto dedicato a Fabrizio De André e alla sua indimenticabile Buona Novella. Prima della presentazione musicale, ci sarà un importante momento di ricordo di don Pierluigi Di Piazza.

Vito Di Piazza e Andrea Bellavite, rispettivamente fratello e amico di Pierluigi, presenteranno infatti il libro “Le dieci grandi parole. Indicazioni per la vita”. In questo testo, il fondatore del Centro Balducci di Zugliano accompagna i lettori nella scoperta della saggezza profonda insita in quelli che un tempo si chiamavano “comandamenti”, ma che nella dolcezza di don Di Piazza diventano meravigliosi insegnamenti per la vita di ogni persona e per l’armonia dell’intera società. Il linguaggio del testo è sempre intriso della caratteristica umanità di una persona che ha costruito relazioni fino agli estremi confini della terra. Ciò non toglie la forza della denuncia dell’ingiustizia e l’inequivocabile scelta di stare – nell’orizzonte del Dio di Gesù di Nazareth – sempre dalla parte dell’ultimo.

Terminata la presentazione del libro, inizierà la musica, perfettamente integrata con il tema della parte introduttiva. Sarà portata sul palco davanti alla splendida Basilica dall’associazione culturale Le Colone di Castions di Strada, con la collaborazione della Fondazione Fabrizio De André e l’organizzazione del Comune di Aquileia.

La Buona Novella, dello stesso De André e di Gianpiero Reverberi, ripercorre la vita di Gesù con gli occhi di Maria, con un’attenta analisi dei testi evangelici canonici e apocrifi e con la meravigliosa ispirazione poetica del cantautore genovese. Tra gli altri pezzi, c’è una celebre rivisitazione dei Dieci Comandamenti, molto vicina al punto di vista di Pierluigi Di Piazza.

La partecipazione è gratuita e l’ingresso in piazza è libero.

Prorogato al13 luglio 2025 il termine per il Premio intitolato a Roberto Visintin dedicato a studenti universitari in Un...
28/06/2025

Prorogato al13 luglio 2025 il termine per il Premio intitolato a Roberto Visintin dedicato a studenti universitari in Ungheria

La Fondazione Roberto Visintin e quella ungherese per la Ricerca della Grande Guerra ricordano che è possibile candidarsi con tesi di laurea o studi accademici, in lingua ungherese o italiana, che trattano temi della prima guerra mondiale e/o di rilevanza italiana, basati su fonti primarie del XIX-XX secolo. Saranno accettati studi accademici solo se presentati da studenti in regolare stato di iscrizione. Il premio, oltre a preservare la memoria di Roberto Visintin, intende supportare la continua ricerca di studenti universitari talentuosi.

I lavori devono essere inviati in formato elettronico all'indirizzo email della redazione del Blog della Grande Guerra: szerkesztoseg@nagyhaboru.hu.

La nuova scadenza per la presentazione è fissata per la mezzanotte del 13 luglio 2025 e la proclamazione dei risultati avverrà alla fine di luglio 2025.

La commissione giudicatrice è composta da membri della Fondazione ungherese di Ricerca sulla Grande Guerra, su incarico di Marino Visintin ed Evelyn Ann Todd, promotori del premio e dalla Fondazione Roberto Visintin con sede a Sagrado frazione di Sdraussina-Poggio Terza Armata..

La commissione giudicatrice è composta da Marino Visintin ed Evelyn Ann Todd e da membri della Fondazione per la Ricerca della Grande Guerra, su incarico dei promotori del bando di studio. Il vincitore riceverà un riconoscimento una tantum di 1000,00 Euro. La cerimonia di premiazione si svolgerà presso il Comune di Sagrado (Italia).

La partecipazione personale è obbligatoria.

Ricordiamo che l’edizione precedente ha visto vincitore Tibor Bartakovics (al centro nella foto), con una tesi che, attraverso diari e memorie, ha ricostruito da una prospettiva italiana l’esperienza dell’esercito italiano durante le battaglie dell’Isonzo.

Fo.Ro.Vi.
Redazione

Solstizio d’estate 2025. Buona estate al Mondo intero!di Andrea BellaviteArticolo completo su https://www.associazione-a...
22/06/2025

Solstizio d’estate 2025. Buona estate al Mondo intero!
di Andrea Bellavite
Articolo completo su https://www.associazione-apertamente.org/m/2025/06/22/solstizio-destate-2025-buona-estate-al-mondo-intero/

Il Sole ieri mattina, intorno alle 4, si è fermato (solis statio) e subito dopo ha iniziato il suo percorso di ritorno. Le ore di luce da qui a Natale saranno sempre meno, anche se per percepire le conseguenze dei raggi ci vorranno ancora un paio di mesi.

E’ l’estate nell’emisfero nord di questo meraviglioso e drammatico Pianeta, che ruota su sé stesso e intorno al Sole ininterrottamente. Ed è tanto importante per noi esseri umani questo movimento che abbiamo dato alla rotazione il nome “giorno” e alla rivoluzione il nome “anno”.

E’ una pallina minuscola nel Sistema Solare, un granello di polvere invisibile nella Galassia, uno dei miliardi di miliardi di corpi celesti che fluttuano nell’universo, sospinti su un biliardo incommensurabile da un Giocatore appassionato di energie gravitazionali.

Siamo piccolissimi e fragili, in balia delle incontrollabili potenze che ci sovrastano e ci circondano. Invece di unirci in una sola Terra, ci impegniamo a sottrarre lo spazio e il tempo della vita degli esseri umani. Soffochiamo nel nulla l’anelito all’essere, inventiamo ordigni orrendi di ogni tipo per farci del male. L’uomo delle caverne uccideva con la clava il suo vicino di grotta per sottrargli quel poco che aveva, gli invincibili rimani preferivano la Legione, imbattibile con le sue lance e gli scudi, qualcuno poi inventò la polvere da sparo e si intuì subito che le cose non sarebbero finite bene, il 6 agosto 1945 iniziò una nuova era e per la prima volta dal magmatico formarsi del pianeta l’Uomo può distruggere tutto ciò che vive, compreso sé stesso. Premendo semplicemente un bottoncino..

“Uh, che pessimista!” Commenterebbe Bruno Bozzetto! “No, realista”, rispondo io. Ma non privo di Speranza, perché convinto che ce la possiamo ancora fare a salvare il tutto. Basterebbe solo invertire la rotta, come il Sole al solstizio. Cominciando con lo smantellare, ovunque e in ogni angolo della Terra, le bombe atomiche e poi via via tutto il resto, trasformando le lanci in falci e i carrarmati in pacifici autobus per portare tutte le persone del mondo a scoprire la bellezza dell’arte e della natura. In una piccola ma stupenda casa che appartiene a tutti e a ciascuno, nessuno, ma proprio nessuno, escluso.

Buona estate, allora!

Indirizzo

Via Mattioli 30
Gorizia
34170

Notifiche

Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Il libro delle 18.03 pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.

Contatta Lo Studio

Invia un messaggio a Il libro delle 18.03:

Condividi